L’entusiasmo iniziale e il parziale consenso popolare nei confronti delle forze di liberazione jugoslave (e delle forze partigiane locali) – quasi immediatamente sostituito da un profondo senso di delusione e di amarezza – è stato riconosciuto da varie fonti, anche da parte di autori tradizionalmente avversi alla Jugoslavia. Uno di questi è senza dubbio Sergio Cella, che nella sua opera postuma sull’azione e l’attività del CLN istriano, sorto a Trieste nell’immediato dopoguerra, ebbe a dichiarare: “Sarebbe antistorico non riconoscere che grandi masse italiane, non comuniste, lavoratori in primo luogo, ma anche molti antifascisti, aderirono al potere popolare, operando a favore della nuova Jugoslavia, perché ciò voleva indicare per loro nuove speranze e la conquista di un nuovo mondo. Poi vennero le illusioni”. 

Secondo il Cella anche non pochi istriani costretti a scegliere successivamente la strada dell’esodo aderirono inizialmente alla Lotta popolare di liberazione e alle organizzazioni filo jugoslave del primo dopoguerra. “Si trattò certamente di un’ubriacatura politica – afferma il Cella – espressa però, nella maggior parte dei casi, in buona fede”.   

Lo stesso Steno Califfi, uno dei primi antifascisti non comunisti che fiancheggiò il potere popolare durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra quale membro del primo CPL polese (diventato poi dissidente poco prima dell’occupazione alleata della città), si espresse nei medesimi termini.   L’autore nella sua opera disse a questo proposito che la classe operaia polese aveva “accolto con interesse giustificato le prime manifestazioni e le prime dichiarazioni del nuovo ordine socialista”. Secondo il Califfi la prima reazione della massa operaia polese era stata contrassegnata, infatti, da “un’accoglienza festosa, analoga a quelle verificatesi nelle cittadine istriane a forte componente comunista come Rovigno, Isola, Pirano”. 

In seguito, però, il comportamento delle truppe jugoslave e dei dirigenti legati al partito comunista croato nel corso dei quarantacinque giorni di permanenza a Pola, avrebbe fatto emergere non pochi dubbi e riserve, compromettendo radicalmente ogni reale forma di consenso della componente italiana. 

Pola, l’unica città della Zona B sottoposta, dopo l’occupazione jugoslava, all’amministrazione anglo-americana, costituiva – sul piano della verifica del consenso democratico – un importante banco di prova in quanto, a differenza delle altre località, l’adesione alle organizzazioni pro-jugoslave non poteva essere imposta con la forza. Alla fine di marzo del 1946, meno di un anno dopo l’entrata delle truppe jugoslave in città, la presenza a Pola della Commissione internazionale per la definizione dei nuovi confini costituì l’innesco di una grande manifestazione spontanea a favore dell’Italia, alla cui riuscita contribuirono in modo decisivo anche le masse operaie locali e centinaia di ex attivisti del Movimento popolare di liberazione. 

Uno dei provvedimenti che contribuì a creare i primi sintomi di insofferenza tra la popolazione fu, senza dubbio, la mobilitazione obbligatoria, nel maggio 1945, di ben 28 classi nelle file dell’Armata jugoslava; azione che ricordava molto da vicino i famosi “Bandi tedeschi” del tempo di guerra. Come allora, anche in questa occasione si verificarono forti ondate di panico e di malumore tra la popolazione (la conferma giunge dalle migliaia di domande di esenzione dall’obbligo di leva e dalle numerose segnalazioni di casi di renitenza e di diserzione rinvenute nell’Archivio storico di Fiume).   

A questa disposizione seguirono a ruota alcune altre relative, ad esempio, al rilascio dei lasciapassare provvisori a coloro che volevano rientrare in Italia (o nella Zona A). Per ottenere i lasciapassare si doveva sottostare a delle vere e proprie clausole capestro: l’obbligo di rilasciare delle dichiarazioni sui beni mobili e immobili posseduti, nonché sul denaro, l’oro ed altri patrimoni il cui controvalore in denaro doveva essere depositato presso la Banca centrale jugoslava (il che corrispondeva quasi ad una confisca); inoltre ogni persona all’atto della partenza poteva portare con se soltanto gli indumenti personali fino a 50 kg. e un importo di 20.000 lire per il capofamiglia e altri 5.000 per ogni congiunto, tutti in buoni che non avevano alcun valore all’estero.  

Destarono particolare preoccupazione, inoltre, le sempre più frequenti manifestazioni pubbliche, soprattutto a Pola e a Fiume, contrassegnate da chiari messaggi nazionalistici, diretti a instaurare il predominio etnico croato e sloveno, oltre che quello politico ed ideologico jugoslavo, in tutta l’area interessata. Dai discorsi degli oratori, dagli slogan e gli striscioni e dal tipo di bandiere esposte trasparivano infatti delle tendenze che nulla avevano a che fare con la tanto professata “unità e fratellanza tra i popoli”. A Pola, per esempio, creò non poco sconcerto il divieto di esporre la bandiera italiana con la stella rossa (accanto a quella jugoslava e croata) sull’edificio che ospitava la sede del CPL cittadino (per ordine del presidente dello stesso Francesco – Franjo Nefat, secondo il quale in quella sede si sarebbero potuti esporre solo dei vessilli “statali”).

A questi iniziali segnali di malcontento seguirono delle massicce azioni di protesta di migliaia di lavoratori e cittadini a causa della decisione delle autorità jugoslave di trasferire i macchinari e gli impianti industriali della città, nonché gli archivi e gli inventari degli uffici pubblici prima dell’arrivo in città delle truppe alleate.   

L’organizzazione del consenso al potere popolare, e la mobilitazione a favore della soluzione jugoslava erano affidate allora a varie organizzazioni politiche di massa come il Fronte Unico Popolare di Liberazione, i Sindacati Unici, la Gioventù antifascista, il Fronte Femminile Antifascista e la stessa Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, cinghie di trasmissione del partito comunista jugoslavo.