Le tensioni fra italiani, sloveni e croati che si scatenarono in particolare nel periodo che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento allo scoppio della Prima guerra mondiale, si inseriscono nella più generale dimensione di conflittualità nazionale che contraddistinse la fase finale dell’Impero asburgico, finendo per condurre alla paralisi e, indirettamente, alla dissoluzione delle istituzioni austro-ungariche. Nelle terre alto-adriatiche che nel 1863 il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli propose di denominare “Venezia Giulia”, il Risorgimento italiano aveva suscitato reazioni contrastanti: grande favore fra gli italiani di Dalmazia e dell’Istria, eredi della tradizione veneziana, maggiore cautela, invece, a Fiume e Trieste, anche alla luce delle caratteristiche economiche e di grande impulso nella crescita degli investimenti e dei traffici nei due centri portuali e industriali. La classe dirigente cosmopolita, pur essendo di cultura prevalentemente italiana, aveva dimostrato fino almeno agli anni Sessanta dell’Ottocento, il proprio lealismo nei confronti dell’Impero al quale doveva non solo le sue fortune, ma che rispettava sostanzialmente la piena autonomia amministrativa delle città. La situazione iniziò a cambiare dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Il graduale affermarsi degli altri movimenti nazionali, sloveno e croato, e l’acuirsi del confronto per l’egemonia politica, amministrativa, economica e culturale in quest’area, fra gli opposti schieramenti nazionali – parzialmente “incanalata”, favorita o controllata, a seconda degli interessi del momento e delle singole situazioni, dalle stesse autorità asburgiche – produsse una realtà sociale e politica segnata da sempre maggiori tensioni e contrasti. L’affermazione delle componenti nazionali slave – sia sul piano politico che economico e culturale – venne favorita anche dal governo di Vienna, oltre che dall’affacciarsi di nuovi fattori economici, industriali, migratori, sociali e dalla graduale introduzione del suffragio universale. Ernesto Sestan mette in evidenza, in tale periodo, la duplice azione di difesa svolta dalla popolazione di lingua italiana, sia in relazione al centralismo burocratico viennese, sia nei confronti della diffusione dello slavismo. Fin dal 1861, a seguito delle proteste espresse dalle cosiddette “Diete del Nessuno”, il governo imperiale aveva emanato delle disposizioni tese a consolidare la centralizzazione e germanizzazione dell’amministrazione dell’impero. Tale politica centralista venne accompagnata, soprattutto a seguito della terza guerra d’indipendenza del 1866 (con le battaglie di Custoza e Lissa) e, in generale, del processo di creazione dello Stato italiano, da una generale diffidenza o ostilità nei confronti delle popolazioni etnicamente italiane presenti nell’Impero e della loro fedeltà verso lo Stato austriaco e la dinastia asburgica. Le vicende del 1866 rafforzarono in molti ambienti politici austriaci (fra i vertici militari, nell’aristocrazia conservatrice e nella famiglia imperiale) il vecchio sospetto sull’infedeltà e la pericolosità dell’elemento italiano e italofilo per l’Impero. L’imperatore Francesco Giuseppe, nel suo Consiglio della Corona del 12 novembre 1866, pochi mesi dopo il termine della terza guerra d’indipendenza italiana (e la relativa annessione del Veneto e parte del Friuli al Regno d’Italia), espresse «il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno». Il terreno era dunque pronto per il diffondersi di un “complesso dell’assedio” dell’italianità adriatica, che avrebbe connotato il contesto politico giuliano per tutto il Novecento. La scelta conseguente fu dunque quella del graduale affermarsi dell’irredentismo, cioè della volontà di distacco dal nesso asburgico e di annessione al Regno d’Italia. La cultura entro la quale tale opzione maturò, fra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, non era più quella risorgimentale democratica, mazziniana e garibaldina, quella contenuta nelle tradizioni dell’autonomismo o quella espressa dai valori civili e culturali di un Nicolo Tommaseo, bensì quella del nazionalismo italiano del primo Novecento, che degli altri coevi nazionalismi europei condivideva aggressività imperialista, intolleranza e xenofobia. Lo scoppio del primo conflitto mondiale, la logica di violenza e di sopraffazione della guerra, il crollo degli equilibri, dell’ordine e del contesto istituzionale dell’Impero, la crisi dei sistemi e dei valori democratici, misero a nudo queste contraddizioni e dettero libero sfogo a quelle profonde contrapposizioni sociali e nazionali che avrebbero segnato definitivamente queste terre, incrinando profondamente e compromettendo il ricco contesto multiculturale, di convivenza e coesistenza presente fra le diverse componenti linguistiche e nazionali dell’Adriatico orientale.

(Riferimenti, spunti e contenuti tratti parzialmente dalla scheda a cura di Tullia Catalan, dal volume “Foibe” di Raoul Pupo e Roberto Spazzali , Mondadori 2003)

Il nazionalismo: definizione

È innanzi tutto essenziale distinguere tra nazionalità culturale (nazione) e appartenenza politica (Stato). L’identificazione dei due termini fu operata dal nazionalismo ovvero dai nazionalismi negli ultimi decenni del XIX secolo. La definizione seguente del nazionalismo, proposta da Gellner nel suo classico Nazioni e nazionalismi del 1983, mi sembra quella storicamente più adeguata:

Il nazionalismo è anzitutto un principio politico che sostiene che l’unità nazionale e l’unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti.

Lo Stato deve quindi essere Stato nazionale.

Nei secoli precedenti la distinzione tra nazione, da una parte, e appartenenza politica ossia Stato, dall’altra, era invece considerata addirittura (si pensi ai domini della Serenissima e all’Impero asburgico).

Il nazionalismo, definito come appena detto, è una ideologia che si afferma nel corso del XIX secolo e le cui fonti vanno rinvenute, come vedremo, nella Rivoluzione francese e nel Romanticismo. A volte si distingue tra principio nazionale e nazionalismo. In base a tale distinzione il nazionalismo andrebbe inteso come quell’ideologia, sviluppatasi nella seconda metà dell’Ottocento, che sostiene in vario modo la superiorità della propria nazione sulle altre, con ovvie conseguenze espansionistiche e imperialistiche; si tratterebbe di una degenerazione del principio nazionale affermatosi della prima metà del secolo, i cui fautori, così ci viene detto, avrebbero invece sostenuto il diritto della nazionalità propria, ma nel contempo anche i diritti delle altre nazionalità. Il pensiero va naturalmente al Mazzini e alla sua idea dell’Europa dei popoli.

Questa distinzione tuttavia non sembra consistente per motivi sia categoriali, sia empirici. Sul piano categoriale la definizione proposta dal Gellner vale per entrambe le forme ora illustrate e ne coglie correttamente il denominatore comune. Sul piano empirico, ossia storico, inoltre, la distinzione tra un nazionalismo “buono”, per dir così, e un nazionalismo “cattivo”, aggressivo e prevaricatore, è poco convincente.

In primo luogo, l’idea della superiorità della propria nazione sulle altre è ampiamente diffusa nella prima metà dell’Ottocento. Si pensi ai vari autori e ai diversi modi in cui si cerca di “dimostrare” un qualche “primato” della propria nazione rispetto alle altre. Bastino due esempi famosi: i Discorsi alla nazione tedesca (Reden an die deutsche Nation) di Joahnn Gottlieb Fichte (1762-1814) pronunciati nel 1807-1808 e pubblicati nel 1808 e Del primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, opera uscita a Bruxelles nel 1843. Indubbiamente si tratta, almeno per quanto riguarda le nazioni che devono ancora diventare Stati (come l’Italia e la Germania nei casi appena menzionati) di una sorta di recupero identitario, di un comprensibile riscatto da una subalternità precedente e ormai rifiutata, ma in ogni caso un filo rosso collega queste idee alle idee del nazionalismo aggressivo della seconda metà del secolo.

In secondo luogo, anche nelle vicende politiche del 1848 l’idea e soprattutto la pratica del rispetto dei diritti delle nazioni altre non sono affatto generalizzate. Si pensi all’Assemblea di Francoforte e al suo atteggiamento nei confronti dei Cechi e anche degli Italiani, e si pensi al grande patriota ungherese Lajos Kossuth (1802-1894) e alle sue leggi del 1848 per l’annessione della Transilvania e della Croazia e per l’introduzione dell’ungherese come lingua ufficiale. Da questo punto di vista Mazzini, con la sua visione dell’Europa dei popoli affratellati, costituisce una eccezione e non una regola (e tuttavia anche Mazzini è assertore di una speciale missione affidata da Dio all’Italia).

Ritengo quindi di mantenere il termine nazionalismo nell’accezione definita supra. È a partire dall’identificazione tra nazione e Stato che i nazionalisti parlano di nazioni incompiute, ossia di nazioni che devono ancora diventare Stati, raggiungere l’unità nazionale nella forma statale (come Italia e Germania), o che devono completare il processo di unificazione con l’annessione di territori e popolazioni non ancora compresi nello Stato-nazione, da “redimere” quindi. Il termine irredentismo, non a caso di matrice religiosa, nasce in Italia nella seconda metà dell’Ottocento[2] e si diffonde in tutta Europa.

Naturalmente il nazionalismo assume nel corso della storia dell’Ottocento forme diverse, che vanno accuratamente analizzate. Già nella prima metà del secolo l’idea di nazione viene declinata in modi diversi e nella seconda metà, soprattutto a partire dall’ultimo quarto, si sviluppa in forme particolarmente esclusivistiche e aggressive

Le forme del nazionalismo

Nelle sue classiche lezioni sull’idea di nazione Federico Chabod (Chabod 1961)  propose una distinzione fondamentale tra due forme assunte da tale idea nel corso dell’Ottocento: un modo “volontaristico” e un modo “naturalistico” di intendere la nazione. La concezione volontaristica, diffusa soprattutto in Italia e in Francia, fondata su argomenti di carattere storico-culturale e legittimata dalla volontà dei cittadini, dalla loro adesione consapevole, trovò la sua efficace sintesi nella definizione di nazione come plebiscito di ogni giorno data da Ernest Renan in una famosa conferenza (Qu’est-ce qu’une nation?) del 1882, in cui la natura volontaristica della nazione è illustrata con grande chiarezza.

La concezione naturalistica (che forse sarebbe meglio denominare etnicistica, termine quest’ulitmo che mi sembra andare direttamente all’essenza di tale concezione) ha le sue origini in Germania – e si diffonde, come vedremo, nell’Europa orientale, soprattutto nelle nazioni “giovani”, in cui la formazione di una coscienza nazionale è acquisizione recente e problematica – ed è fondata su argomenti di tipo etnicistico (permanenza nel tempo della stirpe, razza); su questo fondamento etnicistico vengono naturalmente elaborati argomenti storici, come la tradizione e la lingua; la legittimazione del nazionalismo naturalistico o etnicistico, all’opposto del nazionalismo volontaristico, è, per così dire, oggettiva, basata sui “diritti storici” della stirpe, ed è pertanto indipendente dalla volontà del singolo (appartengo a questa nazione determinata, anche se non ne sono consapevole e anche e persino se non ne parlo la lingua ed esprimo la volontà di non appartenervi).

La formazione della coscienza nazionale nell’area dell’Adriatico orientale. I rapporti tra Italiani e Slavi

Solo a partire dagli anni Sessanta si può parlare di una vera e propria svolta, che si verifica dopo la formazione del Regno d’Italia. Il Regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861, diventa infatti un riferimento concreto per il nazionalismo nell’Adriatico orientale e costituisce la premessa necessaria per la nascita dell’irredentismo. È in occasione delle cosiddette elezioni del nessuno, di cui si dirà più diffusamente infra, che si manifesta infatti in modo molto chiaro l’allontanamento degli Italiani dell’Adriatico orientale dall’Impero. A partire da questo torno di tempo si verifica il progressivo passaggio dalla coscienza nazionale culturale alla coscienza nazionale politica, al nazionalismo.

Il biennio 1860-61 costituisce anche uno spartiacque  nei rapporti tra Italiani e Slavi. Nella  prima metà del secolo era diffusa fra gli Italiani la prospettiva di una collaborazione con gli Slavi in funzione antiaustriaca. Certamente si trattava di una idea problematica. Il nesso tra il nazionalismo italiano, pur incipiente e minoritario, con le idee repubblicane e anticlericali, la sua connotazione “estremistica” non solo allontanava i moderati italiani, ma motivava fin da allora anche l’ostilità degli slavi in genere molto legati al cattolicesimo tradizionale. Il conflitto restò tuttavia in linea di massima latente, perché la coscienza nazionale slovena e croata era ancora in una fase iniziale di formazione, limitata a circoli minoritari e quindi scarsamente diffusa.

L’idea di una cooperazione fra Italiani e Slavi in funzione anti-austriaca era coltivata soprattutto e proprio in quegli ambienti “estremisti”, le cui posizioni ideologiche si scontravano con il cattolicesimo tradizionale predominante negli ambienti rurali sloveni e croati. I mazziniani italiani infatti, sulla scorta delle Lettere slave di Mazzini[1], guardavano con simpatia alla rinascita nazionale degli Slavi ed erano favorevoli all’emancipazione dei popoli slavi contro l’Austria e contro la tendenza germanofila. Si configura così una sorta di paradosso: il nazionalismo italiano di ispirazione mazziniana, da una parte, allontana sul piano ideologico i popoli slavi, dall’altra, in nome della mazziniana Europa dei popoli, manifesta una notevole apertura nei confronti dell’incipiente movimento nazionale degli Slavi.

Questa situazione muta radicalmente dopo il 1860-61 (in qualche modo già dopo il 1848-49) e il paradosso di cui sopra “si risolve” dopo la formazione del Regno d’Italia: per un verso, l’esistenza del Regno d’Italia diventa un punto concreto di riferimento per i nazionalisti italiani, favorendo il passaggio al nazionalismo e la nascita conseguente dell’irredentismo; per un altro verso, l’esistenza del neonato Stato italiano appare come una minaccia per gli Slavi, e non solo per l’Austria, una minaccia per le loro rivendicazioni che, nella seconda metà del secolo, diventano sempre più radicali ed entrano in contraddizione con le rivendicazioni italiane. Nei rapporti tra Italiani e Slavi prevale così sempre più l’antagonismo e passa in seconda linea, anche se non scompare del tutto, l’affratellamento auspicato da Mazzini e dai suoi seguaci. In sintesi: quanto più la coscienza nazionale, tanto degli Italiani quanto degli Slavi, matura nel senso del nazionalismo, tanto più l’antagonismo nazionale tra i due popoli si acutizza.

La formazione della coscienza nazionale in Istria

“È una forzatura parlare del risveglio nazionale in Istria prima del 1848. In linea di massima questa è una affermazione condivisibile, che andrebbe però precisata. Infatti tra il 1820 e il 1840 si formarono nella città e nei borghi società segrete “con diverse denominazioni e più o meno legate – secondo i rapporti dell’imperial-regia polizia – alle logge massoniche italiane, analogamente a quanto avveniva in altri Stati italiani” e collegate anche alla Carboneria. Si trattava comunque di posizioni costituzionali-liberali, non unitarie italiane in senso proprio. L’Istria, come si è detto, appare strettamente legata a Trieste. A “La Favilla”, collaborano gli istriani Antonio Madonizza e Antonio Facchinetti, il primo di Capodistria e il secondo di Visinada. Di Albona è Tommaso Luciani, che dal 1843 collabora con il Museo d’antichità del Kandler, dando inizio a un lungo e proficuo sodalizio, e nel 1846 comincia a collaborare al settimanale kandleriano L’Istria (Tolomeo 2006). Il capodistriano Antonio Madonizza (1806-1870), oltre ad essere uno dei fondatori della Favilla triestina e della Provincia di Capodistria, alla Costituente austriaca nel 1848 affermò con gli altri deputati istriani i diritti nazionali degli Italiani dell’Istria e alla Dieta istriana del 1861 capeggiò la maggioranza liberale che votò il separatistico «Nessuno» (Dizionario 2009).

Accanto a favillatori vanno ricordate altre figure importanti, a cominciare da quella di Carlo De Franceschi (1809-1893), nato a Moncalvo di Pisino, che ebbe rilevanti contatti con la Carboneria e fu storico e giornalista di valore. Appartenente a una famiglia di intellettuali e patrioti, fu deputato liberale a Vienna nel 1848 e segretario della Dieta istriana del «Nessuno»[3].  L’avvocato Francesco Vidulich di Lussinpiccolo (1819-Parenzo 1889) fu podestà della sua città natale, deputato per le isole del Quarnero alla Costituente di Vienna nel 1848, successivamente deputato provinciale e capitano provinciale dell’Istria; liberale di grande dirittura morale, seppe difendere l’italianità della provincia e promuoverne lo sviluppo economico. (Dizionario 2009). Di Isola d’Istria fu il poeta romantico Pasquale Besenghi degli Ughi (1797-Trieste 1849), che combatté per la libertà della Grecia a fianco di Byron. Amico del Tommaseo, compose vigorose Canzoni e alcune opere satiriche come le Novelle orientali e Gli apologhi.

Dell’apertura al mondo slavo un protagonista fu il visinadese (fu parroco di Visinada) Antonio Facchinetti (1805-1867) che nel 1847 pubblicò  su L’Istria del Kandler  il saggio Degli slavi istriani (in particolare sugli usi del popolo sanvincentino), una memoria, per usare le sue parole, “sull’indole e sui costumi degli Slavi Istriani”.

Nel 1828-29 viene pubblicata a Trieste la Biografia degli uomini distinti dell’Istria di Pietro Stancovich. Nativo di Barbana d’Istria. Pietro Stancovich (1771-1852), uno dei maggiori intellettuali istriani dell’Ottocento, archeologo e storico.

Il biennio 1848-1849

La risurrezione della Repubblica di San Marco e il ricordo di Venezia giocarono un ruolo importante nel1848 in Istria, dove comparvero anche tricolori italiani in Istria e anche in Dalmazia (ma non sembra ciò sia avvenuto a Trieste e a Fiume).

Nel 1848 si ebbero le prime affermazioni di identità nazionale di tipo politico “soprattutto tra i ceti dominanti delle città costiere istriane, ma anche nell’interno dell’Istria, concretamente a Pisino, da dove non a caso giungevano gli italiani più convinti (Carlo De Franceschi, Egidio Mrach)”[7].

Tra il 1848 e il 1860

Anche in relazione alla seconda guerra dell’indipendenza va segnalato il fenomeno del volontariato istriano, fiumano e dalmata.

Se il 1848 costituisce un momento fondamentale per lo sviluppo della coscienza nazionale italiana (e anche slava, come vedremo) in Istria, va comunque ribadito che il vero punto di svolta per l’Istria deve considerarsi l’anno 1860. Il 1860 segna, da una parte, la fine del periodo dell’assolutismo nell’Impero e, dall’altra, il compimento di fatto dell‘unità d’Italia proclamata ufficialmente l’anno successivo.

La possibilità di partecipare nuovamente alla vita politica fece emergere la disaffezione della componente italiana nei confronti dell’Impero. Le elezioni della prima Dieta dell’aprile 1861 sono ben note come le elezioni del “nessuno”.

Ideputati eletti per due volte, al momento di scegliere un rappresentante per il parlamento imperiale e di inviare all’Imperatore un indirizzo di omaggio, in maggioranza (20 su 29) scrissero sulle schede “nessuno”. In ciò seguirono l’esempio dei deputati radunati a Venezia. Tale atteggiamento inevitabilmente porto al proscioglimento della Dieta e a nuove elezioni. Nel settembre del 1861 si ebbe la seconda Dieta, con membri per lo più fedeli all’autorità imperiale.

La disaffezione trae alimento dalle vicende precedenti e dalla avvenuta costituzione dell’unità nazionale italiana (il Regno d’Italia viene proclamato il 17 marzo 1861, un mese prima delle elezioni della prima Dieta istriana). Sempre nell’aprile 1861, il 22, alle elezioni dei quattro deputati di Fiume per la Dieta di Zagabria gli elettori fiumani scrissero anch’essi sulle schede “nessuno” e la Dieta Dalmata, riunita a Zara, non accolse l’invito a partecipare alla Dieta di Zagabria per trattare l’unione della Dalmazia alla Croazia e Slavonia. Nel caso di Fiume, e anche nel caso della Dalmazia, si tratta dell’affermazione di una posizione autonomista tradizionale, di una rivendicazione di nazionalità culturale e non politica. Nel caso dell’Istria è invece più probabile una connotazione politica in senso italiano più accentuata.

È un fatto che la proclamazione del Regno d’Italia venne salutata con manifestazioni entusiastiche nelle città del “litorale austriaco”, mentre il governo di Vienna diventa sempre più favorevole alle richieste degli Sloveni e dei Croati, suscitando la preoccupazione dell’elemento italiano.

(Testo a cura di Giovanni Stelli, presidente della Società di studi Fiumani di Roma)

A Fiume

Fiume costituisce un caso esemplare di una coscienza nazionale di tipo culturale che rimane prevalente durante tutto l’Ottocento fino allo scoppio della Grande Guerra. Il caso della città liburnica è, per certi versi, simile a quello di Trieste, ma soprattutto a quello della Dalmazia, per il costante richiamarsi ad un ideale di autonomia, sancito certamente da documenti ufficiali, ma anche enfatizzato e a volte mitizzato. In questo senso Fiume costituisce una sorta di anacronismo storico di grande interesse.

La differenza più evidente rispetto alla Dalmazia è nel rapporto secolare di Fiume con l’Ungheria. Basti qui ricordare l’entusiasmo con cui fu salutata a Fiume la reincorporazione al Regno d’Ungheria avvenuta nel 1822, dopo un periodo di assolutismo e centralismo viennese seguito al periodo francese.

Italianità linguistico-culturale e autonomia sono strettamente legate: questa connessione  risulta chiaramente dal Diploma di Maria Teresa del 1779, punto fondamentale di riferimento di tutti i Fiumani, in cui viene riconosciuta la dipendenza diretta (ossia, si badi, non attraverso la Croazia, come era stato stabilito dal precedente rescritto imperiale del 1776) della città dall’Ungheria, menzionando, tra l’altro, la differenza di Fiume dalla vicina città di Buccari “da sempre appartenente alla Croazia”.

La coscienza nazionale italiana a Fiume è così strettamente connessa ad un ostentato lealismo politico ungherese. Ciò si manifesta in modo chiarissimo nel corso del “periodo croato”, un periodo che inizia il 31 agosto 1848 quando la città viene occupata dalle truppe croate di Bunjevac per mandato del bano Jelačić e si prolunga fino al 1868. In questo periodo la coscienza nazionale e autonomista dei Fiumani si esprime in una serie di posizioni e di iniziative culturali di grande rilievo.

Di fronte ai Croati, che miravano ad incorporare Fiume nella Croazia all’interno del cosiddetto Triregno di Croazia, Slavonia e Dalmazia nell’ambito dell’Impero, i Fiumani oppongono il loro “patriottismo”, un “patriottismo” che è italiano sul piano culturale e ungherese sul piano politico.

Il patriottismo del Casino patriottico – il più importante sodalizio cittadino, il cui edificio venne eretto al Corso nel 1847 e che ebbe tra i suoi dirigenti il fior fiore della élite economica e culturale fiumana (da Iginio Scarpa a Lodovico G. Cimiotti a Carlo Meynier) – si riferiva ovviamente alla patria imperiale, all’Impero asburgico e all’Ungheria. Difesa intransigente dell’autonomia municipale e lealismo politico magiaro: è questo il binomio essenziale che definisce la posizione dei Fiumani, al di là di differenze e divisioni interne che pure non mancavano. Una posizione questa sostenuta, con tonalità differenti, dalla stampa cittadina, come l’“Eco di Fiume”, comparso nel 1854 e che ebbe come editore e redattore Ercole Rezza, e “La Bilancia”, dapprima settimanale e poi quotidiano “politico-commerciale-marittimo” fondato nel 1867 dall’editore e scrittore Emidio Mohovich.

E proprio a partire dal 1848 si sviluppa una storiografia locale che argomenta sul piano scientifico le ragioni storiche e ideali dell’autonomia cittadina. Il suo atto di nascita risale alla decisione presa dalla Municipalità fiumana il 3 luglio 1848, quando l’occupazione croata di Fiume era ormai nell’aria, di nominare una Commissione storica di cinque membri per difendere con una indagine documentata “i diritti [della città] stabiliti col Diploma teresiano dell’anno 1779 e colle successive relative leggi”. A far parte della Commissione furono chiamati Giuseppe Politei, Ludovico Giuseppe Cimiotti, Girolamo Fabris, Giovanni Kobler e Pietro Rinaldi. Frutto immediato di questa decisione fu l’“Almanacco fiumano”, edito con cadenza annuale dal 1855 al 1860 a cura del Politei: vi vennero pubblicati documenti fondamentali, come il testo della Sanzione Prammatica del 1725 e il primo libro dello Statuto del 1530, epigrafi e saggi di studiosi come Kobler, Kandler, Luciani, Turchich e dello stesso Politei. Uno dei membri della Commissione, l’erudito Ludovico Giuseppe Cimiotti, che già nel 1844 aveva rivolto un appello per raccogliere tutte le informazioni utili alla storia della città, accumulò materiali per una raccolta che voleva intitolare Rerum Fluminensium Scriptores e lasciò numerosi lavori tutti inediti, tra cui una storia di Fiume in sei volumi intitolata Publico-politica Terrae Fluminis S. Viti adumbratio historice ac diplomatice illustrata, che verrà parzialmente pubblicata e utilizzata dopo la sua scomparsa. L’opera pionieristica del Politei e del Cimiotti costituisce la premessa della grande fioritura della storiografia fiumana dopo la riannessione della città all’Ungheria.

Il culmine di questa battaglia di Fiume in difesa della sua autonomia e del suo legame diretto con la corona ungherese si verificò (come si è detto in precedenza, ricordando anche le elezioni tenutesi nello stesso anno alla Dieta dell’Istria e alla Dieta Dalmata) nelle elezioni del 22 aprile 1861 per i quattro deputati fiumani da inviare alla Dieta di Zagabria: “su 870 votanti dei 1.222 compresi nelle liste, 840 scrissero sulla scheda la parola nessuno, mentre soltanto 30, tutti pubblici funzionari, vi segnarono un nome”.Con la riannessione della città all’Ungheria – che si può datare al 5 aprile 1867 con la nomina del Commissario straordinario Cseh e, sul piano formale, al rescritto imperiale del 7 novembre 1868 – il rapporto con l’Ungheria si intensifica: la seconda metà del secolo è fondamentale per lo sviluppo economico e sociale della città, che diventa il porto dell’Ungheria, “la più bella perla della corona di Santo Stefano” e segna anche il periodo d’oro della storiografia fiumana con l’opera di Giovanni Kobler, pubblicata postuma dal Municipio col titolo Memorie per la storia della liburnica città di Fiume. L’opera del Kobler, pur incompiuta, è una difesa dell’autonomia fiumana in opposizione puntale alle tesi dello storico croato Rački.

Il rapporto speciale con l’Ungheria influenza anche i rapporti con l’Italia, dove, se il sentimento antiaustriaco era ben vivo, nei confronti dell’Ungheria prevalevano, all’opposto, sentimenti amichevoli:

L’atteggiamento politico  filoungherese  dei  Fiumani che, pur non essendo allora affatto irredentisti, avevano manifestato comunque viva simpatia per il moto

di unificazione nazionale dell’Italia ed alcuni erano stati volontari garibaldini – era anche influenzato dagli ottimi rapporti che si erano formati tra Ungheria e Italia

nel periodo del Risorgimento: le due nazioni avevano combattuto contro il medesimo nemico, l’Impero d’Austria, Kossuth aveva trovato in Italia una seconda patria, il colonnello Tüköry aveva versato il suo sangue per la liberazione della Sicilia, il generale Türr era stato collaboratore di Garibaldi. In realtà agli occhi dei Fiumani la lontana, geograficamente e linguisticamente, Ungheria non costitutiva una minaccia per l’italianità della città, ma era anzi vista come una difesa contro i vicini Croati e le loro mai dismesse mire di annessione.

Di una coscienza nazionale politica ossia di un esplicito nazionalismo italiano si può parlare a Fiume solo a partire dal luglio 1905, che è la data di fondazione del circolo irredentistico “Giovine Fiume” di ispirazione mazziniana. E non a caso si tratta dello stesso anno in cui, circa due mesi dopo (3 ottobre) il politico croato Franjo Supilo promuove la “Risoluzione di Fiume” (Riječka Rezolucija) in cui si rivendica l’annessione dell’Istria, della Dalmazia e di Fiume alla Croazia-Slavonia, in vista della realizzazione del cosiddetto Triregno all’interno dell’Impero[16].

Senza poterci qui soffermare sul periodo che va dal 1860 al 1914, ci limitiamo a ricordare che, nonostante l’attiva presenza di un gruppo di irredentisti, la formazione politica che raccoglie la maggioranza dei consensi resta a Fiume, fino alla Grande Guerra, l’Associazione autonoma fondata da Michele Maylender nel 1896 e guidata dal 1905 da Riccardo Zanella. L’Associazione o Partito autonomo nasce in opposizione alla politica centralizzatrice del governo ungherese, contro cioè la magiarizzazione promossa dagli ambienti nazionalistici ungheresi che pone fine al cosiddetto idillio ungherese precedente. Gli autonomisti fiumani sostengono l’identità di interessi tra ungheresi e fiumani italiani contro le pretese croate, alimentate dal nazionalismo croato e “jugoslavo” in pieno sviluppo, e denunciano i pericoli per la stessa Ungheria che deriverebbero dalla miopia del nazionalismo magiaro che questa identità di interessi mette in questione , alienandosi così la tradizionale simpatia e il tradizionale lealismo dei Fiumani italiani.

In Dalmazia

Il legame della Dalmazia con l’Italia è un legame indiretto, attraverso la Repubblica di Venezia, la cui fine, sancita dal Trattato di Campoformido del 17 ottobre 1797, suscitò nelle città dalmate grande commozione e rimpianto. Famoso a tal rigurado è il cosiddetto Compianto o Addio di Perasto, una cittadina situata nelle vicinanze della Bocche di Cattaro: interpretando l’animo di tutti i dalmati, il comandante della guardia nel consegnare ai sacerdoti il gonfalone perché fosse sotterrato sotto l’altare con le reliquie dei santi, lo salutò con un discorso in dialetto veneto, in cui disse:

Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per Ti, o San Marco; e fedelissimi sempre se avemo reputà: Ti con nu, nu con Ti; e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi. Nissun con Ti ne ha visto scampar, nissun con Ti ne ha visto vinti e spaurosi!

Il motto “Ti con nu, nu con Ti”, anche se riferito a Venezia, “commuoverà tutta la Penisola e sarà ripreso dalle fanterie di marina italiane”.

Nel periodo francese tutta la costa adriatica orientale viene annessa al Regno d’Italia dal 1806 al 1809. Il “Reggimento Real Dalmata” venne inquadrato nell’armata del regno italico di Beauharnais e con essa partecipa alla campagna di Russia. Nel 1809 vengono però istituite le Provincie Illiriche (1809-1814) con capitale Lubiana e il baricentro politico della Dalmazia si allontana dall’Italia.

La posizione di Niccolò Tommaseo (1802-1874) sulla Dalmazia è esemplare: il grande patriota damata italiano sostiene per la Dalmazia una soluzione autonomista e federalista, una posizione che verrà ripresa dai maggiori esponenti dalmati italiani anche nella seconda metà del secolo. La posizione tommaeana si fonda su argomenti storici, ma ha a suo fondamento anche implicite categorie filosofiche che derivano dalla sua opzione cristiana.

La peculiarità storica dell’identità dalmata, secondo i Tommaseo, sta proprio nell’essere la Dalmazia sospesa tra due culture e due lingue, frutto di un incontro fra stirpi e culture diverse,  per cui “Patria viva non ha chi di te nacque”:

Né solo i sangui si sono commisti, e le glorie, i dolori, le utilità e le speranze compenetratesi; ma scambiaronsi i nomi stessi. Famiglie italiane spente, vivono nelle slave, e alle slave lasciarono l’eredità delle memorie e degli averi; famiglie slave assunsero nomi italiani.

Esiste quindi per Tommaseo una nazione dalmata: essa è una “di quelle regioni che per loro posizioni e loro natura Iddio ha voluto fare intermediarie fra popoli diversi” e un suo aspetto importante è l’uso della lingua italiana. Ma, si badi, non si tratta affatto di un esclusivismo linguistico: gli autonomisti, come Tommaseo, non solo non negavano la prevalenza slava nella regione dalmata nel suo complesso, ma non erano affatto ostili all’uso della lingua slava ossia del croato. Anzi, lo scrittore di Sebenico,

ritornato in patria dopo un lungo girovagare dall’Italia alla Francia, sente il bisogno di riacquisire […] anche l’idioma della madre. In questo ambito non può fare a meno di ricordare le canzoni popolari dell’entroterra dalmata in particolare, divenute famose in Europa, grazie anche all’opera dell’abate Alberto Fortis: “Nazione novella è l’illirica, le cui maschie e calde canzoni sono ormai da tutta l’Europa ammirate”.

La pluralità linguistica è perciò una ricchezza. Così scrive il Tommaseo:

“La varietà ci aiuta a sentire l’unità, come la melodia di più cetere fa più compiuto e più schietto concento. Le lingue umane son lire che insieme suonano e mandano al cielo la voce dei popoli desideranti alla patria sovrana. Può l’una lingua non si mescolare coll’altra né corrompere: come sorelle vergini che si baciano in casti baci; com’alberi mondi che fra sé non s’aduggiano, e ornano il poggio; come ruscelletti puri che mormoranti ciascuno nel suo canaletto, irrigano le campagne”.

Questo è il retroterra teorico che spiega l’attività di filologo e storico della poesia popolare di Tommaseo. La raccolta di poesie popolari in quattro lingue (italiano, latino, francese e greco) intitolata Scintille  e la raccolta Iskrice in serbo-croato edite separatamente a Zagabria nel 1844 costituiscono un’opera plurilingue e multiculturale, frutto di un pensiero politico maturato nell’esilio, richiama l’attenzione dell’Europa su quei popoli che sono al margine delle grandi potenze, ne promuove la conoscenza storica e culturale, i valori e la dignità per aprire a un dialogo che sia di reciproco arricchimento.

Si trattava di una posizione inter-etnica, di collaborazione tra Italiani e Slavi, sulla base dell’idea di una specificità dalmata, e fondata, più in generale, su una visione della cultura come sintesi di universale e particolare, in cui ogni nazione o popolo contribuisce con il suo apporto specifico originale in feconda collaborazione e proficuo scambio con gli altri popoli e nazioni.

Questa posizione, ripresa dal partito autonomista dalmata, era però destinata alla sconfitta. Nella seconda metà del secolo la pressione del nazionalismo croato e, nel contempo, il declino demografico (e quindi politico) degli italiani nelle città dalmate (eccetto Zara]) determinarono una progressiva perdita del carattere interetnico del partito autonomista, a cui si opponeva ormai un agguerrito partito nazionale croato annessionista. I Dalmati italiani cominciarono a guardare al neocostituito Regno d’Italia e si avvicinarono progressivamente all’irredentismo, come dimostra, tra i tanti esempi che si potrebbero addurre, l’itinerario politico esemplare dello zaratino Roberto Ghiglianovich (1863-1930).

Rispetto alle altre regioni d’Italia, nella Venezia Giulia il fascismo conobbe un precoce sviluppo anche alla luce delle condizioni favorevoli innescate dai conflitti e dalle tensioni nazionali che continuavano ad imperversare in quest’area dalla fine dell’Ottocento, in un crescendo che il primo conflitto mondiale e la crisi politica, sociale ed economica dell’immediato dopoguerra contribuì senza dubbio ad alimentare. Carattere distintivo del “fascismo di frontiera” fu infatti l’epopea della “difesa del confine nazionale”, contraddistinta da una forte aggressività contro i nemici esterni ed interni. 

Le squadre fasciste, guidate dal prefetto Francesco Giunta, seppero cogliere e cavalcare queste tensioni della società civile, che ben si coniugava agli schemi con cui i poteri militari interpretavano la realtà locale. La data del 13 luglio 1920, con l’incendio del Narodni Dom a Trieste, e con gli atti di violenza che, parallelamente, ebbero luogo in vari centri della regione, rappresenta un simbolico punto di svolta: determinarono chiaramente lo scenario dell’alleanza fra i nuovi portatori di violenza e quelle parti dello Stato liberale non più disposte a rispettare le tradizionali regole democratiche e della convivenza. 

Dopo la conquista del potere, l’eversione fascista si fece violenza di Stato, volta alla distruzione dell’identità nazionale delle popolazioni croate e slovene. A tale obiettivo concorsero sia la legislazione repressiva applicata in tutto il Paese contro gli oppositori al fascismo, sia una serie di misure specificatamente mirate alla “bonifica” etnica della regione, fra le quali i provvedimenti diretti ad impedire l’uso pubblico della lingua slovena e croata, l’abolizione della stampa slava, la soppressione dell’insegnamento nelle lingue slovena e croata, la chiusura delle associazioni, la liquidazione del tessuto cooperativo e creditizio slavo. A questi si aggiunse la persecuzione degli elementi ritenuti punti di riferimento per le comunità nazionali. 

Minori risultati ebbe invece la politica fascista nelle campagne, dove era più difficile tale operazione. I dati del censimento etnico svolto in maniera riservata dal governo fascista alla fine degli anni Trenta e basato sulla lingua d’uso, rilevavano che la presenza della popolazione slava entro confini del regno d’Italia era in calo, sia pur in termini molto contenuti, mentre era cambiata la sua composizione sociale, con l’espatrio di molti intellettuali, insegnanti e professionisti. Il fatto che si rimarcasse la presenza di circa quattrocentomila alloglotti alla vigilia del secondo conflitto mondiale suonava come una precisa minaccia per il regime e, nello stesso tempo, come il fallimento della politica di snazionalizzazione, condotta con supponenza e ferocia. Il frutto avvelenato di quegli anni di lacerazioni venne così lasciato in pasto alle nuove violenze che la guerra avrebbe avuto modo di accrescere e alimentare.

(Riferimenti tratti parzialmente dalla scheda di Anna Maria Vinci, “Foibe”, di Raoul Pupo e Roberto Spazzali. Mondadori, 2002)

La Jugoslavia venne occupata con un’azione militare congiunta condotta da Germania, Italia, Ungheria, Romania e Bulgaria. L’invasione, iniziata il 6 aprile con un devastante bombardamento aereo della Luftwaffe su Belgrado, fu caratterizzata dalla rapida e agevole avanzata delle Panzer-Division tedesche; l’esercito jugoslavo si disgregò e lo stato, minato anche da profondi contrasti politici ed etnici interni, si dissolse. A seguito dell’occupazione militare della Jugoslavia l’Italia si annetté la parte sud-occidentale della Slovenia (in cui venne istituita la Provincia di Lubiana), la parte nord-occidentale della Banovina di Croazia (congiunta alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e la zona della Bocche di Cattaro (che assieme a Zara, già italiana, andarono a costituire il Governatorato della Dalmazia); il Kosovo, la Macedonia occidentale e alcune zone nel Montenegro meridionale furono annesse al Regno d’Albania, in unione personale con l’Italia.

Fin dall’estate del 1941 nei territori annessi o occupati dalle truppe dell’Asse si sviluppò un movimento resistenziale che ben presto impegnò severamente gli eserciti aggressori. La crisi seguita alla violenta dissoluzione dello stato jugoslavo gettò l’una contro l’altra le diverse componenti etniche e politiche del Paese, e ciò che ne seguì, oltre a una guerra di liberazione contro gli invasori, fu una spaventosa guerra civile che vide come protagonisti, oltre al movimento partigiano progressivamente egemonizzato dai comunisti, varie componenti politiche e movimenti nazionalistici, quali gli ustascia croati, i cetnici serbi e i domobrani sloveni.

Nel 1941, anche con il supporto dell’Italia fascista il “poglavnik” Ante Pavelić ebbe modo di costituire lo “Stato indipendente croato (NDH)”, struttura collaborazionista e filofascista sostenuta da Italia e Germania, che si sarebbe macchiata di efferati crimini di guerra e contro l’umanità. A partire dal 1942 (anche se nel 1941 vi fu una forte rivolta in Montenegro) l’erompere della guerriglia partigiana innescò una spirale di azioni belliche, rappresaglie e ritorsioni che coinvolse massicciamente la popolazione civile. Per far fronte alla situazione le autorità militari italiane condussero azioni e rappresaglie che provocarono perdite elevate fra militari, partigiani e civili. Nell’area di confine della Venezia Giulia vanno ricordati gli eccidi dei villaggi nell’area di Prem, nella zona di Villa del Nevoso, la fucilazione per rappresaglia di un centinaio di abitanti del villaggio di Podhum, alle spalle di Fiume, per ordine del prefetto Testa. Il tentativo di riprendere il controllo militare si tradusse anche nella deportazione di nuclei consistenti di popolazione civile. Ciò comportò la creazione di numerosi campi di internamento, nei quali vennero recluse più di trentamila persone. I principali furono quelli di Gonars e dell’isola di Arbe, dove molti prigionieri morirono di stenti.

L’occupazione della Jugoslavia nell’aprile 1941 e la conseguente annessione all’Italia di una parte dei territori occupati dall’esercito italiano (Litorale croato, Dalmazia e la provincia di Lubiana), determinarono una situazione favorevole alla penetrazione, anche in Istria ed a Fiume, di numerosi attivisti del movimento partigiano jugoslavo. La stessa continuità territoriale tra le vecchie province e i nuovi territori annessi favorì il rientro di numerosi emigranti istriani, rifugiatisi in Jugoslavia per sfuggire alle persecuzioni fasciste durante il Ventennio.

Tra essi figuravano non pochi comunisti e antifascisti sloveni e croati i quali poterono raggiungere agevolmente le loro località d’origine, dando vita alle prime organizzazioni partigiane entro i vecchi confini italiani (Liburnia, Fiume, Litorale sloveno, Carso).

Di fondamentale importanza per i nuovi attivisti del MPL era allacciare i primi contatti per promuovere degli accordi di collaborazione con i dirigenti ed i militanti del PCI nelle varie località della regione

In virtù della mutata situazione venutasi a creare con l’occupazione della Jugoslavia, secondo il Partito comunista jugoslavo (PCJ) i vecchi schemi e i dettami dell’Internazionale comunista (che verrà sciolta qualche tempo dopo) non potevano più essere ritenuti vincolanti, costituendo anzi un ostacolo all’affermazione dei singoli movimenti nazionali di liberazione. Da qui l’azione concreta condotta dai comunisti jugoslavi, coscienti di essere nel pieno diritto di avviare la lotta di liberazione anche tra le popolazioni croate e slovene della Venezia Giulia per il loro definitivo riscatto nazionale.

L’isolamento della popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia dalla Madrepatria ebbe inizio già nel settembre del 1943 con la capitolazione dell’esercito italiano e l’occupazione nazista della Venezia Giulia. La dissoluzione del potere e delle istituzioni dello Stato italiano, il disordine seguito al crollo del fascismo, l’espansione e il graduale affermarsi del ruolo egemonico del Movimento popolare di liberazione jugoslavo sulle forze antifasciste e resistenziali contribuirono a segnare profondamente gli eventi successivi ed a pregiudicare, di fatto, prima ancora che il Trattato di pace del 1947 segnasse definitivamente i nuovi equilibri, la continuità della sovranità nazionale italiana su questi territori.

La specifica situazione in cui si venne a trovare la Venezia Giulia nel 1943 favorì le forze partigiane legate al movimento di liberazione di Tito che, riuscendo a prevalere sulle organizzazioni antifasciste di matrice italiana (particolarmente attive nelle città), assunsero il pieno controllo, nella regione, di tutte le strutture della resistenza. Emersero ben presto, per i partigiani italiani inquadrati nelle formazioni jugoslave (croate e slovene) difficoltà che riflettevano le diversità di indirizzo, e forti contrasti tra le due componenti della resistenza.

Esclusa la possibilità di vivere in una situazione di “continuità” statale ed istituzionale italiana (la Regione Giulia, separata amministrativamente anche dalla Repubblica Sociale Italiana, era entrata a far parte della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico – Operationszone Adriatisches Kustenland, direttamente sottoposta al Reich tedesco).

così come di dare vita ad organizzazioni della resistenza autonome rispetto a quelle jugoslave, gli italiani di questi territori furono costretti a compiere scelte diverse: aderire alle formazioni partigiane jugoslave o alle unità italiane ad esse sottoposte; rispondere ai bandi di arruolamento delle forze d’occupazione naziste, delle strutture e delle organizzazioni fasciste ad esse collegate, oppure nascondersi ed assumere una posizione defilata e di immobilismo, in attesa di un eventuale sbarco alleato e della conclusione del conflitto.

L’oggettiva debolezza dei Comitati di liberazione nazionale (CLN) delle cittadine della costa occidentale dell’Istria, le difficoltà di collegamento con il CLN per l’Alta Italia e con i principali partiti antifascisti e le forze democratiche italiane, l’azione delle forze jugoslave tesa ad eliminare tutti i potenziali oppositori, ebbero, inoltre, un peso rilevantissimo.

E’ innegabile il fatto che dopo l’armistizio dell’8 settembre avesse preso piede una vasta e, per certi aspetti, spontanea sollevazione popolare dovuta, da una parte all’esultanza per la guerra che si credeva finita, e dall’altra alla fine ingloriosa di uno Stato totalitario, che mise a dura prova durante il ventennio fascista le genti istriane, quelle croate e slovene in particolare, tanto da dare origine ad una sempre più crescente ed organizzata reazione antifascista.

L’improvvisa capitolazione dell’Italia aveva condotto non solo allo sbando dell’esercito, ma alla disgregazione quasi totale dell’apparato statale.

Nel caos generale che ne era seguito appariva indispensabile cercare di colmare il vuoto di potere creatosi improvvisamente in tutta la regione.

(Riferimenti tratti parzialmente, in questo e nei seguenti capitoli, dall’opera di Ezio e Luciano Giuricin “La Comunità nazionale italiana. Storia e istituzioni degli Italiani in Istria, Fiume e Dalmazia (1944-2006), Etnia X, 2008, Centro di ricerche storiche di Rovigno)

Tra le forze antifasciste e resistenziali che cercarono di opporsi all’occupazione nazista si distinsero subito due specifiche realtà: quella sviluppatasi in quasi tutte le località abitate da italiani, caratterizzata dai Comitati di salute pubblica e dai Comitati di liberazione nazionale (in cui erano rappresentate, sulla scia del CLN per l’Alta Italia, tutte le forze democratiche antifasciste, pur con un forte ruolo del PCI), e l’altra sviluppatasi nella campagna istriana popolata in prevalenza da croati e sloveni, dove prese piede il Movimento popolare di liberazione jugoslavo. Due diverse «matrici» resistenziali che spesso si intrecciarono collaborando tra loro, ma che in certi casi vennero anche a scontrarsi. Nel settembre 1943, con l’armistizio dell’Italia, l’antifascismo di matrice italiana, che aveva preso piede anche se con grave ritardo in quasi tutte le località della costa, si era appena destato dal lungo e profondo letargo dovuto alla liquidazione di tutti i partiti democratici durante il ventennio fascista. Una delle forze più preparate fu senza dubbio il Partito comunista italiano che, seppure decimato e decapitato, riuscì a mantenere una qualche continuità d’azione. Infatti, subito dopo la caduta del fascismo, con il ritorno dei principali esponenti comunisti locali dai vari luoghi di prigionia, venne ricostituita a Pola la federazione istriana del PCI, sciolta dopo le retate poliziesche del 1938-1939. Alla sua guida venne posto, tra gli altri dirigenti del periodo precedente, il vecchio segretario Alfredo Stiglich. Questo organismo si premurò subito di riorganizzare le file comuniste operanti in Istria, nonché di allacciare i contatti con il MPL controllato dal PC jugoslavo (attivo da qualche tempo in tutta la penisola istriana, onde evitare nuovi contrasti, dopo gli attriti emersi tra le due organizzazioni, in quel periodo, sulla questione nazionale).

A Fiume, invece, il delegato del PCI Ermanno Solieri-Marino, inviato nel Capoluogo quarnerino dalla federazione triestina dopo il crollo del fascismo per «dirigere il lavoro del partito», si accordò con i rappresentanti del PC croato e del MPL operanti fino allora in città, per mettere in atto una «soluzione di compromesso». L’accordo portò alla costituzione, già alla fine dell’agosto 1943, di un nuovo Comitato cittadino misto, il quale venne chiamato «ad agire a nome del Partito comunista, senza specificare se italiano o croato».

Naturalmente non furono soltanto i comunisti ad organizzarsi. In quasi tutte le città e località italiane si fece sentire la presenza attiva, anche se in tono minore, di gruppi ed esponenti antifascisti d’ogni tendenza, che si richiamavano alle tradizioni passate dei partiti repubblicano (azionista), socialista, popolare (cattolico-democratico), liberale, e a Fiume anche di quello autonomista di Zanella. Queste prime forze costituirono dei propri comitati, oppure organismi di unità antifascista.

Tra questi uno dei più significativi, a quei tempi, fu il «Fronte Nazionale d’Azione», sorto anche a Fiume sull’esempio di quanto stava accadendo a Trieste e in altre città d’Italia, organismo trasformatosi in seguito nel ben più noto Comitato di liberazione nazionale (CLN). Tra le prime azioni del Comitato del «Fronte fiumano» vi fu l’appello, rivolto alla cittadinanza, a partecipare ad una manifestazione, la sera del 9 settembre, davanti al Consolato tedesco e alle carceri cittadine. Negli scontri con la forza pubblica rimasero feriti in quell’occasione numerosi cittadini.

Nella città dell’Arena, invece, il «Comitato Nazionale Antifascista» italiano, guidato tra gli altri dal comunista Edoardo Dorigo e dall’ex deputato social-riformista Antonio De Berti, vistasi respinta ogni richiesta di collaborazione da parte dell’ammiraglio comandante la Piazza militare, promosse il 9 settembre lo sciopero generale e un comizio pubblico. I partecipanti furono affrontati a fucilate dalle forze dell’ordine con il triste bilancio di tre morti e sedici feriti.

La novità assoluta in questo frangente era costituita però dalla presenza attiva e multiforme dell’azione del MPL, fattosi strada nel contado tra le genti slave fino a lambire le periferie delle città, e vincolando in questa lotta pure non pochi antifascisti italiani.

A prescindere dagli ultimi sussulti politici e militari, la situazione si stava facendo di giorno in giorno sempre più drammatica, con i tedeschi pronti ormai a sferrare una massiccia offensiva per riconquistare il controllo della regione.

Le prime operazioni iniziarono il 25 settembre, con l’attacco ad Idria lungo tutto il territorio ad oriente di Gorizia e sulla linea Trieste – Postumia. L’Istria venne investita tra il 2 e 10 ottobre. Praticamente, però, l’offensiva nella penisola istriana ebbe inizio già il 27 settembre con i devastanti bombardamenti di Pisino e Rozzo e la cacciata delle forze partigiane da Capodistria e dintorni (due giorni dopo la sua occupazione da parte delle unità della II Brigata istriana).

Le forze tedesche avevano occupato già il 6 ottobre Pisino (bombardata per la seconda volta il 2 ottobre assieme a Gimino), dopo aver sbaragliato il battaglione pisinese, nel quale era entrato a far parte pure un folto gruppo di marinai italiani. In questa circostanza furono fucilate 157 persone, inclusi 10 feriti prelevati da un ospedale. Dopo Pisino fu la volta di Gimino, Barbana, Albona e di altri capisaldi partigiani istriani. Ultima fu la città di Rovigno, che venne investita il 9 ottobre da una poderosa forza corazzata.

La repressione germanica nei confronti del movimento partigiano in tutta la regione fu molto dura e finì con l’abbattersi inesorabilmente anche sulla popolazione civile che dovette pagare un pesantissimo tributo di vittime. Il Comando tedesco del “Gruppo armato B”, in un suo rapporto per il periodo dal 25 settembre al 9 ottobre 1943, riporta la cifra di 4.096 morti e 6.850 prigionieri. Dai dati assunti da varie documentazioni jugoslave, relative agli avvenimenti del settembre-ottobre 1943, risulta che le vittime causate dai tedeschi in tutta la regione, tra insorti, combattenti partigiani e popolazione civile, ammontarono a 2.500 persone.

La situazione in Dalmazia allora si presentava ben differente da quella esistente nella Venezia Giulia, in considerazione del fatto che solamente la città di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa appartenevano all’Italia, mentre il restante territorio, facente parte della Jugoslavia, era stato occupato dall’esercito italiano nell’aprile 1941. La maggior parte del territorio occupato venne posto sotto la giurisdizione del Regno d’Italia, con la costituzione del Governorato della Dalmazia, che aveva sede a Zara.

In Dalmazia, pur essendo un’area di antico insediamento e presenza storica italiane, la popolazione italiana all’epoca risultava alquanto limitata e ridotta rispetto al passato. Infatti, dai 56.000 cittadini di lingua italiana censiti nel 1870 era passata ai 18.028 dell’ultimo rilevamento austro-ungarico del 1910, per ridursi a 14.000 unità nel 1921, 12.238 dei quali però residenti a Zara.

Durante il Regno jugoslavo, nonostante le speciali clausole imposte dall’Italia quale nazione vincitrice a tutela dell’esigua popolazione italiana (come la possibilità di optare per la cittadinanza italiana rimanendo nel territorio di residenza), gli italiani subirono un ulteriore ridimensionamento fino quasi a sparire (nel censimento del 1921 si contavano, nella Dalmazia assegnata al Regno S.H.S. appena 1.762 connazionali su una popolazione complessiva di quasi mezzo milione di abitanti).

L’instaurazione del regime d’occupazione italiano, per mezzo di un imponente apparato militare, composto da ben due corpi d’armata con oltre 55.000 soldati, e da numerosi funzionari giunti dall’Italia, se da una parte escluse la pericolosa presenza dello Stato ustascia (ovvero l’N.D.H. di Ante Pavelić), dall’altra con le sue azioni e leggi repressive, rivolte a sottomettere e italianizzare l’intera popolazione, favorì l’avvio dell’insurrezione popolare.

Ben presto, infatti, si affermarono le forze resistenziali con la creazione di numerose formazioni partigiane, che rappresentarono subito una seria minaccia per l’esercito italiano. La repressione della guerriglia partigiana fu particolarmente dura con rastrellamenti, offensive, arresti in massa, fucilazioni, distruzioni di interi villaggi e deportazioni. Allora venne costituito anche un Tribunale speciale per la Dalmazia, che operò con le sue sezioni in tutto il territorio, mentre furono istituiti vari campi di prigionia. Misure che invece di debellare la guerriglia la potenziò ulteriormente, tanto che all’epoca della capitolazione dell’Italia in Dalmazia erano attive ben cinque brigate ed un’intera divisione partigiana, coadiuvate da alcune unità di marina.

Con l’armistizio l’intero apparato militare ed amministrativo italiano della Dalmazia precipitò nel caos generale. In quelle gravi circostanze le forze armate italiane furono costrette a guardarsi sia dai partigiani, che stavano disarmando i numerosi presidi, che dai tedeschi giunti precipitosamente con ingenti forze dall’interno della Jugoslavia. Le forze germaniche cominciarono a prendere possesso delle principali vie di comunicazione e dei centri abitati, disarmando a loro volta il grosso dell’esercito italiano e avviando nel contempo ampie operazioni militari e di rastrellamento contro i partigiani. Nel frattempo, il territorio fu invaso anche dalle forze del cosiddetto Stato indipendente ustascia che, con la piena autorizzazione di Hitler, proclamò l’annessione alla Croazia dell’intera Dalmazia, Zara compresa.

A Zara, sede del Governatorato e dei comandi del XVIII Corpo d’Armata e della divisione “Zara”, si verificò uno sbandamento generale a causa della precipitosa fuga dei massimi esponenti militari e civili. Dei 10.000 soldati disarmati, ben 8.000 di loro, dopo aver rifiutato di schierarsi con i nazisti, furono inviati nei campi di concentramento in Germania, mentre un’esigua minoranza si mise al loro servizio. Alcune centinaia di soldati italiani passarono nelle file partigiane costituendo il battaglione “Goffredo Mameli”.

Ben differente fu la situazione a Spalato dove, grazie all’atteggiamento del comandante della divisione “Bergamo”, Emilio Becuzzi e di altri ufficiali, le forze italiane avviarono delle trattative con i rappresentanti del comando supremo partigiano jugoslavo giunti sul posto dopo l’occupazione della città, assieme al maggiore William Deakin capo della missione militare britannica presso il Quartier generale di Tito. I negoziati si tradussero in uno dei primi e più importanti accordi stipulati tra le truppe italiane e il movimento partigiano jugoslavo. Il documento, che in pratica ratificava la resa (come previsto dalle clausole armistiziali firmate dall’Italia con le forze alleate), stabiliva che gli ufficiali italiani potevano conservare le proprie armi e circolare liberamente in città. Il comando dell’EPLJ si impegnava inoltre a garantire l’approvvigionamento della popolazione civile e delle truppe, mentre i componenti della missione militare alleata avrebbero cercato di assicurare l’invio di mezzi navali al fine di evacuare in Italia i circa 20.000 soldati della guarnigione italiana.  Grazie a tale accordo riuscirono ad imbarcarsi subito, per essere trasbordati sulle coste italiane, oltre 3.000 soldati, mentre gli altri furono imbottigliati dall’improvvisa avanzata delle truppe tedesche.

Già l’11 settembre, però, con un nucleo centrale di 200 carabinieri del presidio di Spalato e altri 150 soldati di varie armi, per lo più bersaglieri, venne costituito il Primo battaglione volontario partigiano italiano “Giuseppe Garibaldi”. Le forze naziste, dopo aver piegato la resistenza del presidio italiano di Sebenico, strinsero il cerchio, con le poderose colonne corazzate della “Prinz Eugen”, attorno alla divisione “Bergamo”, riuscendo a vincere la sua resistenza appena il 27 settembre ed occupando a sua volta Spalato.

Le forze naziste istituirono uno speciale tribunale di guerra che mise sotto accusa la maggior parte degli ufficiali italiani “colpevoli di aver consegnato le armi ai partigiani”. Furono condannati a morte tre generali ed altri cinquanta graduati. Come era avvenuto a Cefalonia, gli ufficiali furono fucilati il primo ottobre, in una macabra esecuzione a gruppi di cinque alla volta, nella località di Trilj ad una ventina di chilometri da Spalato.

Intanto il grosso delle truppe, pronto ad imbarcarsi alla volta dell’Italia, composto da oltre 9.000 uomini e 200 ufficiali, venne catturato e trasportato a scaglioni in Germania.

Mentre tutte le isole venivano occupate dalle forze partigiane, sbarcate con le unità catturate alla marina militare italiana, nelle altre zone della Dalmazia meridionale, dove operava il VI Corpo d’armata italiano forte di 25-30.000 soldati, si alternarono episodi di avvilente rinuncia ad atti di eccezionale valore. Tra i primi va annoverata la cattura, senza combattimento alcuno, dell’intero comando del corpo d’armata che aveva sede a Ragusa (Dubrovnik). Il comandante Sandro Pizzani non fu solo responsabile della resa, bensì assieme ad altri graduati si adoperò per placare i sintomi di ribellione che affioravano tra i soldati. La conseguenza diretta fu che le due divisioni, “Marche” e “Messina” sottoposte a detto comando, reagirono all’attacco tedesco in forma slegata, subendo a sorpresa l’azione dell’avversario. Il generale Giuseppe Amico, comandante della divisione “Marche”, dopo aver incitato alla lotta i propri soldati, (che affrontarono i tedeschi per le vie di Ragusa subendo la perdita di diverse decine di uomini), venne catturato e ucciso con un colpo alla nuca, assieme ad altri ufficiali. Il 17 settembre la divisione “Marche” aveva cessato ogni resistenza, il che determinò l’internamento in Germania della maggior parte dei soldati, anche se diversi suoi componenti riuscirono a passare nelle file partigiane.

Nella Dalmazia centrale, in particolare a Makarska, Sinj e Traù (Trogir), la situazione si presentò oltremodo difficile per la presenza in loco di ingenti forze ustascia e domobrane croate, che attaccarono i reparti della divisione “Murge” riuscendo a disarmarla dopo accaniti combattimenti condotti assieme ai tedeschi.[1]

A Spalato, a Zara e in altre località, nel breve periodo di occupazione delle forze partigiane, secondo varie fonti, furono operati molti arresti e condanne a morte nei confronti di esponenti del regime fascista e delle autorità d’occupazione, oltre che di numerosi collaborazionisti croati. Ma non mancarono le esecuzioni sommarie e i casi di vendetta contro questurini, funzionari civili, imprenditori, insegnanti e docenti scolastici, specie a Spalato, molti dei quali sparirono senza lasciare traccia. In questa città furono riesumate ben 106 salme delle persone fucilate nel cimitero di S. Lorenzo. Più tardi fu scoperto un ulteriore elenco di 103 persone soppresse in altre località della Dalmazia.

Con l’occupazione di Spalato assieme ai tedeschi entrarono pure gli ustascia, che insediarono il loro governatore, il quale emanò subito l’ordine di distruggere qualsiasi traccia del lungo dominio veneto della città, accanendosi in particolare contro i leoni di S. Marco.

Zara, subito dopo l’occupazione tedesca, venne sottoposta ad una lunga serie di devastanti bombardamenti da parte dell’aviazione alleata (ben 54 sino alla fine di ottobre del 1944, quando i nazisti si ritirarono dalla città), che causarono molte centinaia di morti e la distruzione quasi totale della città. Gli abitanti furono costretti a sfollare nelle zone circostanti e nelle isole, anche in quelle di Cherso e Lussino, e quindi a partire in vari scaglioni alla volta di Trieste, dove trovarono rifugio circa 2.000 zaratini, mentre altri 3.000 ripararono provvisoriamente a Fiume. La fuga della popolazione autoctona da Zara anticipò il fenomeno dell’esodo e contribuì a determinare la quasi definitiva scomparsa della popolazione italiana sia dalla città, che dall’intera Dalmazia.[2]

Dopo aver messo a ferro e a fuoco l’intera regione con la travolgente operazione “Wolkenbruch”, nella Venezia Giulia le forze di occupazione naziste dettero inizio all’instaurazione del “nuovo ordine tedesco” con l’insediamento di un regime d’occupazione del tutto diverso rispetto a quello praticato nel resto dell’Italia Settentrionale.

La nascita della “Zona di Operazione del Litorale Adriatico” o “Operationszone Adriatisches Kustenland” (come venne battezzata la nuova regione che includeva le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e il territorio di Lubiana – ex provincia annessa all’Italia nel 1941), avvenne ufficialmente verso la metà d’ottobre con l’insediamento a Trieste dell’Alto Commissario del Litorale, Friedrich Rainer.

L’idea riproponeva praticamente la soluzione geopolitica del vecchio Kustenland di concezione asburgica (1815-1918). Il territorio veniva a formare un corridoio, comprendente Gorizia, Monfalcone, Trieste, l’Istria intera fino a Fiume, collegato al Terzo Reich attraverso la Carinzia. Alla guida dell’OZAK fu nominato (con il grado di Oberster Kommissar) Friedrich Rainer, già Reichsstatthalter (governatore) e Gauleiter (dirigente del partito nazista) della Carinzia, nonché capo dell’amministrazione civile dell’Oberkrain occupata. Da qui il ruolo dei vari Barater insediati nelle amministrazioni locali (veri e propri governatori di territori), e il peso dei funzionari di estrazione austriaca, come Rainer, o dei responsabili dell’apparato repressivo, come Odilio Globocnik, comandante della polizia e delle “SS”.  Le vicine province di Trento, Bolzano e Belluno vennero invece incluse nella Zona d’Operazione Prealpi (Operationszone Alpenvorand).

Era palese il progetto, per quanto mascherato onde non suscitare reazioni nella pur ossequiente Repubblica di Salò, di sottrarre l’intera regione alla sovranità italiana e preparare la sua annessione al Reich. Una strategia confermata da numerose misure di carattere economico, giudiziario, politico e militare, tendenti ad impedire ogni ingerenza della Repubblica Sociale, ma soprattutto a cancellare qualsiasi riferimento al precedente ordinamento statale italiano.

In campo militare, ad esempio, fu vietata la costituzione della Guardia Nazionale Repubblicana (e di qualsiasi altra formazione militare della Repubblica di Salò). I suoi compiti nel Litorale furono affidati alla Milizia Difesa Territoriale (MDT), una formazione che, secondo i disegni nazisti, avrebbe dovuto, richiamandosi a presunti valori autonomistici, fungere da strumento di difesa del “nuovo ordine” tedesco.

Durante l’occupazione tedesca l’antagonismo nazionale segnò pesantemente le scelte e i comportamenti delle genti giuliane. I nazisti studiarono con profitto come attizzare e sfruttare ai loro fini ogni rivalità etnica. L’obiettivo era quello di presentare il Terzo Reich come potenza pacificatrice nelle zone sconvolte dagli scontri nazionali e dalle lotte intestine.

Con l’aiuto degli “ustascia” di Pavelić e dei “belogardisti” di Rupnik i tedeschi cercarono di premere sulle popolazioni croata e slovena per spingerle ad aderire alla causa nazista. Gli ustascia tentarono persino di creare una loro base militare e un loro centro direttivo a Pisino, adoperandosi quindi di organizzare tra gli istriani delle unità militari domobrane, cercando di aprire scuole, pubblicare libri e divulgare la stampa in lingua croata, come fecero del resto i seguaci di Rupnik nelle zone slovene.

Lo stesso avvenne ad opera dei nazisti nelle località miste, o prettamente slave, dove il Gauleiter Reiner ordinò l’apertura di scuole, la creazione di giornali e di trasmissioni radio nelle lingue slovena e croata. Le forze tedesche nominarono inoltre numerosi podestà e viceprefetti sloveni e croati a Gorizia, Postumia, Pola e Fiume. A Pola, accanto al prefetto fascista Artusi, venne imposto il viceprefetto croato istriano Bogdan Mogorović, mentre a Fiume i prefetti Riccardo Gigante e Alessandro Spalatin, che venne a sostituirlo, furono coadiuvati nella loro attività dal croato Fran Spehar per l’amministrazione di Sussak-Veglia.

Di questa estrema debolezza delle forze antifasciste italiane approfittarono gli esponenti del Movimento popolare di liberazione controllato dal Partito comunista jugoslavo (croato e sloveno) che, specie in Istria e a Fiume, riuscirono ad imporre gradualmente la loro egemonia strumentalizzando e soggiogando gli antifascisti di matrice italiana e in particolare i militanti del Partito comunista italiano.

La situazione allora esistente nell’ambito delle organizzazioni del PCI in Istria è illustrata ampiamente nella “Relazione di Trieste” di Giordano Pratolongo, primo segretario della federazione triestina del PCI dopo il crollo del fascismo. Dal documento risulta palese il grave ritardo e l’estremo grado di debolezza in cui si era venuto a trovare il Partito comunista italiano in quei momenti cruciali.

Nello stesso tempo, però, l’esponente triestino stigmatizzava l’atteggiamento dei dirigenti sloveni e croati, chiaramente orientati ad assumere il controllo delle strutture del PCI. Secondo Pratolongo, in Istria il lavoro del partito era “rimasto molto indietro, sia a causa della forte repressione tedesca, sia perché i compagni croati consideravano questa zona ormai di loro esclusiva competenza”.

La graduale assunzione del ruolo egemonico del MPL croato sulle forze antifasciste italiane in Istria è confermata dai verbali di alcune importanti riunioni tenutesi negli ultimi mesi del 1943. Prima della serie per importanza fu senza dubbio la seduta della “Direzione istriana del Partito comunista croato”, svoltasi il 26 e 27 ottobre, in cui vennero espresse delle precise prese di posizione nei riguardi del PCI.

Nel documento, oltre ai dati esposti sulla consistenza numerica del PCC (che contava allora in Istria appena 33 membri e 25 candidati), venne annunciata la ristrutturazione del Comitato provinciale popolare di liberazione (Pokrajinski NOO) eletto nella seduta di Pisino del 26 settembre 1943. Provvedimento reso necessario, secondo gli esponenti istriani, a causa dell’”inettitudine” e dell’”opportunismo” manifestati da diversi componenti nei momenti più cruciali della crisi istriana.

Da qui la proposta di sostituire quattro dei tredici membri, tra i quali figurava pure Pino Budicin. Quasi due mesi più tardi nella prima seduta del Comitato provinciale, indetta per attuare i citati cambiamenti, furono fatti i nomi non di quattro, bensì di sette consiglieri da sostituire, rimpiazzati nella stessa riunione.

Giuseppe Budicin e Dragutin Ivančić furono esonerati, così nel testo, “perché passati ad altri incarichi”, senza specificare quali. Budicin fu sostituito dall’albonese Aldo Negri, già esponente di spicco del PCI , quale nuovo “rappresentante della minoranza italiana”.

Tornando agli altri temi trattati nella citata riunione della direzione istriana del PCC, di particolare risalto fu senza dubbio quello relativo ai rapporti con le strutture locali del PCI. Nel documento si rilevava a questo proposito: “con i compagni italiani abbiamo posto finalmente le cose in chiaro. Essi faranno parte del PCC. Sarà nostro diritto non accogliere nel partito tutti coloro che si ritengono ancora membri del PCI”.

Alla successiva riunione dell’organismo, svoltasi il 18 novembre, la situazione sul territorio venne definita “ancora molto complessa”, in quanto – si rilevava – i principi della Lotta popolare di liberazione “erano ben lontani dal poter essere compresi e assimilati dal popolo”. “La nostra maggior debolezza – veniva precisato nel documento – consiste nel fatto che nelle città, abitate in prevalenza da italiani e diventate centri principali della reazione, non esistono le nostre organizzazioni”. Da qui l’imperativo di puntare tutti gli sforzi “per la conquista delle città, operando tra le masse antifasciste italiane”.

Il citato documento della direzione regionale annunciava la creazione di “un gruppo dirigente composto da italiani” operante in seno al PCC per favorire, appunto, l’inclusione degli antifascisti italiani nel MPL. Nel verbale si rilevavano i nominativi degli esponenti italiani coinvolti nell’iniziativa. “Del nuovo organismo – si rilevava nel documento – “sono entrati a farne parte Augusto, impegnato da tempo nel Comitato circondariale, Marino membro del Comitato cittadino di Fiume, un membro italiano dello Skoj e il compagno Gigante, nonché due nostri compagni che conoscono bene la lingua italiana”.

Le direttrici “nazionali” del movimento di liberazione croato e sloveno vennero chiaramente espresse dalle deliberazioni emanate, nel settembre 1943, dall’“Osvobodilna Fronta” (Fronte di Liberazione) sloveno, dallo ZAVNOH (Consiglio Territoriale Antifascista di Liberazione Nazionale) croato e dal Comitato popolare di liberazione istriano a Pisino.

Va rilevato che queste decisioni coincisero con analoghe prese di posizione assunte, in quel periodo, sia dal Governo del Regno jugoslavo in esilio a Londra, sia dal regime ustascia di Ante Pavelić. Già il 9 settembre, il capo dell’NDH (Stato Indipendente Croato) Ante Pavelić, emanò un “proclama al popolo croato” sull’annessione al regime ustascia dei territori separati dell’Adriatico. Ancora prima del crollo del fascismo, il 23 giugno, il Governo jugoslavo di Re Pietro, a Londra, aveva rivendicato i “territori jugoslavi già assoggettati all’Italia”.

Il primo atto ufficiale del Movimento Popolare di Liberazione è quello attribuito al Comitato Popolare di Liberazione provvisorio dell’Istria, con il suo “proclama al popolo istriano” del 13 settembre 1943.

Le direttrici “nazionali” del movimento di liberazione croato e sloveno vennero chiaramente espresse dalle deliberazioni emanate, nel settembre 1943, dall’“Osvobodilna Fronta” (Fronte di Liberazione) sloveno, dallo ZAVNOH (Consiglio Territoriale Antifascista di Liberazione Nazionale) croato e dal Comitato popolare di liberazione istriano a Pisino.

Va rilevato che queste decisioni coincisero con analoghe prese di posizione assunte, in quel periodo, sia dal Governo del Regno jugoslavo in esilio a Londra, sia dal regime ustascia di Ante Pavelić. Già il 9 settembre, il capo dell’NDH (Stato Indipendente Croato) Ante Pavelić, emanò un “proclama al popolo croato” sull’annessione al regime ustascia dei territori separati dell’Adriatico. Ancora prima del crollo del fascismo, il 23 giugno, il Governo jugoslavo di Re Pietro, a Londra, aveva rivendicato i “territori jugoslavi già assoggettati all’Italia”.

Il primo atto ufficiale del Movimento Popolare di Liberazione è quello attribuito al Comitato Popolare di Liberazione provvisorio dell’Istria, con il suo “proclama al popolo istriano” del 13 settembre 1943.

L’estate del 1944 fu uno dei periodi più complessi e difficili della guerra per l’intera Venezia Giulia, e in particolare per l’Istria e Fiume. La situazione bellica stava propendendo nettamente a favore delle forze alleate con la travolgente avanzata russa fino ai Balcani, la liberazione di Roma e lo sbarco in Normandia. In Istria ed a Fiume notevoli furono in quel periodo le aspettative legate al progetto di un imminente sbarco alleato nell’Adriatico settentrionale. Il piano suscitò la pronta reazione tedesca, ma anche la mobilitazione delle forze partigiane jugoslave che, pur disposte a collaborare, guardavano con molta diffidenza se non con ostilità all’ipotesi di uno sbarco anglo – americano nell’Alto Adriatico.

Un intervento militare degli alleati occidentali in quest’area, infatti, avrebbe rischiato di mettere in discussione la supremazia delle forze del MPL e le future rivendicazioni territoriali jugoslave. A questi fatti non vanno disgiunti i primi riconoscimenti ufficiali da parte degli Alleati della nuova realtà jugoslava, che si materializzarono con l’incontro Tito – Churchill a Caserta nell’agosto 1944.

Già nel corso del 1943 maturò a Londra il proposito di stabilire dei rapporti privilegiati con il movimento partigiano di Tito, il cui prestigio stava crescendo.

A Teheran (dicembre 1943) era stato concluso, tra l’altro, un accordo tra Churchill e Stalin sulla formazione di un unico movimento partigiano in Jugoslavia. In seguito a ciò i britannici sospesero definitivamente gli aiuti ai cetnici di Draža Mihajlović e fecero pressione sul governo di Re Pietro, in esilio a Londra, perché Tito venisse accettato come unico capo della resistenza jugoslava nell’intero Paese. Ciò portò all’intesa tra Tito e Subašić, il 16 giugno 1944, con la quale il governo jugoslavo in esilio riconosceva l’amministrazione provvisoria dell’AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia) e del Consiglio di liberazione jugoslavo (governo), mentre Tito si impegnava a non pregiudicare i futuri equilibri istituzionali.

La forte resistenza tedesca incontrata in Italia aveva fatto cadere, sin dal maggio 1944, la possibilità di invadere la Francia meridionale. Venne data la massima priorità all’operazione “Overlord” (lo sbarco in Normandia), anche a scapito delle risorse impiegate nella penisola italiana. Dopo la prima positiva affermazione alleata in Francia, lo Stato maggiore britannico del Mediterraneo fu del parere che si sarebbe dovuta esaminare la possibilità di uno sbarco in Istria, del quale si era parlato per inciso anche alla Conferenza di Teheran. Lo scopo principale di tale operazione, denominata “Armpit”, era quello di distruggere, o quantomeno indebolire le forze tedesche nell’Italia settentrionale, di conquistare i principali porti nord-adriatici per sostenere un’eventuale avanzata verso l’Austria e di accelerare il ritiro dei nazisti dai Balcani.

L’ipotesi dello sbarco alleato

L’ipotesi di uno sbarco alleato in Istria stava intanto scemando. Già verso la metà di ottobre il rappresentante istriano dello ZAVNOH, Oleg Mandić, in una lettera di risposta al CPL regionale in merito alle “possibili macchinazioni della reazione nei confronti dell’Istria”, si dimostrava scettico sulla concreta volontà degli Alleati di attuare uno sbarco nell’Alto Adriatico. Nella sua missiva, infatti, egli affermava, tra l’altro: “Sembra che anche noi saremo risparmiati dallo sbarco alleato, almeno in Istria. Nonostante tutta quella disperata campagna bellicosa condotta contro di noi negli ultimi tempi dagli italiani e da alcuni loro amici, la nostra causa sta ora meglio che mai”.

Le perplessità sullo sbarco, ipotesi che gli americani avevano accolto con molto scetticismo, avevano trovato spazio anche nello Stato maggiore britannico. Solamente Churchill continuava a sostenere l’importanza del progetto, rilevando, alla seconda Conferenza di Quebec (settembre 1944), il significato militare e politico che esso avrebbe potuto avere per i futuri equilibri di forza nell’Europa centro-orientale. Churchill, infatti, ribadiva che “con i porti di Trieste e di Fiume a nostra disposizione si sarebbe ampliato il fronte d’avanzata in Austria e in Ungheria”. Secondo lo statista britannico in questa maniera era possibile “dare una pugnalata alla Germania nell’ascella adriatica”. Per Churchill si trattava inoltre di un’azione di risposta alla rapida invasione russa nei Balcani e alla pericolosa influenza che l’Unione Sovietica stava esercitando in tale area.

L’operazione si presentava alquanto difficile, non solo per l’ingente presenza di forze tedesche, o le difficoltà organizzative e di approvvigionamento, ma anche per la rapida evoluzione della situazione nei Balcani.

Più tardi si optò per un’azione di sbarco a sud di Fiume o per altri interventi limitati tra Zara e Fiume, cui avrebbero dovuto partecipare le unità di una costituenda “Land Force Adriatic”. Ma era ormai chiaro che un’operazione su vasta scala in questo settore era da considerarsi ormai tramontata. Ai fini di una diversione strategica, però, era importante che i tedeschi continuassero a ritenere possibile ed anzi imminente lo sbarco.

Tra l’autunno del 1944 e la primavera del 1945, i tedeschi assunsero un controllo quasi assoluto dell’Istria, costringendo le unità partigiane a ritirarsi nelle zone vicine della Slovenia e poi nel Gorski Kotar. Tra le unità costrette a trasferirsi vi fu anche il battaglione italiano “Pino Budicin”, integrato ormai da tempo nella brigata “Vladimir Gortan”. Dopo aver lasciato l’Istria meridionale il battaglione, assieme alla “Gortan”, abbandonò definitivamente la penisola per raggiungere, dopo una breve campagna in Slovenia (10-24 ottobre 1944) le alture del Gorski Kotar e della Lika, dove fu costretto a svernare.

Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 1945, venne messa a punto, da parte del Comando supremo militare jugoslavo, la grande operazione che avrebbe portato le forze jugoslave ad occupare Trieste e gran parte della Venezia Giulia. Per l’attuazione dell’ambizioso progetto venne costituita, il 1° marzo, la IV Armata, che completò definitivamente la riorganizzazione militare iniziata nel gennaio 1945, con la trasformazione dell’Esercito popolare di liberazione nell’Armata jugoslava. Compito primario della IV Armata era di accelerare al massimo l’avanzata delle forze jugoslave verso occidente. L’operazione in se stessa, oltre ai fini militari, aveva dei chiari obiettivi politici. Si voleva occupare Trieste, l’Istria e l’intera Venezia Giulia prima degli Alleati, mettendo così un’ipoteca sulla futura appartenenza statale dell’intero territorio.

Fu così che le truppe dell’Armata jugoslava vennero a trovarsi alla periferia di Trieste già il 30 aprile, mentre le prime avanguardie alleate arrivarono appena il 2 maggio.

Quasi contemporaneamente all’entrata delle truppe jugoslave, il 30 aprile venne dato il via all’insurrezione armata sia da parte delle forze civili e militari del CLN di Trieste (guidate da don Edoardo Marzari, Ercole Miani e da Antonio Fonda Savio, comandante del Corpo Volontari della Libertà), sia da quelle legate all’Unità Operaia e al Movimento di liberazione, nelle quali militavano comunisti sloveni e italiani.

Già il 28 aprile vi erano stati i primi segnali di insurrezione promossi da vari gruppi appartenenti alla Guardia di finanza ed alla Guardia civica e da raggruppamenti delle costituende divisioni “Domenico Rossetti” e “Giustizia e Libertà”, comandate rispettivamente da Ernesto Carra ed Ercole Miani. Reparti delle brigate “Frausin”, “Foschiatti”, “San Giusto”, “Pisoni”, “Venezia Giulia” e “San Sergio”, nel pomeriggio del 28 attaccarono e disarmarono numerosi presidi e caserme in città. Contemporaneamente iniziarono, soprattutto in periferia, le prime operazioni disposte dal “Comando città di Trieste” e dall’”Unità operaia”, legate al movimento comunista e dipendenti dal IX Corpus.

Il 29 aprile un nucleo di insorti guidato da Marcello Spaccini liberò don Edorardo Marzari che si trovava ancora detenuto al Coroneo. La mattina del 30 aprile il CLN emanò l’ordine di insurrezione generale. Il primo maggio entrarono a Trieste i primi reparti dell’Esercito di liberazione jugoslavo (IV armata e IX Corpus).  Le operazioni militari del CLN continuarono sino alla mattinata del primo maggio quando elementi dell’Unità Operaia e del IX Corpus intimarono il ritiro delle forze del CLN.  Le forze tedesche si arresero definitivamente il 2 maggio. Nel pomeriggio era entrata in città anche un’avanguardia della II Divisione neozelandese.

Quando i reparti jugoslavi raggiunsero la città, la loro prima preoccupazione fu quella di disarmare tutti i patrioti italiani, in particolare quelli che avevano aderito al CLN.  L’obiettivo, chiaramente annunciato dai massimi organismi della resistenza slovena era di “smascherare qualsiasi tipo di insurrezione, che non si fondasse sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito”. Prima di entrare a Trieste i comandi sloveni e jugoslavi avevano provveduto inoltre a dirottare tutte le formazioni italiane poste sotto il loro controllo verso le zone interne della Slovenia. All’alba del primo maggio reparti della IV Armata jugoslava e del IX Corpus entrarono anche a Gorizia.

A Trieste tra i primi provvedimenti era stata decretata la legge marziale: coprifuoco dalle 15 alle 10 del mattino successivo, con divieto di riunioni e cortei (solo per gli avversari però), proibizione di entrare ed uscire dalla zona senza permesso, consegna delle armi, obbligo di presentarsi al lavoro, ecc. Quindi, passato il potere civile al Comitato popolare di liberazione cittadino, venne costituita la Guardia popolare, con l’OZNA ormai padrona della situazione. Ben presto fu imposto un severo regime d’occupazione operando ogni sorta di requisizioni e confische, compresa la chiusura dei giornali esistenti, sostituiti da altri posti sotto il controllo jugoslavo. Oltre a ciò, vennero istituiti i tribunali del popolo, che si misero subito all’opera. Ma i provvedimenti che fecero maggior scalpore furono gli arresti arbitrari, le deportazioni e gli infoibamenti quotidiani effettuati, non solo nei confronti degli ex fascisti e dei collaborazionisti, bensì anche dei rappresentanti antifascisti più in vista, quali i membri del CLN di Trieste, di Gorizia e di altre località, in quanto considerati gli avversari e concorrenti più temibili nella lotta per l’annessione della Venezia Giulia.

In quel periodo a Trieste (e Gorizia) furono deportate migliaia di persone: solo una parte di esse ritornò a casa.

Crimini di ogni tipo furono attuati nei confronti di militari e civili italiani, ma anche di civili sloveni e croati, vittime di arresti, processi farsa, deportazioni, torture, fucilazioni. La situazione si protrasse per alcune settimane, sebbene a Trieste e a Gorizia fra il 2 e il 3 maggio fosse arrivata anche la seconda divisione neozelandese del generale Bernard Freyberg, inquadrata nell’VIII armata britannica.

E’ difficile la quantificazione delle vittime di queste violenze, anche se la maggior parte delle fonti parla di alcune migliaia di persone. L’indignazione tra la popolazione fu tale che si trasformò ben presto in proteste anche pubbliche, la prima delle quali venne soffocata nel sangue. Il grave fatto avvenne il 5 maggio del 1945 quando un drappello di soldati jugoslavi affrontò la folla in Piazza Goldoni sparando sui manifestanti italiani, causando ben cinque morti e diversi feriti.  Il fenomeno delle foibe assunse in questo periodo una dimensione ancora più ampia e drammatica di quella rilevata nel 1943 in Istria, anche perché in questo caso le esecuzioni sommarie ed i casi di violenza si verificarono a guerra conclusa, e in presenza di un apparato militare e strutture di potere consolidate.

La “corsa per Trieste” cui concorsero la IV Armata jugoslava e il IX Corpus sloveno si risolse con l’occupazione militare, da parte delle forze di Tito, della maggior parte della Venezia Giulia sino all’Isonzo. Dopo Trieste (1° maggio), furono occupate, in immediata successione, Gorizia (1° maggio), Fiume (3 maggio) e Pola (5 maggio). Anche qui fu immediata l’ondata di arresti, deportazioni e uccisioni a danno della popolazione civile. A Pola la presa di possesso da parte jugoslava di gran parte della città avvenne già la sera del 3 maggio. Come nelle altre località iniziarono immediatamente ad operare i reparti speciali dell’OZNA, la polizia politica jugoslava, che prelevarono dalle proprie case centinaia di persone, deportandole verso destinazioni ignote. Nella città dell’Arena un gruppo di deportati venne imbarcato sulla nave cisterna “Lina Campanella”. La nave, dopo avere imbarcato nel porto di Fasana alcune centinaia di persone, il 21 maggio, mentre era in navigazione, urtò una mina, affondando con tutto il suo carico di prigionieri. La grave situazione registrata in tutte le zone nord-occidentali occupate dall’Armata jugoslava, compresa la Carinzia, allarmarono fortemente i governi occidentali e i comandi alleati inducendoli a intraprendere le prime misure. La prova di forza degli Alleati ebbe il suo epilogo finale con la firma, a Belgrado, il 9 giugno del 1945, dell’accordo Alexander – Tito.  L’intesa prevedeva la divisione del territorio in due parti, lungo la “linea Morgan” (proposta dall’allora Capo di stato maggiore di Alexander). Una delle prime misure dell’accordo riguardava il ritiro delle truppe jugoslave da tutti i territori occupati ad occidente della linea Morgan, inclusa la città di Pola. Una clausola dell’intesa prevedeva l’obbligo, da parte jugoslava, di liberare tutti gli arrestati ed i deportati e di restituire i beni confiscati: tale disposizione però non venne mai attuata a seguito delle forti resistenze opposte dalle autorità di Tito. L’accordo di Belgrado, pur avendo sciolto i nodi più immediati, lasciava aperta la questione dei futuri equilibri territoriali in un’area che continuerà ad essere contesa per lungo tempo. I negoziati proseguirono allo scopo di definire un’intesa di carattere operativo, che però non venne raggiunta neppure con il secondo accordo di Duino, del 20 giugno, dati i forti contrasti emersi nel frattempo tra le due parti (soprattutto sul ruolo, nei territori sottoposti all’amministrazione militare jugoslava, dei nuovi poteri “popolari”, fondati sui comitati popolari di liberazione).

Preoccupati dalla pericolosa situazione venutasi a creare con l’occupazione jugoslava gli Alleati decisero di reagire. La prova di forza degli Alleati ebbe il suo epilogo finale con l’accordo firmato a Belgrado, il 9 giugno 1945 tra il generale Alexander e il Maresciallo Tito. Per effetto di questo accordo il territorio della Venezia Giulia venne diviso in due parti dalla “Linea Morgan” (dal nome del Capo di Stato maggiore di Alexander che l’aveva studiata e proposta). La parte ad est di essa, la cosiddetta “Zona B” ricadeva sotto l’amministrazione militare jugoslava, assieme a Zara e alle isole del Quarnero. Quella ad ovest, la “Zona A”, inclusa anche la città di Pola, era sottoposta all’autorità del Governo militare alleato.

Una delle prime misure dell’accordo riguardava il ritiro delle truppe jugoslave da tutti i territori fino allora occupati ad occidente della Linea Morgan. Nell’accordo era previsto pure il ritiro jugoslavo dalle zone di ancoraggio sulla costa, vale a dire dalle città e località portuali della costa occidentale dell’Istria, sgombrate subito dalle forze jugoslave e poi rioccupate visto che gli alleati, stranamente, non ne avevano preso possesso. Una clausola dell’accordo riguardava pure la liberazione degli arrestati, dei deportati e la restituzione dei beni confiscati. La commissione d’inchiesta del PCJ

La situazione venutasi a creare nell’immediato dopoguerra, con le prime preoccupanti ondate dell’esodo della popolazione italiana, allarmò fortemente i vertici jugoslavi, i quali furono costretti a riconoscere, anzi a denunciare ufficialmente lo stato di cose verificatesi fino allora nei “territori liberati”. Infatti, alla riunione plenaria del Comitato centrale del PCJ, svoltasi nel gennaio 1951, Tito in persona dichiarò che in Istria una grande massa di persone aveva chiesto di optare, anche se molte di queste non erano italiane, perché “arcistufe dei metodi coercitivi adottati dalle autorità nei confronti della popolazione”.

In quella occasione furono annunciati severi provvedimenti e la nomina di una speciale Commissione d’inchiesta del Partito (presieduta da Vida Tomšić), i cui componenti si recarono subito “a verificare sul posto le ingiustizie commesse”.

Nella relazione stilata alla fine dell’inchiesta e nel verbale della riunione che si tenne a Fiume, il 24 aprile, vennero rilevati molti degli illeciti e gli abusi commessi dall’annessione al 1951. In questi documenti un capitolo a parte venne riservato al cosiddetto “lavoro volontario”, diventato col tempo coercitivo a tutti gli effetti. A Fiume – si rilevava nel rapporto della commissione – la popolazione era obbligata a prestare la propria opera per la costruzione dell’autostrada (inaugurata il 20 novembre 1949) tre volte alla settimana; mentre il sabato e la domenica vi dovevano lavorare i dipendenti delle fabbriche e delle aziende.

Ancor peggio avvenne con la ferrovia “Lupogliano- Stallie”. I cantieri di lavoro della ferrovia, assieme a quelli delle cave di bauxite e delle miniere d’Arsia, secondo l’inchiesta, si erano trasformati in “veri e propri lager”. Infatti, qui, oltre ai cominformisti, di regola venivano inviati a turno giovani, studenti e operai prelevati dalle scuole e dalle fabbriche, ma soprattutto contadini, obbligati anche con la forza (spesso prelevati dalla Milizia), ad abbandonare i campi persino nei momenti più cruciali dei lavori.

Nel solo distretto di Pinguente, ad esempio, che allora contava 19.000 abitanti, ben 7.000 persone furono costrette a partecipare, secondo i relatori, alla costruzione della ferrovia istriana.

Nel distretto di Pola furono respinte tutte le richieste dei contadini di procrastinare di almeno due o tre giorni il loro invio alla ferrovia onde poter far fronte agli impellenti lavori della mietitura. Altri contadini, obbligati a lavorare sulla Lupogliano-Stallie, furono costretti a lasciare il bestiame incustodito. Non pochi vennero sottoposti a feroci pestaggi, a causa dei quali tre persone persero la vita.  Ironia della sorte, con l’andare del tempo la ferrovia si rivelò inutile, tanto da venir completamente abbandonata.

Per quanto allora il regime jugoslavo stesse timidamente cercando di introdurre delle riforme democratiche e dei primi elementi di autogoverno e di decentramento del potere, le misure attuate dopo le sconvolgenti ammissioni e denunce della Commissione d’inchiesta si rivelarono, purtroppo, solo dei palliativi.

Vennero rimossi alcuni esponenti del Comitato regionale del PCC, e denunciata una parte dei responsabili degli abusi commessi in varie località. Nessuno venne però chiamato a rispondere ai massimi vertici (federali e repubblicani) del Partito e dello Stato.

Emergeva chiaramente, anche da questi episodi, la “doppiezza” del comportamento dei dirigenti jugoslavi, in un contesto politico in cui lo spietato sistema poliziesco e repressivo di Ranković sembrava convivere con le prime riforme democratiche.

Le nuove aperture e l’introduzione dell’autogoverno non erano il frutto di un’evoluzione politica maturata “dal basso”, ma piuttosto il risultato, spesso solo formale e di facciata, di un disegno di riforma imposto dai vertici. La natura del regime, nonostante i cambiamenti e le riforme (che comunque avevano prodotto dei benefici), era rimasta sempre la stessa: la vita sociale e politica continuava ad essere completamente controllata dal Partito unico.

Premessa

Nell’ottobre 1993, l’Italia e la Slovenia costituirono una Commissione storica e culturale italo-slovena. Lo scopo di questa commissione era di esaminare in modo completo e approfondito tutti gli aspetti storici più importanti delle relazioni politiche e culturali tra le due nazioni nel periodo 1880-1956.  Il 24 settembre 1990 il Consiglio comunale di Trieste votò all’unanimità una mozione in cui si chiedeva la costituzione di una Commissione bilaterale italo-jugoslava formata da storici dei due Paesi ed incaricata di far chiarezza sul problema delle foibe. L’idea venne fatta propria dal Governo italiano che avviò di conseguenza i negoziati con quello di Belgrado. A causa della dissoluzione della Jugoslavia le trattative proseguirono separatamente con Lubiana e con Zagabria. Si giunse così allo scambio di note tra i tre rispettivi ministeri degli Esteri che, nell’ottobre 1993, istituirono le due commissioni miste storico culturali. La Commissione italo-croata non si riunì mai, pur senza essere mai sciolta. Quella italo-slovena, invece, dopo sette anni di lavoro congiunto, portò a termine il proprio mandato e nel luglio 2000 consegnò le versioni slovena e italiana del testo comune ai rispettivi ministeri degli Esteri.

Il Rapporto finale ebbe tuttavia scarsa diffusione e quasi nessuna delle misure di pubblicizzazione del documento suggerite dai due copresidenti della Commissione, la prof.ssa Milica Kacin-Wohinz e il prof. Giorgio Conetti, fu adottata: nessuna presentazione pubblica ufficiale fu organizzata. Nella primavera-estate 2001 il Rapporto fu pubblicato integralmente dai principali quotidiani di Lubiana e Trieste e da alcune riviste storiche friulane e slovene.

Questi i componenti della Commissione: per l’Italia: Sergio Bartole (sostituito da Giorgio Conetti), Elio Apih (sostituito da Marina Cattaruzza), Angelo Ara, Paola Pagnini, Fulvio Salimbeni, Fulvio Tomizza (sostituito da Raoul Pupo), Lucio Toth. Per la Slovenia: Milica Kacin-Wohinz, France Dolinar, Boris Gombač (sostituito da Aleksander Vuga), Branco Marušič, Boris Mlakar, Nevenka Troha, Andrej Vovko. 

Di seguito il testo integrale  della Relazione:

I rapporti italo-sloveni / Periodo 1880-1918

Il rapporto italo-sloveno nella regione adriatica ha la sua origine nella fase di crisi successiva al crollo dell’Impero Romano, quando da una parte sul tronco della romanità si sviluppa l’italianità e dall’altra si verifica l’insediamento della popolazione slovena. Di questo secolare rapporto di vicinanza e di convivenza s’intende qui trattare il periodo, che si apre intorno al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di un contrasto nazionale italo-sloveno. Questo conflitto si sviluppa all’interno di una realtà politico-statale, la monarchia asburgica, della quale le diverse zone costituenti il Litorale austriaco erano entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nella seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l’Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale monarchia asburgica nella seconda metà del XIX secolo appare incapace di dare vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente nella struttura statale la multinazionalità della società, ed è scossa pertanto da una questione delle nazionalità che essa non sarà in grado di risolvere. All’interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si riflettono anche i processi di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l’Europa centrale e la stessa area adriatica. Il rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall’indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non sempre politico, che l’avvenuta proclamazione del Regno d’Italia e forse più ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle popolazioni italiane d’Austria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena di rompere i confini politico – amministrativi, che in Austria li dividono tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitandone i rapporti reciproci e la collaborazione politico-nazionale. L’unione del Veneto al Regno d’Italia aveva determinato anche la nascita di una questione che tocca direttamente le relazioni italo-slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Slavia veneta, entra a fare parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente la 1 differenza tra un vecchio stato regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato nazionale. Il Regno d’Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure l’atteggiamento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure. Intorno all’anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide per un’autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico – amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e dell’Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso. Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l’assimilazione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali. In tutte e tre le componenti territoriali del Litorale austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gradisca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con una separazione longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario era sloveno. Anche in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l’Istria il movimento politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola. Il carattere peculiare degli insediamenti italiano e sloveno nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia prevalentemente urbana di quello italiano ed eminentemente rurale di quello sloveno. Questa distinzione non va però assolutizzata, non devono essere dimenticati gli insediamenti rurali italiani in Istria e in quella parte del Goriziano detta allora Friuli Orientale e quelli urbani sloveni – oltre a tutto in espansione, come si è già detto – a Trieste e a Gorizia. Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto città – campagna rappresenta effettivamente un momento fondamentale della lotta politica nel Litorale, determinando anche un intersecarsi di motivi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull’autentica fisionomia nazionale della regione Giulia. Da parte slovena si afferma l’appartenenza delle città alla campagna, sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta, non alterata dal sovrapporsi di processi culturali e sociali, l’identità originale di un territorio, sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di assimilazione che hanno impoverito la nazione slovena. La perdita dell’identità nazionale attraverso l’assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo, come un’esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il richiamo al principio 2 dell’appartenenza nazionale come frutto di una scelta culturale e morale liberamente compiuta e non di un’origine etnico-linguistica. Tornando al nesso città-campagna, secondo l’interpretazione italiana è invece la tradizione culturale e civile delle città che dà la propria impronta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da questa differenza di impostazione deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità delle popolazioni in aree di frontiera, alterati – a parere degli sloveni – dall’esistenza di polmoni urbani prevalentemente italiani. Benché la questione nazionale all’interno della monarchia asburgica presenti alcuni denominatori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi anche nel Litorale presentano peculiarità specifiche. La rapida crescita del movimento politico ed economico sloveno e l’espansione demografica degli sloveni nelle città sono ricondotte da parte italiana anche all’azione dell’autorità governativa che avrebbe attuato una politica di sostegno all’elemento sloveno (ritenuto indubbiamente più leale di quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare l’autonomismo e il nazionalismo italiano. L’attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale all’espansione slovena non tiene però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da centri urbani verso le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata da una grande città in crescita dinamica come Trieste verso il suo circondario. Questo rapporto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo Vivante e Scipio Slataper e non solo a un disegno politico. Anche alla Chiesa cattolica, come all’autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italiani rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filo-slovena, affermazione questa suffragata dall’attiva partecipazione di sacerdoti al movimento politico sloveno. Su un piano politico-amministrativo l’asprezza della questione nazionale impedisce o rende incompleto l’adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai principi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali locali si mantengono nell’ambito del sistema censitario: in tal modo la composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano i 2/3 della popolazione di quel territorio). L’evoluzione delle disposizioni in materia linguistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una piena parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria. Nei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero legami politici. Costituisce un’eccezione la Dieta goriziana, nella quale si verificarono inconsuete alleanze tra i cattolici sloveni e i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti. I cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad associazioni cattoliche slovene-italiane, fallì, né suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cristiano-sociale. Appare dunque evidente come le ragioni dell’appartenenza nazionale facessero premio su quelle ideologiche. Questa tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica è imperniata su una contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel sistema scolastico, e un blocco croato-sloveno, che cerca invece di modificare l’equilibrio esistente. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Litorale da parte di partiti “nazionali” distinti e contrapposti. 3 Si instaurarono invece legami più solidi nell’ambito del movimento socialista improntato all’internazionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un’organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio l’affermazione di questo principio a contenere l’assimilazione dei lavoratori sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti delle due nazionalità e divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successivamente, verso la fine della Prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sulla appartenenza statale di Trieste e sulla sua identità nazionale. Un progetto croato, che contemplava una comune resistenza a un’asserita germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare vita ad un “patto adriatico” tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni. Il mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione italo-sloveni incide profondamente sull’atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore, anche di Gorizia e dell’Istria alla vigilia del 1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente capaci di sviluppare un senso di appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono l’idea di una Trieste capace di alimentare l’attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione della diversa consistenza demografica delle due città. La loro espansione demografica li portava a ritenere imminente il momento della conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabile, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste. La maggioranza della popolazione italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigente difesa nazionale, tesa a salvaguardare un’immutabile fisionomia italiana della città. Se gli sloveni guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivolgono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d’Italia. In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale minoritario che è fondato sull’idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale della città e sull’imperativo di un’espansione economica dell’italianità nell’Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale nel quale sopravvive una minoranza legata all’ispirazione mazziniana mentre la maggioranza vede il compito immediato dell’irredentismo nella difesa dell’identità italiana della città e delle sue istituzioni. In questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della rivista “La Favilla” nella fervida atmosfera del 1848. Si trattò del gruppo che si raccolse intorno alla rivista fiorentina “La Voce”, resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini, tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Giani Stuparich. In opposizione all’irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con il termine di irredentismo culturale e intendono sviluppare la cultura italiana nel confronto e nel dialogo con quelle slavomeridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del socialismo triestino. Del resto, proprio nelle edizioni de “La Voce” viene pubblicato il più maturo risultato del pensiero socialista, e cioè il volume di Vivante sull’irredentismo adriatico. Dal versante sloveno non si ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono reazioni a questo libro. 4 Gli sloveni apparivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i quali riuscirono a ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giudizi della fondazione dell’università a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava la monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale. Con la Prima guerra mondiale il programma dell’irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione – che durerò almeno sino alla primavera del 1918 – che l’Austria-Ungheria, anche se profondamente ridimensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta al conflitto. Prima ancora dell’entrata in guerra dell’Italia il diplomatico italiano Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni. Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un programma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti ragioni geografiche e strategiche. Il già diffuso lealismo sloveno nei confronti dello stato austriaco trasse ulteriore alimento dalle prime voci sugli aspetti imperialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in merito al confine orientale del Regno d’Italia nonché dall’atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupate. Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette d’Austria-Ungheria che culminò nel congresso di Roma dell’aprile 1918 e in un’intesa con il comitato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono l’idea del diritto all’autodeterminazione e quella della solidarietà jugoslava. Nella fase finale della guerra e all’inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine “etnico”, che affonda le sue radici nella concezione dell’appartenenza della città alla campagna e che sostanzialmente coincide con il confine italo-austriaco del 1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più radicali e dalla necessità politicopsicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente italiane, e di offrire all’opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra.

I rapporti italo-sloveni / Periodo 1918-1941

L’Italia, vittoriosa nella Prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni che si erano impegnati per l’unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l’inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma. Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l’Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del 5 popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale. L’amministrazione italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti insediamenti – in ampie zone maggioritari – di popolazioni non italiane che aspiravano all’unione con la propria “madrepatria” (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazione politica nell’ambito dello stato plurinazionale asburgico. Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa – in cui gli slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati dell’oppressione austriaca – provocò da parte delle autorità italiane comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono così assunti numerosi provvedimenti restrittivi – sospensione di amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali – che penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni. D’altra parte, i governi liberali italiani, pur all’interno di un disegno generale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell’istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto – sostenuto da esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione – di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza slava. L’irremovibilità delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi del mito della “vittoria mutilata” e l’impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente l’area abitata da sloveni, accesero ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l’affermarsi precoce del “fascismo di frontiera”, che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali forze nazionaliste italiane attorno all’asse dell’antislavismo combinato con l’antibolscevismo. Il movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni – fiduciosi nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale – che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò, in seguito, derivò la coniazione da parte fascista del neologismo “slavocomunista” che alimentò ulteriormente l’estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920, l’incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste – che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane sia jugoslave – non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come 6 altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all’aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l’apparato dello stato, qui ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità antislava. Le “nuove province” d’Italia nascevano così con pesanti contraddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza che minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi. Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell’area considerata dagli sloveni come proprio “territorio etnico”. Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell’Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di “grande potenza”. Il trattato, che non vincolò l’Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante, si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno d’Italia. Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo la via dell’egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all’ingresso della Jugoslavia nell’orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso disegno di aggressione. Nonostante la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni e croati – tra cui i loro rappresentanti al parlamento – fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l’avvento del fascismo; tra l’altro, essi non aderirono all’opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull’Aventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell’Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali. Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la Prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del regno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti all’accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche, ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito l’uso pubblico della lingua. Le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica e i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono a operare tramite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all’impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche minoritarie. L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell’intento di arrivare alla “bonifica etnica” della Venezia Giulia. Così, l’italianizzazione dei toponimi sloveni o 7 l’uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell’emigrazione, all’impiego di elementi sloveni nell’interno del paese e nelle colonie, all’avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla “superiore” civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di “bonifica etnica” avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l’intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime. L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni – dispersi e in esilio quadri dirigenti e intellettuali – fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l’alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo. Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa di confine – il cui esito va inserito nell’ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo – furono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive “romanizzatrici” del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità “alloglotte”, come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano a offrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti comportavano in via di principio l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi; essa, tuttavia, fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano sociale. Tale situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi dall’altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d’intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell’identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto collaborando con il regime a un’opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale. Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell’area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde – vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra – sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali sia della stessa Italia. Ciò dimostrò l’assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia la base per la penetrazione italiana nell’Europa centro-orientale e balcanica, 8 ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni. Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un robusto flusso migratorio della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di quantificare con precisione l’apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell’ordine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo è ben evidente. Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell’identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popolazione slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra. Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia, anche se, alla metà degli anni Trenta, l’ideologia corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti politici cattolici. Un certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani mentre assai limitata fu l’attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato, come pure in campo culturale e artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui la convivenza e la collaborazione erano normali, e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l’antifascismo e l’aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza contro l’oppressione fascista. In particolare, la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell’organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressione fascista, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall’Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite. Da parte sua, il partito comunista d’Italia maturò lentamente il riconoscimento come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l’influenza dell’Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd’I riconobbe agli sloveni e ai croati residenti entro i confini d’Italia il 9 diritto all’autodeterminazione e alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio dell’autodecisione doveva valere anche per gli italiani. Nel 1934 poi il PCd’I sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e dell’Austria un’apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi altresì in favore dell’unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio. L’interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe risultata particolarmente controversa durante la Seconda guerra mondiale, quando il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella prassi il proprio programma irredentista. A ogni modo, il patto d’azione stipulato nel 1936 fra il PCd’I e il movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell’antifascismo italiano d’impronta liberale e risorgimentale. Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l’attività antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati venne riconosciuto il diritto all’autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse la linea secessionista.

I rapporti italo-sloveni / Periodo 1941-1945

Dopo l’attacco tedesco contro l’Urss la guerra in Europa, specie in quella orientale, divenne totale e diretta alla completa eliminazione degli avversari. Il diritto internazionale ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni violate dai contendenti con impressionante frequenza ed anche le terre a nord dell’Adriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza. La Seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell’Asse introdusse nei rapporti sloveno-italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti. Se infatti per un verso l’attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L’occupazione del 1941 rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli sloveni toccarono con l’occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale. La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della compagine statale jugoslava ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra Italia Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte alla prospettiva dell’annientamento della loro esistenza come nazione di un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori. L’aggressione dell’Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l’annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d’Italia. Alla popolazione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autonomia etnica e culturale; tuttavia, le autorità di occupazione italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto 10 prima la regione nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe italiane. L’attrazione politica, culturale ed economica dell’Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fascistizzazione ed all’italianizzazione della popolazione locale. Sulle prime l’aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad un’asserita superiorità della civiltà italiana; perciò, il regime d’occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato. A fonte di quello nazista, esso apparve perciò agli occhi degli sloveni un male minore, ed ottenne per questo alcune forme di collaborazione, anche se le stesse forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di orientamenti filofascisti: gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo sulla strategia da seguire. La prima, propugnata dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva la necessità di avviare immediatamente la resistenza contro l’occupatore: vennero perciò formate le prime unità partigiane che condussero azioni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento culturale il movimento di liberazione rispose con il “silenzio culturale”. Aderirono al Fronte di Liberazione appartenenti a tutti i ceti della popolazione senza distinzione di credo politico ed ideale. L’altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze liberalconservatrici, suggeriva invece agli sloveni di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l’occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di Liberazione che lo schieramento opposto, facente capo al governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull’obiettivo della Slovenia Unita, comprendente tutti i territori considerati sloveni nel quadro di una Jugoslavia federativa. Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. Il regime d’occupazione fece leva sulla violenza che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con le deportazioni e l’internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana. Improntando la propria politica al motto “divide et impera” le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d’ispirazione cattolica, le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel momento individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore, e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione. Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana. La lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell’appartenenza statale di buona parte di questo territorio e rese manifesti non solo l’assoluta inefficacia della politica del regime fascista nei confronti degli sloveni bensì pure il 11 fallimento generale della politica italiana sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere preventivo sin dall’inizio della guerra: l’internamento ed il confino dei personaggi di punta, l’assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali, l’evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale nel quadro del secondo processo del tribunale speciale svoltosi a Trieste. Fra gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le loro tradizionali istanze nazionali tese all’annessione alla Jugoslavia di tutti i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Il Pcs si era così assicurato l’assoluta egemonia sul movimento di massa e grazie alla lotta armata anche l’opportunità di attuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzione sociale. Nell’opera di repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente creati l’Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d’armata dell’esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano. Nei giorni successivi all’8 settembre 1943 le forze armate ed elementi dell’amministrazione civile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi anche dell’aiuto della popolazione locale. Le conseguenze dell’armistizio comunque rappresentarono una svolta chiave nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora, che vedeva gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante e gli sloveni-occupati ovvero popolo oppresso, si fece più complessa. Sotto il profilo psicologico ed anche in termini reali la bilancia s’inclinò a favore degli sloveni. L’adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia Unita. Tale determinazione fu sancita nell’autunno del 1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente fatta propria anche a livello jugoslavo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche le autorità tedesche che, prendendo atto dell’assetto etnico e reale del territorio, cercarono di interporsi strumentalmente come mediatrici fra italiani e slavi. I tedeschi, comunque, per mantenere il controllo del territorio fecero ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene. Essi, inoltre, utilizzarono gli apparati amministrativi italiani ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di collaborazione istituite appositamente, e, nella logica del “divide et impera”, sempre strumentalmente accolsero alcune richieste slovene nel campo dell’istruzione e dell’uso della lingua, concedendo pure ad elementi sloveni limitate responsabilità amministrative. La condivisione degli obiettivi anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste non poté però superare le reciproche diffidenze d’ordine nazionale, e ciò portò anche a scontri armati. Più ampi furono i movimenti di opposizione all’occupazione germanica tanto che i nazisti sentirono il bisogno di adibire all’eliminazione su larga scala degli antifascisti, in primo luogo sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche come centro di raccolta per gli ebrei da deportare nei campi di sterminio. Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano accettate dalla maggioranza della popolazione italiana. 12 Influì anche negativamente l’eco degli eccidi di italiani dell’autunno del 1943 (le cosiddette “foibe istriane”) nei territori istriani ove era attivo il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità. Nel corso della Seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia, vennero contestualmente sviluppandosi anche forme di collaborazione su basi antifasciste, in prosecuzione di una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti tra le formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati di unità operaia e, fin ad un certo momento, anche fra l’OF e il CLN. Sotto il profilo generale, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi. Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione, consistenza ed influenza e non superarono la diversità di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell’OF, nonostante avessero stipulato alcuni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto che internazionale, dal momento che entrambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori dell’internazionalismo, risultarono fortemente condizionati dell’esigenza di difendere i rispettivi interessi nazionali. Il movimento di liberazione sloveno reputò di importanza centrale l’annessione alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale, bensì – dato il carattere del movimento – anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzionari che si era preposto. Il possesso di Trieste, infatti, era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la difesa del mondo comunista dall’influenza occidentale sia per un’ulteriore espansione del comunismo verso Ovest, ed in particolare verso l’Italia del Nord. Il PCI, a livello sia locale che nazionale, fino all’estate del 1944 non accettò l’idea dell’annessione alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione del problema al dopoguerra. Più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della federazione triestina del PCI, i comunisti giuliani aderirono all’impostazione dell’OF, mentre in campo nazionale la linea del PCI si fece più oscillante: le rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una distinzione tattica fra annessione di Trieste alla Jugoslavia – di cui non bisognava parlare – ed occupazione del territorio giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani. Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno sugli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia, influì anche l’atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in chiave internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva l’Unione Sovietica. Tale scelta provocò pesanti conseguenze all’interno della resistenza italiana, portando tra l’altro all’eccidio delle malghe di Porzûs, perpetrato da una formazione partigiana comunista nei confronti di partigiani osovani. Diversa era la posizione del CLN giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava i sentimenti della popolazione italiana di 13 orientamento antifascista che desiderava il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-americani come rappresentante della maggioranza della popolazione italiana, anche al fine di ottenerne l’appoggio per la definizione dei confini. Il CLN e l’OF esprimevano orientamenti in materia di confini opposti e incompatibili; perciò, quando il problema della futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell’insurrezione finale svanirono di fronte all’impossibilità di raggiungere un’intesa su chi avrebbe avuto il controllo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra ciascuna componente della Venezia Giulia attese i propri liberatori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo operante in Slovenia o l’Ottava armata britannica, e scorse in quelli dell’altra l’invasore. Alla fine di aprile CLN e Unità operaia organizzarono a Trieste due insurrezioni parallele e concorrenziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre le loro aree operative in maniera non concordata: il problema della transizione fra guerra e dopoguerra divenne così una questione che travalicava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l’Italia e la Jugoslavia, per diventare un nodo, seppur minore della politica europea del tempo L’estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un’ondata di violenza che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata – in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo – in centinaia di esecuzioni sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle ” foibe “, e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario, che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.

I rapporti italo-sloveni / Periodo 1945-1956

L’area della Venezia Giulia e delle valli del Natisone (Slavia Veneta) che vede l’incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo 14 decennio del dopoguerra. Dal maggio 1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con sede a Trieste e Udine) e il governo militare jugoslavo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la zona A amministrata da un governo militare alleato (Gma) e la zona B amministrata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le valli del Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine. Dopo il 1945 la situazione internazionale procedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest, e anche se nei rapporti diplomatici fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici delle popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della regione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall’Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per l’emancipazione nazionale. Il tentativo di far coincidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia impossibile, non solo per il prevalere delle politiche di potenza, ma per le caratteristiche stesse del popolamento nella regione Giulia e per il diverso modo d’intendere l’appartenenza nazionale dei residenti nell’area: ancora una volta quindi, com’era già avvenuto dopo il 1918 e com’è del resto tipico dell’età dei nazionalismi, il coronamento (seppur nel caso degli sloveni non integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell’altro. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace – che istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) – le relazioni italo-jugoslave vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di tale fase si ebbe nel 1948, quando l’imminenza delle elezioni politiche italiane indusse i governi occidentali ad emanare la Nota tripartita del 20 marzo in favore della restituzione all’Italia dell’intero TLT. A seguito del dissidio con l’Urss del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la neutralità con concessioni economiche e politiche, pur rimanendo essa retta da un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche vista l’inconcludenza dei negoziati bilaterali sulla sorte del TLT superata la crisi originata dalla Nota Bipartita dell’8 ottobre 1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula del Memorandum di Londra. L’assetto imposto dal Trattato di Pace e successivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero di Trieste, che pur vedevano la presenza di sloveni. Le valli del Natisone, la val Canale e la val di Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative. Diversa fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte dell’opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno all’Italia di Trieste, che era divenuta il simbolo della lunga contesa diplomatica per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani della Venezia Giulia vissero la perdita dell’Istria come un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell’alto Isonzo, si accompagnò alla delusione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall’annessione della fascia costiera del Capodistriano – che vedeva una consistente presenza italiana – che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare. 15 A conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione jugoslava, rimasero comunità slovene in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia e Udine, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all’atto della stipula del Memorandum d’Intesa queste ultime erano già state falcidiate dall’esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di pace. Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata l’amministrazione italiana, il ritorno alla normalità fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti nazionalisti, anche come conseguenza dei rancori suscitati dall’occupazione jugoslava del 1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine statuale italiana fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individuali, non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità slovena, e in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano, perché l’entroterra montano del bacino dell’Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianura, e in particolare la popolazione slovena, che rimase separata dai propri connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di Nova Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando, anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta. Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi privi dell’insegnamento nella madre lingua e del diritto ad usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi anni di guerra, di forme di coscienza nazionale slovena, ma la comparsa di orientamenti politici filo-jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano, venne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un’evoluzione autonoma ma di agitazione politica proveniente da oltre confine. I loro assertori furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti, e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell’affermare il proprio ruolo di riferimento per l’identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall’esercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slovena. Vi è certo stato in tali zone un persistente ritardo da parte italiana nell’attuazione di una politica di tutela corrispondente allo spirito della Costituzione democratica. Su tale ritardo vennero a pesare l’inasprirsi della situazione internazionale e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell’istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il disegno della Costituente, una maggiore attenzione alle regioni minoritarie. Nelle zone A e B della Venezia Giulia e dal 1947 del TLT, entrambi i governi militari operarono come amministrazioni provvisorie; tuttavia, differivano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un’autorità di occupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l’area in questione, e ciò ne condizionò l’opera. Gli angloamericani introdussero nella zona A ordinamenti ispirati ai principi liberal-democratici e pur mantenendo sempre il completo controllo militare e politico nella zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere nell’amministrazione civile tutte le correnti politiche. Poi però, per il diniego della componente filo-jugoslava e anche in virtù del peso crescente della guerra fredda – che fino al 1948 trovò nell’area giuliana uno dei suoi luoghi di frizione – si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque 16 provvedimenti volti ad assicurare alla popolazione slovena i suoi diritti nell’uso pubblico della lingua nazionale ed in campo scolastico, cercando però allo stesso tempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre, l’attivazione – sia pure tardiva – degli istituti di autogoverno locale, permise agli sloveni, con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere i propri rappresentanti dopo più di due decenni di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e politico. Fino al 1954 la priorità attribuita alla questione dell’appartenenza statuale della zona, sommandosi alle tensioni della guerra fredda, determinò una polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l’avvio della nuova vita democratica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filojugoslavo non era né esclusivamente nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al 1947 all’interno dei due blocchi le distinzioni politiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni nazionaliste. Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello sconto nazionale rimase assai forte, le componenti democratiche filo-italiane, che assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a distinguere la loro azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestarono pubblicamente anche le distinzioni ideologiche, prima offuscate, fra gli sloveni, i quali formarono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità jugoslave. Presero corpo anche tendenze indipendentiste, che videro una certa convergenza di elementi italiani e sloveni attorno all’idea dell’entrata in vigore dello statuto definitivo del TLT. Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all’appartenenza di classe e cementata dalla comune esperienza della lotta partigiana, che in determinati ambienti era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell’annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edificando il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza del proletariato locale di lingua italiana, soprattutto nella zona A, fece sì che fino alla frattura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo si mantenesse la solidarietà fra comunisti italiani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d’intendere l’internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell’appartenenza statale della Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione fra il Pci e il Pcj (Pcs), consolidata dalla lotta comune contro l’invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su alcune questioni. Le tensioni esplosero all’atto della risoluzione del Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei comunisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tempo non solo l’interruzione di ogni contatto ma anche una vera e propria ostilità tra “cominformisti” e “titini”. A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli residenti in Istria che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad “edificare il socialismo”, subirono il carcere, la deportazione e l’esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, essendosi schierata a favore dell’Unione Sovietica e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici, i “cominformisti” ed i “titini”. Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area compresa tra il confine di Rapallo e la linea Morgan, l’area amministrata dalle autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell’entroterra era in larga prevalenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concorse, assieme al Buiese amministrato dalle autorità croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la 17 Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie competenze agli organi civili del potere popolare, cercò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto delle persone. Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata senza pregiudizio della sua destinazione statuale cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione e della violenza. Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall’interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse l’attivazione di nuove istituzioni culturali – come l’emittente radiofonica in lingua italiana – strettamente controllate dal regime, di fronte alla progressiva espulsione degli insegnanti e – dopo il 1948 – al ridimensionamento del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all’orientamento complessivo dell’insegnamento verso l’attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con l’Italia e verso la denigrazione dell’Italia. Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell’identità nazionale, un’oggettiva valenza snazionalizzatrice. Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano sull’elemento italiano l’animosità per i trascorsi del fascismo istriano, è palese sin dall’immediato dopoguerra l’intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze – anche autorevoli di parte jugoslava – sull’esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948; questa spinse i comunisti italiani che vivevano nella zona, e che pur avevano inizialmente collaborato, anche se con crescenti riserve, con le autorità jugoslave, a schierarsi nella loro stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse le autorità popolari ad abbandonare la linea della “fratellanza italoslava”, che consentiva al mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di una componente italiana politicamente e socialmente epurata al fine di renderla conformista rispetto agli orientamenti ideologici e alla politica nazionale del regime. Da parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l’abbandono da parte degli italiani della loro terra d’origine, mentre il trattamento riservato al Gruppo Nazionale Italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell’immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane. In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria si registrò un flusso costante, anche se numericamente limitato, di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l’intero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum di Londra, quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum l’atteggiamento delle autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo limitato. 18 Complessivamente nel corso del dopoguerra l’esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone – vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente, oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti dalle aree dell’Istria e della Dalmazia oggi appartenenti alla Croazia. Gli italiani rimasti (l’8% della popolazione complessiva) furono in maggioranza operai e contadini, specie quelli più anziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra. Fra le ragioni dell’esodo vanno tenute soprattutto presenti l’oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale nell’area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell’economia. L’esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l’azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare o quantomeno contenere, l’esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all’interruzione coatta dei rapporti con Trieste – che innescarono il timore per gli italiani dell’Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della “cortina di ferro”. In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale – intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica – nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà. In una prospettiva più ampia, l’esodo degli italiani dall’Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell’Europa centro-orientale e sudorientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato federale e fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche. La stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici. Nonostante i loro contrasti, già a partire dalla stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l’Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da rendere a partire dagli anni Sessanta tardi il loro confine il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L’apporto delle due minoranze fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee ricadute, i due popoli verso una più feconda collaborazione.