Abdon Pamich a Tokyo nel 1964

Abdon Pamich a Tokyo nel 1964

Pioveva quel 18 agosto 1964 alla partenza dei 50 km di marcia ai Giochi Olimpici di Tokyo del 1964; una gara da lui vinta nonostante uno spiacevole intermezzo di un improvviso problema intestinale che rischiò di compromettere tutto. Di una vittoria olimpica, spesso, si ricorda solo il trionfo, la cerimonia di premiazione e le prime pagine sui giornali, sportivi e no. Di una vittoria in quella disciplina invece andrebbe sempre sottolineata la fatica e i sacrifici, che non sono solo sportivi ma prima di tutto umani, simbolo di una vita dura, venata di tragedia dell’individuo ma anche, o soprattutto della comunità sofferente di cui l’uomo fa parte.

È questo il caso di Abdon Pamich, nato a Fiume il 3 ottobre 1933 e giunto al trionfo olimpico dopo anni e anni di sfiancanti allenamenti, sacrifici e molteplici gare dove già aveva raggiunto risultati di rilievo e numerose medaglie.

Chi ha affrontato l’esodo del proprio popolo non è certo spaventato dalle fatiche sportive ed ancora adesso, a novant’anni, Pamich rappresenta uno dei più prestigiosi simboli della comunità istro-quarnerina oltre ad esser considerato il marciatore italiano di maggior successo di tutti i tempi.

Egli gareggiò nella 50 km di marcia in cinque Olimpiadi consecutive a partire dal 1956, a Melbourne. Vinse la medaglia di bronzo nel 1960, a Roma e l’oro olimpico nel 1964, alle Olimpiadi di Tokyo. Molteplici sono state le altre vittorie, i 50 km ai Campionati europei del 1962 e del 1966 e l’argento in quelli del 1958. Ai Giochi del Mediterraneo vinse tre ori nella 50 km (1955, 1963, 1971) e alla Coppa del Mondo di marcia della IAAF vinse l’oro nel 1961 e il bronzo nel 1965. Fu, inoltre, per 40 volte campione italiano su varie distanze. Alle (tragiche) Olimpiadi di Monaco del 1972, Pamich fu scelto dal CONI come portabandiera della Nazionale italiana durante la cerimonia d’apertura.

Dopo aver terminato la carriera sportiva, Pamich, laureato in psicologia e sociologia, ha lavorato come psicologo con la nazionale italiana di pallamano e anche come allenatore di atletica.

Quando, nel 2015, a Roma, fu istituita la Walk of Fame dello sport italiano, egli venne inserito tra i primi 100 atleti destinati ad imperitura memoria; una lista che da allora, anno dopo anno, viene periodicamente aggiornata ed allargata. Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale la famiglia di Pamich fu costretta all’esodo ed egli crebbe dapprima nel campo profughi di Novara e poi a Genova. Un’esperienza di vita che ne determinò il destino e l’impegno. Di ciò egli è sempre stato protagonista e testimone forte della convinzione che il disinteresse e l’ignoranza sono i mali della società; per lui “l’antidoto è uno solo: la memoria, da conservare e promuovere. Perché quando si nascondono la storia e i fatti, con la scusa delle ideologie che oltretutto ci hanno rovinato, siamo messi male. L’unica cosa che ci salva, in certi casi è il ricordo, da tramandare di padre in figlio. Sempre”.

Forte di questa convinzione Pamich si è sempre impegnato per la conservazione della memoria storica della comunità giuliano dalmata, anche come membro della Società di Studi Fiumani e come testimonial della “Corsa del ricordo”, istituita da qualche anno per affiancare all’attività sportiva le riflessioni sulle tragedie storiche del Novecento. Che gli fanno ricordare costantemente la sua città natale, Fiume, che gli è rimasta nel cuore: “Fiume è la città della memoria. Per noi fiumani è così. È il ricordo. Era bellissima Fiume, una città cosmopolita. Si viveva bene, ungheresi, italiani, croati. Per me non c’erano difficoltà. Poi è venuta la guerra, il disastro e il nostro esodo. Avevo 13 anni quando sono andato via, facevo la vita di tutti gli studenti. Studiavo, nuotavo, andavo in barca, in montagna. Facevo lunghe camminate, anche di 12 ore. La Fiume di prima del ’43 era allegra, c’era tanta gente spiritosa, cantavano. Era una città aperta, perché sul mare. Si parlava ungherese, tedesco, croato e italiano ovviamente. Parlavamo anche il nostro dialetto, c’era un bel mix di culture. Gli Italiani erano la maggioranza ma non c’erano problemi di convivenza con gli altri. Soprattutto con gli ungheresi. L’Ungheria mandava la gente a Fiume, al mare. Loro sono molto legati alla città [… Ma poi vennero] le persecuzioni razziali, l’occupazione Jugoslava, i sovietici, e l’esodo…con tutto quel che ne è derivato ma non hanno pagato solo gli italiani, non solo noi. E ho perso anche amici ebrei nei campi di concentramento, ad Auschwitz per esempio. Nelle Foibe per fortuna no”. E, conclude, “la storia più la si diffonde meglio è”.

A cura di Diego Redivo