Le elezioni del 1945. Il processo Budicin e altri processi sommari
La funzione fondamentale dei nuovi organismi era quella di integrare e completare, a livello locale, l’attività dell’amministrazione militare jugoslava attraverso l’emanazione di ordinanze, decreti e disposizioni che riflettevano l’impianto legislativo degli Stati federali di Croazia e di Slovenia, dai quali dipendeva no i due tronconi della Zona B, specie dopo la costituzione ufficiale dei Comitati Popolari di Liberazione (CPL) regionale dell’Istria e Circondariale del Litorale sloveno.
Durante la campagna elettorale si verificarono non pochi fatti incresciosi, come quello successo a Rovigno dove venne bloccata la lista di Antonio Budicin, notissimo comunista d’anteguerra (fratello dell’Eroe popolare Pino Budicin), che ricopriva la carica di capodipartimento del CPL regionale dell’Istria.
Il Budicin, dopo aver raccolto le firme necessarie, come prevedeva del resto l’apposito decreto sulle elezioni, voleva candidarsi, assieme ad altri suoi compaesani, per le assemblee cittadina e regionale, al di fuori delle liste già fissate dalle direzioni politiche di allora.
A causa del suo atteggiamento contestatario venne ben presto preso di mira. Fu oggetto di numerose aggressioni, l’ultima delle quali si verificò verso la fine di ottobre quando fu rinvenuto privo di sensi e insanguinato ai margini di una strada di campagna. Il 10 novembre venne arrestato dall’OZNA durante una riunione del CPL regionale, a Pisino, con l’accusa di essere «nemico del popolo, spia dell’OVRA, agente americano e traditore della classe operaia». L’operazione era scattata per neutralizzare prima delle elezioni un personaggio decisamente scomodo.
In merito a questa operazione si pronunciò anche la direzione istriana dell’OZNA in una relazione del 4 dicembre 1945. Nel documento si rilevava che l’arresto del Budicin aveva creato allarmismi e contrarietà, confermati anche da «non poche scritte apparse nei seggi e sulle stesse schede elettorali contenenti messaggi di protesta e richieste di una sua immediata liberazione».
Nel presentare i risultati delle elezioni il rapporto dell’OZNA precisava che a Rovigno si era fatta notare l’azione dissidente di una «frazione sinistroide, composta da opportunisti dell’ex Partito comunista italiano, in piena opposizione nei confronti del nostro movimento». Toni Budicin, secondo il documento, si appoggiava a questo gruppo, che lo aveva candidato per eleggerlo presidente del CPL di Rovigno. La relazione riferiva ancora che, nonostante tutti i controlli e i provvedimenti presi, il gruppo di dissidenti riuscì a piazzare nella nuova assemblea del CPL cittadino alcuni consiglieri, tra cui Pietro Buratto, noto esponente della resistenza e del movimento antifascista rovignese, ma allora dissidente come tanti altri.
Al «processo Budicin», uno dei primi dell’epoca organizzato a Rovigno il 19 gennaio del 1946, venne dato un grande rilievo. Si tenne nella grande sala del Teatro del popolo (ex Dopolavoro) alla presenza di alcune centinaia di persone. La cronaca dell’intero dibattimento venne ampiamente descritta dal quotidiano polese «Il Nostro Giornale». Il processo pubblico si concluse con la condanna del Budicin a sei anni di reclusione. La sua detenzione si protrasse per pochi mesi, perché in giugno Budicin riuscì ad evadere dall’infermeria delle carceri albonesi per trovare quindi rifugio, dopo una rocambolesca fuga attraverso le campagne istriane, a Pola, dove si consegnò alle autorità del Governo militare alleato.
Alcuni mesi prima (il 25 novembre 1945) si svolse a Zara uno dei primi processi politici in assoluto, intentato contro gli eredi della nota fabbrica di liquori Luxardo. Giovanni e Nicolò Luxardo vennero condannati in contumacia il primo a morte e il secondo a 10 anni di lavori forzati per collaborazionismo.
Altri processi pilotati
In questo periodo si intensificarono ulteriormente le azioni penali ed i processi politici assegnati, su istigazione dell’UDBA, alla cosiddetta “giustizia popolare”. Ma oltre ai processi contro i dissidenti o i potenziali nemici del regime, sempre più frequenti risultavano essere i procedimenti penali intentati, allo scopo di arginare le fughe all’estero, contro chiunque venisse sorpreso a valicare clandestinamente il confine.
Dai dati ufficiali custoditi nei vari archivi risultano, in quel periodo (dal 1947 ai primi anni Cinquanta), almeno 30.000 casi di fughe accertate nella regione, con migliaia di arresti e numerosi processi per tentato espatrio clandestino.
Nel 1949 venne promosso ad esempio a Rovigno un procedimento contro un gruppo di sette persone accusate di tentata fuga ed espatrio clandestino. Nonostante il processo fosse basato soltanto su indizi e l’azione di provocatori pilotati dall’UDBA, i malcapitati subirono delle dure condanne. Uno dei condannati si suicidò in carcere, mentre l’imputato principale, Sergio Borme, dopo il ricorso al Tribunale supremo di Zagabria ed un secondo processo di fronte agli stessi giudici, venne inviato a Goli Otok. Gli altri condannati, nessuno di essi legati in qualche modo al Cominform, dopo una breve detenzione nelle carceri di Sremska Mitrovica, vennero rilasciati su intervento del Consolato italiano di Zagabria perché optanti.
Grande rilievo assunse in quel periodo il processo, a Fiume, contro Giulio Smareglia, noto per essere stato il primo presidente del Circolo italiano di cultura di Pola e vicepresidente dell’UAIS. Il gruppo di imputati al quale apparteneva Smareglia, venne accusato di “reati contro il popolo e lo Stato”. Gli imputati furono incriminati del reato di spionaggio ed accusati di “aver creato – secondo l’atto d’accusa – “un’organizzazione nemica all’inizio del 1948 a Pola, raccogliendo dati militari e d’altro genere a favore di un servizio segreto straniero”.
Anche “La Voce del Popolo” dette ampio risalto, sulle sue pagine, ai numerosi processi politici che si stavano celebrando in quel periodo.
Particolare clamore suscitò all’epoca pure il processo al cosiddetto “gruppo Drioli”, svoltosi a Capodistria dal 28 settembre al 1° ottobre 1948, ad un anno appena dall’entrata in vigore del Trattato di pace e dalla nascita del Territorio Libero di Trieste.
Il ruolo dell’Ozna dopo la fine delle operazioni militari
A cura di Orietta Moscarda
Nata nella primavera del 1944 su decreto di Tito, l’Ozna (Odjeljenje za zaštitu naroda) fu creata come organo del servizio informativo dell’esercito jugoslavo, per ricevere nell’agosto 1944 il suo braccio armato, ovvero il Corpo di difesa popolare della Jugoslavia (Korpus narodne odbrane Jugoslavije – Knoj). Modellata sullo schema organizzativo della polizia segreta sovietica (l’Nkvd), era parte integrante delle organizzazioni legate al movimento di liberazione (comitati di partito, unità militari e comitati popolari di liberazione).
La struttura del servizio informativo nel territorio istriano si ampliò nell’estate del 1944, con la formazione del II battaglione della IV brigata dell’Ozna. E nel marzo 1945, con l’avvicinarsi della presa del potere da parte dell’esercito jugoslavo, il suo impianto fu riorganizzato con l’istituzione di un centro e di un apparato regionale, completamente indipendente dalle altre strutture del potere partigiano.
Nel maggio e giugno del 1945 le strutture dell’Ozna e l’esercito jugoslavo misero in atto le medesime procedure operative che si erano registrate nel resto dei territori liberati in Croazia e in Slovenia. Le strutture informative, che assieme a quelle militari e giudiziarie costituirono i capisaldi del nuovo regime, ebbero un ruolo determinante nella presa del potere e nella resa dei conti nei confronti degli occupanti (tedeschi, italiani), ma anche di tutti i potenziali e presunti collaboratori e nemici di classe. L’Ozna fu perciò direttamente collegata alle violenze di massa che si manifestarono con l’arrivo delle formazioni partigiane nel maggio 1945, quando ci furono non soltanto incarcerazioni e deportazioni, ma anche uccisioni e scomparse nelle foibe di soldati italiani e tedeschi, di quadri intermedi del fascismo, guardie civiche, guardie di finanza, partigiani italiani contrari all’egemonia del MPL e cittadini (sloveni, croati e italiani) considerati nemici di classe e perciò contrari al comunismo. Assieme ai nuovi organi amministrativi del potere (i CPL), l’Ozna ebbe il compito di procedere pure al sequestro di tutti i beni relativi a tali nemici del popolo, che con la loro confisca sarebbero confluiti nel processo di statalizzazione dell’economia. Durante l’estate, l’Ozna continuò con gli abusi, le perquisizioni, i sequestri e le confische di beni, che favorirono lo sviluppo di attriti nazionali tra le autorità e la popolazione italiana. La repressione messa in atto anche a guerra finita e soprattutto nel biennio successivo, portò all’eliminazione non solo dei nemici di ieri, ma anche di quanti avrebbero potuto mettere in discussione gli obiettivi politici dei comunisti jugoslavi, che nel territorio della Venezia Giulia consistevano nell’annessione della regione e, contemporaneamente, nella creazione di un nuovo ordine politico, il potere popolare.
Anche dopo il settembre 1947, quando sarebbe entrato in vigore il Trattato di pace e in Istria vi furono estese tutte le leggi jugoslave, la persecuzione contro i nemici passati e presenti del nuovo regime sarebbe continuata, essendo ogni oppositore politico, sociale, religioso o culturale etichettato di fascista e collaborazionista, o nemico del popolo. La violenza politica, poi, sviluppata dalle autorità comuniste a cavallo degli anni Cinquanta nei confronti delle opzioni per la cittadinanza italiana e della questione del Cominform, e che avrebbe determinato in larga parte l’esodo della popolazione istriana, si sarebbe posta in continuità con quelle politiche del periodo della guerra e del dopoguerra volte a eliminare tutti gli elementi anticomunisti e antijugoslavi che erano stati attivi nella zona di confine e che potevano essere collegabili ai paesi occidentali prima e al blocco sovietico poi.
La violenza rivoluzionaria, convertitasi senza soluzione di continuità in violenza di stato, continuò a caratterizzare tutte le fasi di costruzione e di consolidamento del nuovo regime jugoslavo che, mutuando il terrore e la repressione dalla prassi staliniana, fece emergere l’autoritarismo e l’intolleranza insiti alla stessa natura ideologica del sistema.