Il 4 maggio del 1949 un areo torna da Lisbona verso Torino dove il “grande Torino”, la più forte squadra di calcio italiana della storia, si era recata per giocare una partita con il Benfica in occasione del ritiro del nazionale portoghese Francisco Josè Ferreira. Superate le Alpi il trimotore Fiat G212 s’imbatte in un maltempo che impedisce al pilota di valutare correttamente l’altitudine. Alle 17.05 avviene lo schianto contro il muro di sostegno della Basilica di Superga: 31 furono i morti tra cui i 18 giocatori del Torino, il simbolo di una Nazione che stava faticosamente rialzandosi dai disastri della guerra.

Tra questi anche Ezio Loik, nato a Fiume il 26 settembre 1919, nell’allora Reggenza italiana del Carnaro (dal 1924 Italia), in una famiglia proletaria. Il padre Roberto era operaio nell’industria bellica, in cui si occupava di assemblare siluri al Silurificio Whitehead. Loik aveva due fratelli: Egeo, morto sul finire della Seconda Guerra Mondiale mentre era in servizio con la Guardia Nazionale Repubblicana, ed Ervino, con cui giocò nella Fiumana, in cui Ezio esordì diciassettenne, proveniente dal Leonida Fiume, nella stagione 1936-1937 disputando 41 gare in Serie C e siglando 12 reti. Acquistato dal Milan, facendo così l’esordio in serie A, dopo tre convincenti stagioni coi rossoneri arrivò nel 1940 al Venezia dove, insieme a Valentino Mazzola, il più forte calciatore italiano dell’epoca, portò il club neroverde ai suoi apici storici, ottenendo un terzo posto nella Serie A del 1941-1942 e vincendo, l’anno prima, la Coppa Italia.

Il suo ruolo era quello di mezzala destra di movimento, generoso e dotato di una notevole resistenza fisica. Fu soprannominato Elefante per il suo incedere lento e possente, anche grazie al suo metro e ottanta di altezza (all’epoca ben sopra la media) e i tifosi lagunari lo ritenevano “l’uomo dei gol impossibili”.

Il presidente del Torino Ferruccio Novo, che in quegli anni stava allestendo nel capoluogo piemontese una squadra anno dopo anno sempre più competitiva, nel 1942 acquistò per un milione e duecentomila lire e altre contropartite tecniche, la coppia delle meraviglie, Loik e Mazzola: e, per il Torino, fu subito scudetto. Con questa mitica squadra Ezio conquistò 5 scudetti ed un’altra Coppa Italia (1942-43), segnando, in maglia granata, 70 gol.

Si racconta di un grande rispetto per il denaro che guadagnava, sicuramente superiore a quello di altri lavoratori ma, in realtà erano cifre che per entità oggi appaiono quasi risibili. Infatti, alcuni dei suoi compagni, arrivando a Torino, soggiornarono in mini appartamenti senza vetri e riscaldamento e l’automobile la possedevano solo in tre, Mazzola, Maroso e Loik, dotato di una Topolino che gli serviva per svolgere anche un altro lavoro, quello di rappresentante di vernici, per il quale doveva girare tutto il Piemonte. Un denaro che dopo le ristrettezze della giovinezza e della guerra egli sapeva benissimo dove sarebbe finito: recapitato alla famiglia a Fiume, dove vivevano i genitori e i due fratelli, Egeo ed Ervino; ma alcuni espedienti che egli escogitò per rifornire di carbone la famiglia perché si riscaldasse d’inverno, lo fecero incappare in un pericoloso incidente che comportò la frattura del piede finito sotto un camion, cosa da cui derivò per lui il grande spavento di dover porre fine alla carriera di calciatore. Ma per fortuna ciò non avvenne.

Gli anni in cui si svolse la parte centrale della carriera di Loik sono quelli della guerra, in cui l’attività calcistica inizialmente non si ferma. Proprio allora si costruisce il mito del “grande Torino” che continuerà per tutti gli anni ’40, con il primo scudetto del 1943 e, dopo la forzata pausa bellica del ’43 e ’44, periodo in cui Ezio fu arruolato, suo malgrado, nella Guardia Nazionale Repubblicana, con altri 4 scudetti consecutivi fino allo schianto di Superga. Anni in cui le convincenti prestazioni di Loik fecero sì che egli venisse convocato per 9 volte in Nazionale, esordendo a Genova il 5 aprile 1942, quando l’Italia batté la Croazia per 4 a 0. In sostanza Loik, aldilà delle sue indubbie capacità tecniche, rappresenta ancor oggi l’orgoglio di una comunità istro-quarnerina, costretta a vivere la tragedia dell’esodo e della sua Fiume, nel 1947 definitivamente assegnata alla Jugoslavia. Una comunità che ha continuato a ricordare di Loik i racconti della sua infanzia e l’amore per la sua donna, la moglie Ilia. Una vita a cui è stata posta fine con il tragico schianto di Superga, a Torino, dove poi è stato sepolto presso il cimitero monumentale insieme agli altri compagni di sventura a cui Mario Luzi non mancò di dedicare una poesia in cui rileva che “mai la morte fu veramente morte così, mai corse rapida all’essenza come questa che vi abolisce, squadra anche contro la morte, ancora squadra”.

A cura di Diego Redivo