Marisa Madieri

Nata a Fiume nel 1938 (in origine il cognome della famiglia paterna di origini evidentemente ungheresi era Madjarić), esule, riparò a Trieste nel 1949, e per molti mesi visse in condizioni precarie, insieme a tanti altri profughi italiani, nel campo profughi del Silos presso la stazione ferroviaria. Di questo periodo avrebbe scritto poi nel suo primo libro “Verde acqua” (Einaudi 1987) in cui narra dell’esodo da Fiume, dell’identità di questa città e di altri fatti legati alla sua infanzia e adolescenza, in cui la memoria è anche ricerca delle proprie radici.

Studiò lingue e letterature straniere a Firenze, dove conobbe lo scrittore Claudio Magris che sposò e da cui ebbe due figli. Scrisse altri racconti fra cui uno in forma di parabola, “La radura” (Einaudi 1992, ripubblicato in un unico volume insieme a Verde acqua nel 1998). Si è spenta a Trieste nel 1996.

 

Il Silos

(Da »Verde acqua”- Einaudi 1987)

Feci così la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi istriani, dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto l’impero asburgico come deposito di granaglie, con un’ampia facciata ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a frotte e le donne stendevano i panni. L’esterno di questo edificio è ancor oggi visibile vicino alla stazione ferroviaria. Nel pianterreno il primo e il secondo piano erano quasi completamente avvolti nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti. In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli scomparti detti »box«, che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si aprivano tra essi strade maestre e stradine secondarie e di collegamento. ( …)

Entrare nel Silos era come entrare in un pasesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescribibile, un misto dolciastro e stantio di minestrte, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale ( … )

Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino.