Durante la prima ondata delle opzioni verificatasi nei mesi di marzo ed aprile del 1948 nelle prime relazioni ufficiali i dirigenti politici regionali e locali cercarono di minimizzare la portata del fenomeno, rilevando che, a loro giudizio, si trattava di casi isolati, legati generalmente al ricongiungimento di un numero modesto di nuclei familiari, o di gruppi minori di malcontenti. Pertanto le strutture di potere jugoslave ritenevano fosse sufficiente, per contenere il fenomeno, condurre un’ampia azione propagandistica, attraverso la stampa e la radio e le strutture del Fronte Popolare e dell’Unione degli Italiani. 

A tal fine in molte località vennero allestite delle rudimentali “stazioni radio” locali che trasmettevano, assieme a musica e canzoni, dei comunicati propagandistici, fitti di slogan tesi a scoraggiare l’esodo e, insieme, a negarne o minimizzarne le ragioni.

Il massiccio ricorso alle opzioni era descritto come un effetto della “reazione” e non come una conseguenza degli errori e dei soprusi che il nuovo potere stava commettendo, portando all’esasperazione la popolazione, in particolare quella italiana.

A Rovigno, ad esempio, e in molte altre cittadine dell’Istria, vennero installati dei potenti altoparlanti nelle piazze principali, da dove venivano trasmessi i programmi delle emittenti locali. Tali trasmissioni, subito battezzate dalla popolazione “radio piria”, cercavano, conducendo una massiccia offensiva propagandistica, di sviare l’attenzione della popolazione dalle drammatiche conseguenze dell’esodo. Agli slogan si aggiungevano anche velate intimidazioni e minacce, per scoraggiare la popolazione italiana ad abbandonare il territorio.

 Le pressioni e la massiccia campagna propagandistica produssero invece l’effetto contrario, convincendo un numero sempre maggiore di persone dell’ineluttabilità della scelta legata all’esilio. La “doppiezza” dell’atteggiamento delle autorità jugoslave, che da una parte cercavano di scoraggiare l’esodo e dall’altra ne approfondivano e rinfocolavano le cause, contribuì ad aggravare la situazione. 

In breve tempo si propagò tra la popolazione una vera e propria ondata di panico e di insicurezza, seguita dalla frenetica ricerca di un modo per andarsene e sottrarsi così al pericolo di rimanere isolati per sempre dalla Madre Patria, in un regime che si stava dimostrando sempre più illiberale, nazionalista e antidemocratico. Migliaia di persone si sottomisero così alle umilianti condizioni poste a chi decideva di ricorrere alle opzioni, subendo angherie e ritorsioni di ogni tipo.

L’amministrazione pubblica e le dirigenze politiche locali cercarono di adottare svariati espedienti per dissuadere e disorientare gli optanti: dal continuo mutamento delle sedi e degli orari di apertura degli uffici incaricati ad accogliere le domande, alla ritardata consegna degli appositi moduli, al disbrigo con estrema lentezza delle pratiche. 

Frequentissima era la decisione di respingere le domande, con la giustificazione che i richiedenti non risultavano essere di lingua d’uso italiana. Si trattava di valutazioni del tutto arbitrarie, basate su criteri personali o politici dei singoli funzionari. In molti casi le domande venivano respinte anche se si trattava di persone di madre lingua italiana: spesso si concedeva l’opzione ad uno solo dei componenti un nucleo familiare, e negata agli altri, per indurre chi avesse ottenuto l’opzione a rinunciare. I criteri si dimostrarono particolarmente restrittivi nei confronti delle famiglie miste, o quando il potere voleva scongiurare la partenza di personale qualificato ritenuto indispensabile all’industria o di esponenti ed attivisti legati al potere popolare. 

Considerate le proporzioni sempre più allarmanti che il fenomeno stava assumendo i dirigenti politici locali decisero (in accordo o su istruzione delle autorità superiori) di attuare delle vere e proprie ritorsioni nei confronti di chi stava per optare o aveva già optato. 

Chi si accingeva ad optare si vedeva ritirare le carte annonarie, veniva licenziato, cacciato di casa, trasferito innumerevoli volte da un alloggio di fortuna ad un altro, allontanato da scuola (sia che si trattasse di insegnanti o di studenti i cui genitori avevano optato), sottoposto ad ogni tipo di soprusi e vessazioni ivi compreso il richiamo alle armi, l’aggravio del carico fiscale, la carcerazione preventiva per reati immaginari,  con continui interrogatori e intimidazioni da parte della polizia. 

Presso gli archivi storici di Fiume e di Pisino è reperibile la documentazione relativa a migliaia di casi di questo tipo. Queste misure, segno dell’assoluta arbitrarietà di un regime che si stava rivelando sempre più totalitario e coercitivo, invece di frenare la corsa alle opzioni provocarono l’effetto contrario.

 I soprusi, le costanti intimidazioni, lo stato generale di paura che le autorità avevano sviluppato nei territori appena annessi, non facevano che confermare la validità ed, anzi, l’ineluttabilità, della scelta di andarsene. Una decisione che sarebbe diventata quasi plebiscitaria tra la popolazione italiana e che coinvolse, gradualmente, anche molti fra coloro chi si erano inizialmente schierati a favore del nuovo “potere popolare”. 

A tutto ciò contribuirono in parte anche i richiami propagandistici di parte delle forze politiche e dei media italiani, che all’esodo avrebbero voluto attribuire la valenza, anche se tardiva, di un formale plebiscito e di una dolorosa scelta che doveva dimostrare la piena ed indiscussa italianità delle terre cedute. 

Più italiani abbandonavano l’Istria e Fiume, maggiore sarebbe stata la dimostrazione della palese ingiustizia compiuta nei confronti dell’Italia e delle popolazioni italiane di quest’area. Le trasmissioni quotidiane di “Radio Venezia Giulia” erano diventate uno degli strumenti più seguiti ed influenti di questa campagna, anche se il Governo De Gasperi aveva più volte esortato gli istriani e giuliano – dalmati a rimanere ed a resistere il più a lungo possibile.

A causa delle numerose lamentele raccolte sulle violazioni e le difficoltà opposte dalle autorità jugoslave agli optanti, emerse ben presto l’esigenza di prorogare il termine ultimo per la presentazione delle domande, che scadeva il 15 settembre del 1948. Nel mese di maggio una missione italiana si recò a Belgrado per trattare i problemi inerenti ai beni abbandonati e alle questioni economiche derivanti dall’applicazione del Trattato di Pace. Successivamente, nell’agosto, era stato raggiunto un accordo per gli optanti che venne parafato a Belgrado. 

Alla fine, il Governo jugoslavo, su richiesta di quello italiano, accettò di prorogare il termine delle opzioni per altri quattro mesi, fino al 16 febbraio 1949. L’intesa si sarebbe dovuta limitare ai casi ancora irrisolti, o a situazioni particolari, (come quella relativa, ad esempio, all’opzione ritardata concessa a 400 rovignesi). 

Se da un lato le autorità jugoslave continuavano a perseguire, per contrastare un fenomeno che ormai aveva assunto proporzioni incontrollabili, una pesante linea repressiva con sempre più frequenti arresti e processi nei confronti di chiunque venisse accusato di svolgere “attività antipopolare”, dall’altro emersero anche dei primi, timidi, ripensamenti autocritici sulle responsabilità del potere jugoslavo. 

Anche per cercare di ridare fiducia alla componente italiana e dimostrare che i vertici jugoslavi non erano intenzionati a conculcare i diritti degli italiani, il Governo croato emanò, il 16 agosto 1948, un’ordinanza a firma del premier Vladimir Bakarić, che conteneva precise istruzioni sull’uso obbligatorio della lingua italiana da parte degli organi dell’amministrazione statale, dei loro enti e delle imprese statali nel territorio dell’Istria, di Fiume e di Zara. 

Il provvedimento, che avrebbe dovuto mettere un freno agli abusi dei burocrati e delle varie forze nazionalistiche del nuovo regime, assicurando l’attuazione del bilinguismo in tutti i territori annessi, non venne mai concretamente applicato (così come era avvenuto anche per la maggior parte dei decreti e delle decisioni riguardanti i diritti della comunità italiana approvati dal Ministero dei territori liberati operante a Zagabria).

Con le prime opzioni, (quelle registrate nel 1948-49), a differenza della fase iniziale dell’esodo avvenuta nel 1945 (che coinvolse principalmente le categorie più benestanti o gli individui più esposti alle persecuzioni politiche) ad andarsene furono principalmente le classi meno abbienti: lavoratori, contadini, artigiani e anche una buona parte di coloro che avevano inizialmente aderito al nuovo potere popolare. Fra questi vi erano molti ex combattenti della Resistenza, attivisti dei circoli italiani di cultura, esponenti dell’UIIF (l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume), impiegati e funzionari dell’amministrazione pubblica e, soprattutto, insegnanti e personale docente delle scuole italiane. 

Contestualmente all’accordo con cui erano stati prorogati, al 15 febbraio del 1949, i termini per la presentazione delle opzioni, venne concessa pure la possibilità, a coloro che erano esodati prima dell’entrata in vigore del Trattato di Pace, di presentare le domande d’opzione anche in Italia.