Con la firma del Trattato di pace, avvenuta il 10 febbraio 1947, la sua entrata in vigore il 15 settembre e la proclamazione ufficiale dell’annessione dell’Istria, di Fiume e degli altri territori alla Jugoslavia, l’opera di adeguamento alle leggi e all’ordinamento giuridico-costituzionale del nuovo Stato, già precedentemente iniziata, venne completata. 

In questo periodo si moltiplicarono pure le disposizioni regionali e locali relative agli ammassi dei prodotti agricoli, con obblighi capestro e pesanti sanzioni, che oltre a causare un grosso malcontento tra la popolazione, contribuirono a peggiorare la crisi.  

Contemporaneamente si infittirono le azioni rivolte contro il «nemico e la reazione», per dare il colpo di grazia definitivo alle forze dissidenti e agli oppositori.

La situazione di grave disagio e insofferenza sviluppatasi nella regione al di là della natura totalitaria e delle contraddizioni del nuovo regime, era frutto anche dell’incompetenza e del basso profilo culturale dimostrato dai dirigenti politici locali, abituati ad eseguire supinamente le direttive provenienti dall’alto. 

Tutte le colpe venivano di regola addossate all’opera disgregatrice del «nemico».

I presunti esponenti della «reazione», spesso identificati con il clero, i proprietari privati ed i dissidenti politici d’ogni genere, vennero perseguitati con particolare accanimento. Lo confermano i processi e le condanne inflitte allora a numerosi prelati, esercenti, commercianti ed intellettuali.  

Allora il clero, in particolare quello italiano, veniva ritenuto uno dei principali nemici del potere popolare, in considerazione dell’ampia influenza che continuava ad avere sulle masse. Eloquenti sono gli esempi delle persecuzioni attuate in quel periodo contro i principali esponenti delle istituzioni cattoliche. Da segnalare tra questi l’aggressione e il ferimento del vescovo di Trieste e Capodistria Mons. Antonio Santin, avvenuti durante i festeggiamenti del patrono capodistriano San Nazario, il 17 giugno 1947, l’uccisione di don Miro Bulesich, già parroco di Canfanaro, il 24 agosto 1947, e quella del prelato piranese don Francesco Bonifacio.  

I primi segnali negativi si verificarono già all’inizio del 1947, con i preparativi che portarono alla fusione di Fiume con la vicina cittadina di Sussak. La decisione venne assunta dal Parlamento (Sabor) croato il 28 febbraio 1948, che accolse la proposta formulata dai due comitati popolari cittadini.

Si trattò di una fusione imposta che andava ad integrare due centri urbani con storie, tradizioni culturali, esperienze amministrative, appartenenze statali e strutture etniche diverse. 

La decisione contribuì a disgregare la forte identità municipale di Fiume ed a sconvolgere le caratteristiche nazionali e culturali della città, allora prettamente italiana, favorendo l’afflusso di nuovi residenti e insediando, nei centri nevralgici e nelle strutture amministrative di Fiume, una grande quantità di dirigenti e di personale amministrativo proveniente dalla vicina Sussak. 

Lo sconvolgimento degli equilibri etnici della città era del resto già iniziato con la prima consistente ondata dell’esodo avvenuta nell’immediato dopoguerra. Una situazione che apparve evidente dopo il censimento ufficiale della popolazione del 15 marzo 1948, che registrò nella città già unificata una popolazione complessiva di 68.352 abitanti, dei quali appena 25.319 risultarono italiani, molti dei quali per di più già in procinto di lasciare la città, o di optare.  

Quasi contemporaneamente con la nazionalizzazione, anche nei territori annessi, degli stabilimenti industriali, delle banche, dei maggiori enti e società commerciali, il Ministero federale dell’industria decretò la chiusura delle tre fabbriche tabacchi esistenti nella regione: a Fiume, Pola e Rovigno, dato che in Jugoslavia questo tipo di industria era in esubero. Ma mentre nei due capoluoghi il provvedimento, nonostante il rilevante numero di licenziamenti, non era destinato a provocare danni sociali irreparabili (considerate le notevoli capacità industriali di queste città), a Rovigno la chiusura della Manifattura tabacchi, unica importante struttura produttiva con oltre mille dipendenti, avrebbe determinato il completo collasso economico della località.

Al provvedimento di chiusura si oppose fermamente l’intera dirigenza politica rovignese, la quale, dopo un’intensa battaglia sostenuta con la burocrazia di Belgrado, riuscì a scongiurare la chiusura dello stabilimento e persino a sospendere tutti i licenziamenti precedentemente disposti. 

Le Autorità locali non riuscirono a bloccare però l’altra grave decisione assunta in quel periodo dal Governo jugoslavo; quella di donare all’Albania di Enver Hoxha, allora alleata della Jugoslavia, una parte della flottiglia di pesca istriana, appena nazionalizzata ed assegnata alle locali strutture cooperative. Qualche tempo prima della confisca diversi proprietari di barche da pesca erano riusciti a darsi alla fuga con i loro battelli, rifugiandosi a Grado e in altri porti italiani (esemplare il caso di un nucleo di pescatori che con le loro imbarcazioni raggiunsero Ferilia, in Sardegna, compiendo un vero e proprio periplo delle coste italiane)

Subito dopo l’annessione fu inoltre smantellato il grande impianto teleferico per il trasporto del minerale di bauxite dall’interno della Penisola al porto-canale di Fianona.