Santorio Santorio
Nel frattempo Santorio aveva pubblicato la sua prima opera, il Methodi vitandorum errorum omnium qui in arte medica contingunt libri XV, stampata a Venezia nel 1602 e dedicata all’analisi clinica del malato, opera accolta favorevolmente dal mondo scientifico che gli aprì le porte dell’Università di Padova, presso la quale fu nominato professore di medicina teorica, succedendo a Orazio Augenio e che mantenne fino al 1624. Risalgono a questo periodo gli studi e le pubblicazioni che gli diedero fama europea, facendone il precursore di quella nuova scuola medica definita dagli storici della medicina “iatrofisica”. Al 1612 risale infatti il Commentaria in artem medicinalem Galeni, da lui dedicato ad Andrea Morosini, nel quale confutava i commentatori di Galeno e vi abbozzava l’invenzione di un termometro, mentre nel De Statica Medica, sectionibus aphorismorum septem comprehensa del 1614, l’opera fondamentale che gli diede fama internazionale, egli raccolse i risultati di trent’anni di osservazioni ed esperienze. Il volume, suddiviso in sette sezioni, trattava il tema del ricambio tra materiale fisiologico e patologico, studiava i fattori endogeni ed esogeni nelle varie condizioni fisiologiche e nelle forme patologiche e rappresentava il primo studio sistematico sul metabolismo basale.
Partendo dalla concezione ippocratica secondo la quale la salute era l’armonia degli umori, che si manifestava anche nell’equilibrio tra le materie consumate e quelle espulse dall’organismo, Santorio mise a punto un ingegnoso dispositivo, costituito essenzialmente da una bilancia, che gli permise di controllare le variazioni di peso dell’organismo umano nelle varie condizioni normali e patologiche, che gli permise di controllare le variazioni di peso dell’organismo umano nelle varie condizioni normali e patologiche, giungendo così a dimostrare l’esistenza della “perspiratio insensibilis” e a misurare l’entità del fenomeno. Il De Statica Medica, ebbe una tale importanza nel mondo della medicina da essere considerato, fino a metà Settecento, il testo fondamentale per ogni aspirante medico.
Testimonianza di Agostino de Mula sull’invenzione del termometro
La fama raggiunta e l’autorità nelle scienze biologiche e mediche gli valsero la carica di presidente del nuovo Collegio ducale, eretto a Padova nel 1616 e poi chiamato Collegio Veneto degli Artisti, al quale lasciò una rendita annua onde permettere a dieci studenti di poter conseguire il titolo accademico. Terminato, nel 1624, l’insegnamento a Padova, ricevette offerte dalle Università di Bologna, Pavia, Messina, dei duchi di Milano e di Urbino, tutte rifiutate, perché era sua intenzione rimanere a Venezia, circondato dall’affetto dei cittadini e dei governanti. Fu eletto a preside del Collegio dei Fisici e nel 1630 la Serenissima gli affidò l’incarico di debellare la peste che stava bersagliando la città di S. Marco.
Santorio frequentò i salotti letterari e scientifici di Venezia e fu pure sensibile alla poesia, al punto che nel 1624 fece stampare nella città lagunare le Epistole eroiche di Ovidio, tradotte dal suo amico capodistriano Marcantonio Valdera. Le ultime opere da lui pubblicate furono il Commentaria in primam Fen primi libri Canonis Avicennae (1625), prezioso per le indicazioni contenute circa gli strumenti ed apparati ideati e usati da Santorio; il Commentaria in primam sectionem Aphorismorum Hypocratis (1629), opera nella quale si riassume tutta la sua esperienza pratica e si riaffermano i suoi principi, e il De remediorum inventione (1629), che presentava una serie di rimedi desunti sia dall’esperienza diretta, sia da quella di altri autori.
Una raccolta completa uscì a Venezia nel 1660 col titolo Opera omnia quatuor tomis distincta. Santorio morì a Venezia il 22 febbraio 1636, all’età di 74 anni, nella sua casa di San Marcuola, e per volontà testamentaria fu seppellito in un’arca che si era fatto costruire nella Chiesa dei Servi. Nell’omonima chiesa capodistriana i nipoti, Elisabetta ed Antonio, fecero erigere un busto del medico, collocato in seguito nella facciata principale; epigrafi che lo ricordano furono poste sulla facciata del Duomo di Capodistria e nell’atrio dell’Università di Padova, dove si conserva ancora una parte del suo cranio.
A cura di Rino Cigui