Gli attacchi al clero. Proteste nelle scuole
In questo periodo, ma già dall’inizio del primo anno scolastico gestito dal potere popolare, nelle scuole italiane di Fiume si verificarono i sintomi di una evidente inquietudine e insofferenza. La motivazione del malumore è da attribuirsi, tra l’altro, anche all’imposizione dell’insegnamento obbligatorio della lingua croata, accompagnata dall’esposizione, sin dal 29 novembre 1945, in tutte le aule dell’effige del maresciallo Tito.
La ribellione si manifestò, dapprima per mezzo di un’innocente scampagnata con l’abbandono delle lezioni in tutte le scuole medie italiane in occasione del 6 dicembre, festa di S. Nicolò. Seguirono quindi dei veri e propri scioperi studenteschi, cui vennero contrapposte delle sconsiderate reazioni poliziesche e la mobilitazione di giovani manganellatori, fatti affluire appositamente dalle fabbriche e anche da varie scuole croate.
A pagare le spese furono gli stessi studenti, 23 dei quali furono immediatamente espulsi dalla scuola. Diversi insegnanti e direttori, accusati di complicità, dovettero dare le dimissioni ed abbandonare l’insegnamento.
All’azione repressiva si accompagnò una dura campagna di stampa condotta dalla «Voce del Popolo». Nell’edizione del 9 dicembre 1945 apparve, tra gli altri, un articolo di fondo dal titolo emblematico: «Bisogna epurare le scuole».
In una relazione dell’OZNA regionale (datata, come quella relativa al caso Budicin, 4 dicembre 1945), venivano espressi dei severi giudizi sul comportamento del clero italiano guidato dai vescovi Santin e Radossi. Tra le principali accuse vi era quella di avere osteggiato le elezioni amministrative di novembre. Nella relazione si esaltava, d’altro canto, il ruolo svolto da numerosi prelati croati definiti patrioti, anche se alcuni di essi, come il parroco di Canfanaro Miro Bulešić, vennero considerati nemici del potere popolare. Secondo l’OZNA gli scadenti risultati elettorali registrati a Dignano (con solo il 51 % di votanti) e in particolare nelle isole di Cherso e Lussino, dovevano essere attribuiti alla «grande influenza esercitata dal clero e dalla reazione».
A Rovigno, invece, i segnali di insofferenza della popolazione si manifestarono con le prime azioni di protesta promosse da parte di alcuni gruppi di giovani contestatori. Si trattava del lancio di volantini antititini, che nel luglio 1945 avevano inondato le vie della cittavecchia. Sui muri apparvero delle rudimentali bandiere italiane, create con un ingegnoso sistema: il lancio di uova svuotate, nel guscio delle quali erano state iniettate delle vernici tricolori.
Questi primi gesti furono ben presto neutralizzati con l’arresto di alcuni studenti, nei confronti dei quali venne montato un processo farsa, che si concluse solo con forti ammonizioni nei confronti di tre minorenni.
Il fatto venne confermato anche dal nuovo segretario del PCC di Rovigno Giusto Massarotto (il Comitato cittadino di partito si era appena ricostituito dopo essere stato sciolto durante la Resistenza). In una sua relazione si precisava che la situazione, «oltremodo critica negli ultimi tempi era alquanto migliorata», dopo il comizio pubblico svoltosi in piazza per controbattere le tesi avversarie «penetrate in città sottoforma di lettere, articoli di stampa clandestina e manifestini che passavano di mano in mano».