Il trattato di Osimo
Il Trattato prevedeva la costruzione di un’ampia zona franca industriale a cavallo di confine, sul Carso, fra i due Paesi, nella zona a sud del valico di Fernetti. Tale progetto non venne mai realizzato a causa dell’opposizione dell’opinione pubblica italiana e, in particolare triestina, per le paventate conseguenze ecologiche che la zona industriale potrebbe avere avuto sul delicato ecosistema carsico ma anche per gli sconvolgimenti demografici che a seguito del libero movimento dei lavoratori avrebbero interessato il territorio di Trieste. La reazione al Trattato condusse alla nascita della Lista per Trieste che ottenne un grande successo elettorale nel capoluogo giuliano, soppiantando la Democrazia cristiana che sino allora aveva gestito parte del consenso e le complesse tensioni sociali e politiche in una città diventata epicentro delle fratture avvenute al confine orientale.
Il Trattato venne ratificato dall’Italia il 14 marzo del 1977 ed entrò in vigore l’11 ottobre del 1977. Fu il primo trattato internazionale i cui negoziati per l’Italia non vennero condotti dal Ministero degli esteri, ma, in maniera riservata, dal Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato. A seguito della dissoluzione della Jugoslavia, del distacco e della nascita della Croazia e della Slovenia come stati indipendenti l’Italia riconobbe i due Stati quali legittimi successori degli impegni internazionali della Jugoslavia, comprendendo pure il Trattato di Osimo e la delimitazione definitiva dei confini da esso stabilita. Varie parti politiche e soprattutto alcune componenti del mondo associativo degli esuli misero in discussione la validità del Trattato rilevando la necessità di rivederne e rinegoziarne alcuni aspetti. In base all’articolo 4 del Trattato nel 1983 venne stipulato un accordo fra Italia e Jugoslavia per l’indennizzo dei beni abbandonati dai cittadini italiani nell’ex Zona B che prevedeva l’impegno da parte jugoslava (e dunque dei Paesi successori) a versare all’Italia un risarcimento del valore di 110 milioni di dollari USA in 13 rate annuali a partire dal 1990. Prima della dissoluzione la Jugoslavia aveva versato 2 rate e il debito residuo di 93 milioni di dollari è stato suddiviso unilateralmente fra Slovenia e Croazia in due quote, rispettivamente di 56 e 37 milioni, di cui solo la quota di 56 milioni di dollari e’ stata sinora versata dalla Slovenia su un conto lussemburghese della Dresdner Bank a mai ritirata dall’Italia. La situazione debitoria (in questo caso della Croazia, che comunque ha stanziato a bilancio la somma dovuta, ma anche della Slovenia che, in assenza di uno specifico accordo con l’Italia, e’ comunque debitrice “in solido”) pone comunque l’esigenza di regolare definitivamente questo aspetto fra le parti, anche aprendo a nuove possibili intese o prospettive sulla questione dei beni abbandonati o degli indennizzi. A questo elemento si aggiunge inoltre la questione delle “libere disponibilità” (previste dall’Accordo di Roma del 1965 attuato dal Protocollo del 13 giugno del 1985 relativo a 500 libere disponibilità e dall’Accordo del 18 febbraio del 1983 per il regolamento definitivo di tutte le obbligazioni reciproche derivanti dall’art.4 del Trattato di Osimo del 1975 con l’Allegato B contemplante 175 libere disponibilità) che, al momento, non sono state completamente restituite, anche a causa della complessità delle procedure adottate dall’Italia e dalle difficoltà e “viscosità” amministrative e burocratiche opposte prima dalla Jugoslavia e quindi, in parte, dalla Croazia e dalla Slovenia.