Nato nel 1935 a Giurizzani, contrada di Materada, frazione di Umago, secondogenito di Ferdinando Tomizza, e di Margherita Frank Trento, proveniente da una famiglia popolare di origine slava.

Studiò prima nel seminario di Capodistria e poi al Collegio di Gorizia dove conseguì la maturità classica.  

Nel 1947 il padre fu incarcerato per due volte e i suoi beni confiscati. Il padre, trasgeritosi  a Trieste, nel 1953 gravemente malato, riuscì a tornare, accompagnato da Fulvio, a Materada, dove morì a 47 anni.

Scomparso il padre, nel 1954 si iscrisse a Belgrado all’Accademia di arte drammatica e alla facoltà di letterature romanze . A Lubiana collaborò con il regista Frantisek Cap alla realizzazione del film Attimi decisivi prsentato alla Mostra di Venezia nel 1955.

Nel 1954 con la stipula del Memorandum di Londra Tomizza decise andare a Trieste, dove erano rimasti la madre e il fratello.

Esordì in letteratura nel 1957 quando vinse con tre racconti il premio Cinque Bettole di Bordighera. Nello stesso periodo cominciò a lavorare a Radio Trieste. Per molti anni lavorò come giornalista, commentatore e inviato alla sede regionale della RAI di Trieste. Nel 1966 iniziarono le pubblicazioni della “Trilogia istriana”, che comprende i romanzi Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1965), Il bosco di acacie (1966). Nel 1965 pubblica La quinta stagione. Pubblica altri romanzi, alcuni sospesi tra la fantasia e la realtà come L’albero dei sogni (1969) con il quale vince nello stesso anno il Premio Viareggio. Seguono Dove tornare (1974) e La miglior vita (1979) con il quale si aggiudica il premio Strega. Con altre opere sperimenta la ricostruzione storica, come L’ereditiera veneziana (1989). In mezzo a questi due romanzi c’è una vasta narrativa, tra cui si ricorda La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), L’amicizia (1980) La finzione di Maria (1981) e Il male viene dal Nord (1984).  Seguono: Ieri, un secolo fa (1985), Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa (1987), Poi venne Cernobyl (1989), L’ereditiera veneziana (1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli (1993), L’abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996),  Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999), La casa col mandorlo (postumo, 2000), Il sogno dalmata (2001), Adriatico e altre rotte (2007).

Gli ultimi anni della sua vita decide di viverli nella sua natia Materada. Morì a Trieste il 21 maggio del 1999 e venne sepolto nel cimitero di Giurizzani.

Dopo la morte la locale Comunità degli Italiani di Umago gli intitolerà la propria sede sociale.

Ricca anche la sua produzione teatrale. Nel 2006 viene pubblicato Vera Verk, dramma inedito in tre tempi. Per il teatro Tomizza ha scritto anche La storia di Bertoldo e L’idealista,(1976).

Nel 2019 è stato pubblicato il volume Teatro che contiene, oltre ai testi messi in scena, anche tre inediti: Ritorno a Sant’Elia (1965), La finzione di Maria (1981) e Li homeni del mondo (1977-1987).

Tomizza ha scritto anche libri per ragazzi e bambini: Trick, storia di un cane (1975), La pulce in gabbia (1979), Anche le pulci hanno la tosse (1993), Il gatto Martino, (2001, pubblicato postumo), e La scoperta di Bild (2010, pubblicato postumo).

 

 

Da “Ieri, un secolo fa”

La fossa

La voce acuta del ragazzo la fece trasalire. “Stanno arrivando, Andrea! Li vedo, li vedo!”

Non era voce; era il grido di un giovane falco. E il vecchio rimase come inchiodato, e poi sputò. Una, due, tre volte. E si mise con accanimento a sfondare quella brutta terra. Più in fondo scendeva, più essa diventava dura e intrattabile come granito. Nel liberare la fossa, gli cadeva qua e là dalla vanga, e dentro e fuori, e gli si appiccicava al collo sudato. Ad un tratto non ne poté più e volle prender un po’ di fiato. Una perfetta calma regnava nel piccolo cimitero. E il vecchio si sentì stranamente buono e un po’ rappacificato, e disse: “O morti miei, avete tutti avuto una morte così dura! Avete fatto tutti dannare in tal modo un pover’uomo per avere la vostra onesta sepoltura?”

Non c’era che silenzio intorno a lui; solo la cima di un cipresso dondolava piano, in quella strana fissità, alla leggera brezza che alitava negli spazi più alti.

“Come vanno?” gridò.

“Come pecore. È per via del caldo. Ora sono alla vigna dei Pàhor!”

“Camminate piano, gente. Guardate i nostri magri campi, pensate alle nostre comuni disgrazie. Chinate la testa sulla strada bianca e andate piano”.

Guardò il suo lavoro; la fossa, per il resto, andava bene. Ancora qualche zappata e a occhio e croce avrebbe potuto anche bastare. Sapeva di aver fatto molto, con il caldo e quella terra come granito; sapeva di aver fatto quanto era in suo potere di fare, e che, riguardo alla pietra, era stato colpito da una sorta d’ingiustizia, più che dalla sfortuna. E si sentì offeso, lo prese la rabbia. “Non ci fosse la cassa,” si disse “potrebbe rannicchiarsi anche qui dentro: è più larga che lunga!”

Ed ebbe finito. Finito, circa. Un metro e mezzo può bastare. Ma c’era quel chiodo fisso, irremovibile, e l’ingiustizia; e strinse i denti con ira.

“Dove sono ora quei lavativi?” chiese forte.

“Si sono fermati. I portatori si dànno il cambio.”

“Certo”, pensava “era una donna piuttosto florida, e così vanno piano. Se fosse toccato al marito sarebbero andati ancora più piano. A te, pietra! Ora sono tutto con te!”

Provò a scavare sotto, per traverso. La terra era bagnata, come lo è sotto ogni grossa pietra, e piano cedeva. Cedeva.

“Non è roccia viva!” disse forte. “Non è roccia viva!”

Si sfregò le mani, le immerse nella terra scavata perché erano bagnate di sudore, riapparvero impastate di fango.

“E ora dove sono?”

“Sotto l’olmo dei Màrkovich!”

“Bravo bocia; ce la farò! Non è sasso vivo. È una grossa, brutta scarpa che bisognerà levare”.

Ma la zappa di nuovo colpì duro: la pietra ancora si estendeva in profondità. Allora cercò di far leva col manico della pala. Non riusciva a smuoverla, ma al tatto sentiva che non si trattava di roccia viva. “Potrei farmi aiutare, non è colpa mia se…” pensava, ma un attimo dopo disse a voce alta: “No, mai. E appunto per questo: perché non è colpa mia. Mai! Sarebbe la morte per me. Devo farcela; ho detto che devo farcela, e da solo!”

La voce del ragazzo si fece più forte: “Sono fra le acacie della canonica. Devo suonare, Andrea! Avrei dovuto già farlo”.

“No!” gridò. “Non ancora!”

“Bisogna che suoni. Li sento ormai cantare. Suono!”

“No, aspetta! Non è ancora il momento”.

“Mio padre me le dà, quando torna! Devo farlo ormai”.

“No, demonio! Si fermeranno ancora con questo caldo!”

“E invece avanzano spediti. Devo suonare, Andrea!”

Il vecchio prese la zappa, la sollevò in alto, la rigirò fra le mani. “E suona!” disse forte.

La campana si scosse, la corda prese a sbattere forte negli anelli di ferro; ci fu un gemere di legni. Partì il primo debole rintocco, poi un altro, un terzo, un quarto; la campana si ripeteva, si riprendeva; i suoni giravano su se stessi, come bolle di sapone. La campana ormai suonava nella testa del vecchio. Ed egli menò il primo colpo, poi il secondo e il terzo. Non davano il suono tondo della campana, ma rimbalzavano via secchi, aguzzi e azzurri in qualche modo; e sotto al ferro schizzavano via schegge e scintille.

“Dàgli!” diceva forte il vecchio. “Mostragli bene da che parte sta la forza!” E i colpi erano regolari; uno solo di essi corrispondeva esattamente a due rintocchi di campana. Din don-tàn!

Erano fuggiti i passeri dal ciuffo di canne, il cimitero pareva riprendere vita, e tutto si agitava e si rimescolava davanti agli occhi del vecchio, come l’aria e le cose sopra un braciere ardente, come un volto sulla superficie di uno stagno. Din, don-tàn!

“Dàgli, vecchio! Fagli un po’ vedere le pietre che hai frantumato con un solo colpo. Un colpo bene assestato, così!”

Il manico della zappa si piegò; un altro colpo e la lama schizzò via, finì a sbattere violentemente sul muro producendo un suono che si prolungò vibrando. Il vecchio restò immobile, col manico tra le mani. Ora un altro suono veniva a insinuarsi lentamente fra quello della campana, finché riuscì a coprirlo del tutto. Erano più suoni, ed erano passi; cantavano il De profundis.

Il vecchio alzò lo sguardo e vide il parroco e i due chierichetti, con la croce in capo al corteo. Sopra le teste di tutti dondolava lentamente la cassa della signora Catina. Pareva venissero direttamente   nel cimitero; ma quando riaprì gli occhi vide il sagrestano uscire dal gruppo e correre ad aprire la porta della chiesa. Giunto sul sagrato, il corteo si sbandò tracciando una leggera curva; e il prete, tutto nascosto nel piviale nero, varcò la soglia della chiesa.

Sentendo ora il canto attutito dalle pareti e un confuso rumore di banchi smossi, il vecchio si accorse che si era ormai nel tardo pomeriggio e che a stento si riusciva a distinguere, là in fondo, il biancore del Nànos. La campana aveva smesso di suonare.

Il ragazzo lo trovò seduto sull’orlo della fossa, con la testa china e il solo legno della zappa fra le mani. Sgranò gli occhi e, vedendo il masso scoperto e spianato dietro il corpo contratto del vecchio, gettò un grido. L’uomo non si mosse.

“Perché non lo hai detto? Perché me lo hai nascosto, prima? Perché non hai voluto dirmelo, prima?”

Il vecchio lentamente sollevò il capo e vide che il ragazzo aveva gli occhi pieni di lacrime.

“perché non lo hai detto?”

Parlò assai lentamente. “È che non ho portato la mia zappa. E non ho portato con me il maglio, né il palo di ferro.”

“E adesso che cosa farai? È pietra viva?”

“No. È una grossa scarpa sfondata, nient’altro.”

“Allora aspetta che ti aiuti. Proveremo a smuoverla in due.”

“No” disse piano, ma con decisone,

“Vado allora a chiamare qualcuno.”

“No!” disse il vecchio con più forza. “Ora no. È roba mia. Lasciami riprender fiato. Basta levarla, e la fossa è pronta, non vedi? E va’ via! Non hai da suonare?”

“Sì, quando escono di chiesa. Sì, ho da suonare” fece il ragazzo e si allontanò.

“Guai a te, sai!” gli gridò dietro.

Ma il piccolo si fermò e, giratosi, disse: “Ce la farai. Ne sono certo.” E sparì lesto dietro il cancello.

Il vecchio respirava con la bocca, gli occhi socchiusi. “Bravo, bocia. Bravo, piccolo bocia” pensava. “Tu sei la vita, piccolo bocia; la vita che saltella su questa terra di morti come gocce d’acqua su una pietra rovente. Sei il solo spasso e il solo aiuto e la sola gioia di questi poveri morti.”

Di nuovo si sentì internamente placato. Scese nella fossa, infilò un bel pezzo di manico sotto al macigno e cercò di far leva. La pietra si smosse, sollevando un po’ di terra. Il vecchio spinse il manico ancora più sotto e tirò forte. Ora riusciva a vedere il macigno, sradicato, in tutta la sua estensione. “Ecco dove ti eri cacciata”, disse “proprio qua. Non là, non là” e indicò col mento in due direzioni diverse. “Ma proprio qua, per far ammattire il vecchio Andrea”.

 

Cercava di darsi tempo, sapendo che ora l’aspettava la fatica più grossa. “Come levarla? Come sollevarla con le mie sole mani!” pensava. Come farla rotolare in un unico sforzo nei domini di Marco Devecchi?”

Provò con le mani; riusciva a sollevarla di un dito. Ricacciò sotto la stagna di legno e tirò, tirò forte. Il macigno sbandò tutto a destra. “Ohi, ohi, se mi cadi qua dentro, che è più fondo, chi ti leva più” e la lasciò posare di nuovo a terra. “Meglio riposarsi un altro istante.”

Ormai anche i pini là in fondo tendevano a fondersi in un’unica, indistinta massa scura, e sulle cime ondeggianti pareva galleggiare una lunga striscia di luce rosa e granulosa. I passeri erano tornati sul ciuffo di canne, una cinciallegra si posò un istante sulla cime di un cipresso; dalle vetrate rosso-fiamma della chiesa usciva un confuso e pigro salmodiare.

“Cantate, miei cari, cantate finché la signora Catina è ancora con noi. Finché non la mettiamo sotto questa brutta pietra. Perché allora si potrà ben dire ch’essa ha lasciato il mondo per sempre.”

Riprovò, ma questa volta con il manico del badile, ch’era molto  più lungo. La pietra si alzava, si alzava, sbandando leggermente ora a sinistra ora  a destra. Sudato e ansante, il vecchio provò allora a mettere sotto il ginocchio e, nello stesso tempo, lasciò il legno e afferrò la pietra con le sue lunghe mani. E si sentì spingere giù, si sentì quasi schiacciare. Non ce la faceva; e lasciò andare un’altra volta, bestemmiando. “Pare che non vuoi intendere ragioni, brutta cagna”, disse.

Udì di nuovo il rumore dei banchi smossi e un canto più forte che si avvicinava. Il parroco aveva intonato: “Paradisum ducant te angeli”.

Il vecchio si sentì di nuovo come inchiodato e di scatto si volse a guardare verso il campanile. Il ragazzo gli faceva rapidi, disperati segni di far presto, indicando la porta della chiesa.

Ormai cantavano sul sagrato, e la campana riprese a suonare.

Il vecchio riafferrò il badile, lo spinse sotto, sollevò con forza. Di nuovo appuntò il ginocchio, strinse i denti, afferrò bene la pietra. Si sentì ancora schiacciare giù, verso la fossa; pareva anzi che quell’enorme peso lo spingesse più in fondo possibile, fino all’inferno, come fosse anche lui uno che in vita aveva goduto i suoi giorni. Ma egli resse,  serrando gli occhi e stringendo i denti.

“Cantate, cani cantate” diceva nello sforzo. “Cantate, che per voi è facile cantarla. Avete una casa, avete famiglia, siete tutti vestiti a festa.”

E spingeva su, su, con tutte le sue forze. Ma queste gli si palesavano sempre più insufficienti man mano che la pietra saliva più in alto. Sentiva passi nel cimitero e vicina ormai la voce del prete. “Aiutami, piccolo bocia. Dove sei caro? Lascia la campana che suoni per conto suo, e corri, corri dal vecchio Andrea. Basterebbe un niente, ora. Basterebbe l’ala di una rondine. Io non ho forze. Non ho più forze, gente. Ho levato tutti i sassi dai vostri prati, li ho resi fertili campi e prima non erano che nidi di vipere. Ho zappato la vostra terra che vi ha dato tanti mai frutti, allegre risate intorno al focolare e buoni progetti per l’avvenire dei figli. Ma ora basta; non ce la faccio più.”

E il sasso gli cadde sulle mani. Non le sentiva più, le sue mani. Tutto gli si rimescolava davanti alla vista. Ormai era questione di secondi. Molti gemiti e un urlo tremendo stavano per uscirgli di bocca, ma egli si morse il labbro a sangue; la sua forza stava ora nel non aprir bocca e stare lì, paziente, ad aspettare con le mani sotto. Sentiva ormai il canto alle sue spalle. Ancora un attimo e tutti avrebbero visto, tutti avrebbero scoperto quella sua grande vergogna; la vergogna della triste vecchiaia.

“No, Andrea,” gli disse una voce aguzza di dentro “ce la fai! Chi sono per te tutti questi signori? Coraggio, Andrea, facciamogliela vedere!”

I passi frusciavano fra l’erba. La banda suonava, la campana suonava. Non vedeva più la tomba di Marco Devecchi, e il sudore gli si era agghiacciato sulla fronte. “Un ultimo sforzo, Andrea. Senti il bocia come suona per te!”

“Oh, sei la vita tu, piccolo bocia, che suoni per me!”

E il vecchio riafferrò la pietra, la sollevò con un solo sforzo fino al petto. La gente ormai lo circondava. Ci fu un po’ di scompiglio. Deposero a terra la bara della signora Catina, e tutti, sgranarono gli occhi, stettero a guardare. E uno che fosse apparso lì in quell’istante avrebbe avuto la strana impressione che quel vecchio uomo, sporco e sudato e lacero, si stesse scavando da sé la fossa, e tutta quella gente assistesse in silenzio a un terribile, barbaro rito.

La pietra era ormai sull’orlo, riusciva ad allungare un occhio su quel confuso e inconsueto formicolare di gente. A un segno del parroco due uomini fecero per accorrere.

“No, andate via!” gridò il vecchio. E fu quell’urlo strozzato, disumano, che stava per uscirgli poco prima. Ma in esso trovò l’ultima briciola di forze, ch’egli strappò con rabbia dai suoi nervi e muscoli ormai logori. E fu fatto. Il masso venne fuori, rotolò un poco trascinando con sé il vecchio, il quale vi si accasciò sopra, penzolando con metà corpo nella fossa.

A un altro cenno della mano paffuta due uomini lo trassero fuori del tutto, e il prete cercò il chierichetto con la bacinella dell’acquasanta per benedire la fossa.

 

Da “Ieri, un secolo fa” (Milano, Rizzoli, 1985, pp 193-202)

 

Da il male viene dal Nord

Esilio insidioso

 

Mio padre era stato di nuovo imprigionato, questa volta a Buje. Nostra madre, la mente sempre proiettata nell’immediato futuro servendoci la cena in tinello osservò: “Non appena torna a casa, bisognerà subito andarcene. Si rischia di perdere i diritti anche di là”.

Dentro mi confermai che mai avrei lasciato questa terra, né per Trieste né per alcun altro luogo, ugualmente estraneo per noi; sapevo del resto che così la pensava il padre. “Qui non si può più continuare” proseguì lei. “Lo vogliono morto e basta, a incominciare dai parenti.”

Si riferiva al cugino mezzadro, al quale suo padre aveva dato lo stesso nome del nipote ricco e allora corteggiato. Dalla fine della guerra godevano incontrastati l’intero podere, noi si continuava a pagare le tasse. Tale assurdità avvelenava le notti a mio padre, ma non più tranquille erano quelle del zermàn sostenuto dal potere e tuttavia rimasto impigliato in un’invidia e un odio arretrati.

“È il sistema che vuole così” sentenziò mio fratello con qualche allusione indirizzata a me. “Ci fosse almeno un avvocato di cui fidarsi. Invece non resta che subire, tacere e aspettare.”

Non sapevo contraddire la sua logica tutta di Capodistria, ed anche per questo mi rodevo dentro e, alla stregua del cugino, macchinavo propositi sanguinari proprio contro di lui e la gente come lui, che guastavano tutto.

A questi interrogativi non ebbi tempo né voglia di dar risposta, così come le nozioni relative al personaggio rimasero quelle scarse e contraddittorie ricavate dai due opposti giornali. La morte inattesa di mio padre, dimesso da un sanatorio di Trieste e spirato sul letto di casa, mi sprofondò in riflessioni e scandagli assai più imperiosi e implicanti; l’accordo tra i due Paesi di annettersi le due zone confinarie indusse infine anche a me a cambiar residenza per ricongiungermi a ciò che restava della nostra famiglia.

E se dal mio luogo di nascita era partita prima di me una larga maggioranza, compresi i coloni divenuti padroni, i compagni dei pascoli che avevano finito di crescere nell’uniforme della milizia popolare, dalla vecchia Capodistria se ne erano andati proprio tutti: paolani e pescatori, impiegati e artigiani, coristi e sportivi, le ragazze della filodrammatica, i vecchi di Bossedraga che non salivano in piazza, l’omosessuale all’ingresso del cine, lo storico Venturini, il catone Borisi, parecchi camerieri del Triglav, lo scultore Oreste dopo aver montato il monumento nello spiazzo di Belvedere: opera della nuova Capodistria che rendeva il suo primo e ultimo omaggio alla vecchia città rimasta vuota.

Dovevano trascorrere più di vent’anni prima che io ritrovassi il mio interesse per il Vergerio. Ossia le scelte, le esperienze e i nuovi incontri avvenuti in un esilio insidioso, sviluppo naturale di quanto avevo in precedenza subìto e intrapreso, mi avrebbero via via ricondotto tanto vicino a lui, da sentirmi quasi in obbligo di riprendere e portare a termine la conoscenza, malgrado che in luogo di attirarmi, assai spesso egli allontanasse anche me – e non per motivi strettamente politici – fino al ripudio. Ma più di ogni altro avrei dovuto pure cercare d’indulgere ai tempi e soprattutto considerare la stretta nella quale non solo il cattivo carattere lo aveva cacciato. D’altronde se ero pronto a riconoscerlo uomo superiore per doti mentali, ruolo e ricchezza di vita, mi consideravo autorizzato a ristabilire tale supremazia sul rovescio negativo, fino al punto di ritenerlo un modello deprecabile delle mie qualità peggiori.

Furono anche le reazioni esterne di cui nella condizione di esule anomalo mi trovai investito, a premere dentro di me perché tentassi un raffronto non so se più presuntuoso o più lesivo. Esse combaciavano con quelle già riservate a lui in modo spesso impressionante. Ciò dimostrava in primo luogo che dopo quattrocento anni il nostro orientamento civile non si era rinnovato; e tanto valeva risalire al famoso, mal conosciuto caso, che già lo rifletteva o forse lo aveva promosso.

Da “Il male viene dal Nord” (Milano, Mondadori, 1984, p.p. 43-63)

 

Perché amo vivere e scrivere ritirato nella mia Istria

Parecchi amici, alcuni lettori e qualche collega mi chiedono spesso perché e come faccia a vivere per cinque, sei mesi rintanato  ella mia Istria, senza guardare la televisione né leggere i giornali, limitando il mio contatto col mondo all’ascolto dell’ultimo giornale-radio della mezzanotte, che di notizie ne dà poche ma essenziali. A tutti cerco di far capire che quel cantuccio di terra rossa, cinto da siepi e da un boschetto di roveri, sta diventando il solo ambiente in cui mi riesce di sentirmi vivo, integro, relativamente sereno. È l’habitat precario ma insostituibile di un uomo non entusiasta della vita.

Lo strano è che più mi si allarga potenzialmente l’orizzonte del mondo, più cerco di accordare il mio respiro con quello sempre più flebile della nativa Istria. La penisoletta adagiata nel seno settentrionale dell’Adriatico la sento tutta congeniale e necessaria, da Muggia Vecchia a Capo Promontore, da Punta Salvore a Laurana, anche se la vera e propria sintonia si attua col territorio che si estende dalla «chia» (da china?) sopra le saline di Sicciòle a Fasana, escludendo non solo l’immediata Pola ma pure le cittadine costiere che in entrambi i suoi bordi gli fanno corona. È, quella, un’Istria marcatamente e forse pomposamente veneta, che in un certo senso mi esclude e che sento appartenere di diritto al suo vero cantore, Pier Antonio Quarantotti Gambini, ma anche al Giani Stuparich di «Racconti istriani».

Ciò non significa che io non ami quel dono di Dio che si chiama Rovigno, o mi senta estraneo ai pianori di terra bianca e pietra gialla sopra Capodistria. Infatti se gli impegni mi portano lontano anche da Trieste, ritornandovi e non potendo ancora spingermi oltreconfine, mi accontento di salire nel borgo di Chiadino per concordare un prossimo appuntmento con quel profilo di colline sormontato dai paesotti di Šmarje, Paugnano e Marèsego. E allorché mi inoltro al di là del fiordo del Leme, il campanile con la statua di Sant’Eufemia, che raccoglie sotto a sé le bianche case rovignesi, si fissa nella nebbia predisponendomi ogni volta a un’atmosfera di festa.

Prediligo dunque un’Istria quasi anonima, umile, a me più famigliare e subito riconoscibile per le sue medesime componenti (strade polverose tra le siepi di rovo, vigne piantate nella terra color ruggine, ulivi che sfidano il sasso, villaggi dai quali si scende direttamente nei campi) perché mi sembra meno condizionata dalla storia, più resistente alle innovazioni economiche e ai rivolgimenti politici che altrove hanno finito per imporsi fino a contraffarla. Siamo lontani dalle fontane venete e dalle ogive dei centri costieri, ma vi si tramandano, disinvoltamente mischiati allo slavo, termini quali zenso, omonimo, ossia colui che porta il tuo stesso nome: voce pressoché scomparsa nel Veneto e che qui equivale quasi a un irrinunciabile titolo di parentela. Confortano perciò ma sorprendono sempre meno le sempre più frequenti visite ai miei luoghi da parte di gitanti con le macchine targate Venezia, Padova, Verona e soprattutto Treviso. C’è chi (e si chiama Ulderico Bernardi) pianta la macchina davanti all’albergo di Umago e, armato di bastone e il russak sulle spalle, si avventura per viottoli ovvero trozi, proprio in cerca di tali reliquie linguistiche.

Il campione di questa piccola patria, e insieme matria, è costituito naturalmente dalla parrocchia natale di Materada, con la sua decina di villaggi distinti tra loro ma strettamente interdipendenti come lo sono le membra di un corpo: arroccati lungo il pendio carsico di Vàrdizza e del peggio argilloso di Matèlici, esposti al corridoio di traffico fluente da Buie a Umago e a San Lorenzo, assediati dai coltivi e dal bosco come càpita a Cranzetti, Pizzudo e a Momichià, dove mi abbarbico da maggio a ottobre. È la frazione più piccola della parrocchia, se si escludono le case isolate che pure possiedono il loro rispettabile nome e si chiamano Sterpìn e Svegro, quest’ultimo derivante dal pure scomparso vergo svegràr, equivalente a dissodare, disboscare.

Nei primi tempi del mio parziale rimpatrio mi era difficile concentrarmi in una lettura o in una qualunque occupazione tendente a interrompere il rapporto diretto e continuo col paesaggio che senza posa teneva desta la memoria. Pian piano sono riuscito a riassorbirlo o a fondermi talmente con esso che, pur trovandomi rivolto per ore e ore allo specchio d’acqua di Umago, qualche volta alla sera non so dirmi se quel giorno il mare si sia lasciato vedere. Altre volte lo sguardo rimane fisso su quella fetta azzurra solcata da navi diretta a Trieste, o che immagino avviate ai più lontani scali del Mediterraneo, ed è trascorsa una mattinata senza che io abbia letto una pagina né scritto una riga.

Non evito i paesani per lo più anziani, ma neppure li cerco. Sono sopravvissuti alle pressioni e alle contraddizioni di una storia complessa e particolare, la quale, dopo aver cercato di scandagliarla in ogni suo aspetto, ora mi interessa sempre meno. Mi sento piuttosto stimolato a confrontarmi, a confrontarci, con vicende  consumatesi altrove, o lontano nel tempo, e che questo spazio, ridivenuto ferma particella dell’universo,  non contamina né rigetta.

Di recente mi è stato anche chiesto, e stavolta ufficialmente, perché io scriva. Cerco oggi di interrogarmi sull’argomento per trovare una risposta che mi appaghi maggiormente; né esiste altra maniera di manifestare me stesso e l’idea che ho del mondo, parimenti libera, disinteressata, obiettiva anche nei miei riguardi. Nella vita ordinaria si è sempre, più o meno, ingiusti, opportunisti, persino prevaricatori e, di rimando, servili. Quando scrivo credo emergano e s’impongano sulla mia stessa natura un parametro e un  modo di essere che costituiscono come un imparziale distillato della mia personale esperienza con la vita, e il quale mi sembra abbia qualcosa a che fare con la civiltà fin qui portata avanti dalla specie umana.

Quando scrivo, non mi compiaccio di me stesso, anzi tremo; ma mi sento maggiormente degno di rispetto e più gradevole di quando vivo in società e anche in famiglia. La visione della realtà da parte di uno scrittore è insicura, spesso disperata, ma proprio per questo più severa e nel contempo più indulgente di uno che preghi, predichi, arringhi o educhi. Molte volte penso che valga la pena di vivere per tenere una tale postazione, e ad essa mi sforzo di accordare l’esistenza che conduco fuori dello scrivere. Purtroppo non sempre ci riesco, ma se ci riuscissi potrei dire che lo stato di grazia non serve a uno scrittore: esso sarebbe una condizione continua.

Nelle timide e appassionate presentazioni del mio lavoro letterario che vado facendo un po’ dovunque in Italia e nei Paesi dove alcuni miei libri sono stati tradotti, regolarmente mi viene chiesto come  mai, scrittore radicato in un periferico mondo di campagna, io abbia fatto così poco uso del dialetto nativo. La mia risposta è, e  non potrebbe che essere, invariata: «L’ambiente in cui mi sono formato, l’Istria, dista a tal punto e non solo geograficamente dal centro ove si parla un italiano puro o neutro, da aver dovuto attingere non già ai dialetti nazionali confinanti con l’area veneta, bensì alle lingue straniere di altre popolazioni comprese in quel territorio italiano di frontiera. Una mia eventuale poesia  nella parlata paesana dell’interno istriano verrebbe gustata al massimo da un centinaio di persone; né m’inciterebbe a comporla la considerazione che almeno qualche sua frase dovrebbe essere capita a Vienna e a Varsavia, a Praga e a Mosca».

Non scrivo versi, avendo da sempre nutrito per la poesia un timore reverenziale. Mi sono costantemente espresso in prosa, e dunque tratto di luoghi, volti, fatti politici ed esistenziali, che richiedono l’uso di un mezzo espressivo spedito, collaudato. Nei romanzi sulle vicende del confine, culminate con l’esodo di quelle popolazioni anche rurali in Italia, mi viene spontaneo di «tradurre» il  nostro particolare dialetto veneto in una lingua italiana quanto più semplice, a costo di riuscire povera: quella appunto diffusa negli strati popolari, e tenendo a modello l’operazione già compiuta da Verga e Tozzi, da Pavese e pratolini. Ma avrei potuto forse trascurare i prestiti contratti dalla tradizione popolare con le lingue delle nostre remote origini balcaniche, o quelli avvenuti durante la lunga dominazione austriaca quando i nostri nonni familiarizzavano coi commilitoni stiriani e romeni, boemi e polacchi?

Le «graie» (dallo sloveno «adgràjati», cingere) che delimitano le nostre strade di ghiaia, mal sopportano di venir chiamate «siepi». La fragranza di umili piatti accompagnati dalla polenta e consumati nella sola luce del focolare dovevano continuare a conservare qual sacrale senso «domàcio» che in altri luoghi corrisponde a «caseraccio». Lo stagno all’inizio o alla fine del villaggio in cui si abbeverano le mandrie di ritorno dal pascolo, è passato dal latino al ladino senza alterarsi troppo, ed è divenuto da noi l’irrinunciabile «laco». Le rotaie del treno e dei tram cittadini sembrano tutte uscite da altiforni imperial-regi e ancora si chiamano «scine». Fin dal Cinquecento in tutto il Friuli-Venezia Giulia il, pane migliore veniva impastato e cotto dal fornaio tedesco, che dall’originale «Bäcker» fu ridotto nell’idioma slavo a «pek»: e a Trieste il primo acquisto del mattino lo si fa tuttora dal pek.

È facile a questo punto arguire che parecchi miei libri abbondino di note a piè di pagina, quando addirittura non introducano un glossarietto. Il bello poi è che nelle loro versioni in sloveno, serbo-croato ed anche in tedesco, il rispettivo traduttore contraccambi il dovuto omaggio alla sua lingua infilando nella propria prosa termini prettamente italiani, soprattutto del dialetto veneto, entrati di prepotenza nella parlata di quelle genti straniere affacciate alla vita e alla cultura italiche. Sono «barbarismi» altrettanto irrinunciabili poiché danno nome a generi e strumenti di lavoro, scorci di paesaggio, specialità grastronomiche, indumenti, costumi vari, in scarso uso o addirittura mancanti nel resto di quel popolo e di quel Paese. Ed eccola la «palenta», il «bakalar», il «marendàt», la «ciakulada fra vicini di casa, sotto la «loza» delle viti, o da «balkùn», e magari sotto il «baladòr».

Più penso alle rivalità fin cruente alimentate in passato dalla diversità delle parlate, e più mi convinco che sottolineare invece il loro spontaneo convergere sia compito che ben supera la diligenza e il diletto di uno scrittore.