La selezione di testimonianze qui presentata proviene da alcuni cantieri di ricerca storica e dall’incontro tra singoli studiosi e soggetti portatori di memoria viva. Quantomeno dagli anni ’90 del secolo scorso, sono state prodotte diverse raccolte di memorie secondo l’etica e le metodiche della storia orale, soprattutto presso gli Istituti storici della resistenza, i centri di ricerca legati all’associazionismo degli esuli giuliano dalmati e le istituzioni della minoranza nei territori istro-quarnerini. A partire dalla storiografia esistente e da precedenti acquisizioni d’archivio, chi ha raccolto interviste lo ha fatto per produrre nuove fonti che allargassero la scena dell’agire collettivo anche ai non- protagonisti, ai portatori di esperienze non altrimenti documentabili, in buona parte al di fuori dalle versioni istituzionali e ufficiali. Narratori e narrazioni sono stati affrontati con criteri di scientificità: dalle normative relative all’autorialità, al vaglio critico relativo al confronto con altre fonti, all’uso di strumenti interpretativi interdisciplinari per trarre da vicende particolarissime il loro senso trans-individuale e inserirle in più ampi contesti culturali e linguistici di riferimento. E’ chiaro che, rispetto a testimonianze estrapolate dai contesti discorsivi dei narratori, della ricerca, della divulgazione, solo l’interezza delle pubblicazioni può dar pieno riconoscimento e valorizzazione. In tal senso possono rappresentare un primo saggio di monografie più ampie e invogliare a leggerle nella loro interezza.
Storie particolari e soggettive, affidate esclusivamente alla trasmissione orale e rimaste invisibili sulla scena pubblica, hanno spesso aperto piste fruttuose alle ricerche, sfidando le categorie in uso per capire il passato, aprendo squarci di luce su territori opachi e mai indagati, su mentalità e codici culturali vigenti in determinati tempi e contesti. Nonostante le ampie corrispondenze tra ricordi, tali fonti difficilmente si prestano a operare una sintesi: servono infatti ad arricchire un quadro mostrandone la complessità, a far emergere il pluralismo come antidoto alla pretesa di «controllare» il passato con una narrazione univoca.
l tema delle memorie divise, ampiamente trattato dalla storiografia italiana, non è peculiarità della zona alto adriatica, la cui specificità va ricercata piuttosto nella persistenza di un uso pubblico della memoria e nella discontinuità dell’interesse nazionale. Nel lungo dopoguerra, una società etnicamente composita, differenziata su basi nazionali e microterritorialità, diversamente traumatizzata e afflitta da una vera e propria frantumazione civile, produsse memorie spesso inconciliabili. Per molti l’espressione dei recenti vissuti avrebbe comportato rischi di battaglie per le appartenenze, di diventare materia di revisioni, torsioni, versioni conflittuali. Il silenzio dovette apparire come strategia di difesa, protezione personale e familiare da un uso pubblico fuorviante; fu un modo per conciliare le sfere del pubblico e del privato, un abito sociale che ebbe il suo senso storico dall’una e dall’altra parte di confini discussi. Se fu anche cancellazione della memoria, dipese molto dagli ambiti di ascolto, dalla loro evoluzione storico-politica, dalla presenza di «corpi intermedi» di ricezione e conservazione. Pratiche della memoria furono accolte e sedimentarono nell’ambito associazionistico degli esuli giuliano dalmati e lì rimasero a lungo confinate. Il loro primo uso era stato quello di medicare le ferite dello sradicamento, di elaborare il lutto per un mondo scomparso, ma si dimostrarono poi capaci di trasmissione generazionale e di porre una forte domanda di istituzionalizzazione e ritualizzazione. Decenni di ricerche e centinaia di testimonianze hanno dimostrato ampie convergenze tematiche, tra loro e con altra documentazione, tanto da poter parlare di una «memoria popolare e collettiva» dell’esodo, stratificatasi nelle sue molteplici varianti sino a costituire un capitale morale e un riferimento culturale comuni.
Molto è cambiato con il nuovo secolo, con la ridefinizione delle coordinate di riferimento della memoria pubblica nazionale, anche attraverso la modifica del calendario civile con l’introduzione di nuove solennità. Con l’istituzione del Giorno del ricordo (2004), si è verificato il transito dalla storiografia «di confine» a quella nazionale e alla cultura di massa: il tema dell’esodo che pareva interessare solo studiosi locali ha fatto il suo ingresso nel campo del pubblicamente memorabile per la Repubblica, già legato e adombrato da quello delle foibe; si è poi proiettato nel gran mare della cultura di massa, con forza proporzionale ad una valorizzazione politica e mediatica, condotta con le nuove armi dei social network. L’enfasi sulle foibe ha occultato la assai “più complessa vicenda del confine orientale” emarginando storiografia e memorialistica già molto eloquenti sulle tante spinte che produssero l’esodo.
Nel lungo dopoguerra jugoslavo, l’amnesia fu promossa come ragion di stato e l’oblio dovette aiutare gli italiani “rimasti” a imparare a vivere nei termini di normalità l’anomalia del passaggio da una condizione egemonica a quella di minoranza. La memoria – se conservata – a lungo rimase confinata in un ambito privato-familiare, lontano dalla sfera pubblica dove lo stesso termine “esodo” era stato bandito. Se era necessario parlare degli abbandoni di massa si usava il termine di “optanti” o “migranti”, sottolineando le valenze economiche della scelta migratoria. L’ideologia della fratellanza indicava le nuove basi sulle quali costruire un’accettabile convivenza tra etnie, per proiettarsi verso un futuro carico di promesse, da inseguire con forza collettiva, rispetto al quale le sofferenze e le mutilazioni familiari e comunitarie erano concepibili alla stregua di miserie private, incidenti di percorso. Le memorie familiari riferite alle lacerazioni indotte dall’esodo si trovarono senza rilevanza culturale e senza interlocutori solidali. Solo ristretti gruppi di scrittori e intellettuali furono capaci di ragionare in termini di salvaguardia, furono in grado di mantenere ottiche alternative e legami con l’eredità di un passato che andava rivisitato ma non cancellato. Alla straordinaria produzione letteraria istro-quarnerina venne affidato il compito di trasmettere nuclei di verità indicibili, se non in forma di invenzione romanzesca, fiction.
A lungo più che divise le memorie di esuli e rimasti apparvero antagoniste rispetto al primato delle ragioni e del dolore. Le lacerazioni comunitarie furono un trauma complicato da elaborare sia sul versante della “colpa dell’abbandono” che su quello delle violenze e degli espropri, un lutto capace di coinvolgere più generazioni.
La distensione politica, il ricambio generazionale, i progressi della ricerca storica, hanno in gran parte superato almeno le più dure contrapposizioni da guerra fredda.
Oggi appare chiaro come un largo sostrato culturale, esperienziale e linguistico, accomuni i mondi dell’italianità adriatica e giustifichi l’enfasi sul tema della preservazione delle identità comunitarie, sull’autoctonia, le radici, su una territorialità che materialmente e simbolicamente contiene il ceppo delle origini.
Diversi spaesamenti e nostalgie furono a lungo condivisi dall’una e dall’altra parte del confine, mentre s’imponevano ridefinizioni della sfera privata e nuove strategie adattive nel gran lavoro della ricostruzione, della ristabilizzazione, delle nuove alfabetizzazioni linguistiche e politiche. Entrambe le parti sperimentarono il travaglio dell’accoglienza: l’una nell’essere accolta, l’altra nel dover accogliere altre etnie e culture; entrambe il restringersi della parlata materna agli ambiti strettamente familiari; entrambe la condizione di chi sostenne il peso schiacciante della storia.
Per quest’ordine di motivi si è scelto di usare memorie significative di esuli e rimasti, dei centri maggiori e dei paesi più piccoli, di uomini e donne in diverso modo protagonisti di un mondo scomparso, di quella grande cesura epocale che fu l’esodo e dei successivi processi di ricomposizione. Le fonti coprono un arco temporale lungo: dal fascismo delle origini alla fine del secolo scorso e rappresentano con tutta probabilità gli ultimi contributi di memoria vivente.
Sono prevalentemente tratte dai lavori di Enrico Miletto e Gloria Nemec cui si rinvia a fine citazione, ma vanno anche segnalate le raccolte di Niccolò Zivis, L’esodo da Rovigno. Storie, testimonianze, racconti, a cura di F. M. Zuliani, Famìa ruvignisa, Trieste 2008; Giacomo Paiano, La memoria degli italiani di Buie d’Istria. Storie e trasformazioni di una comunità contadina tra il 1922 e il 1954 nelle testimonianze dei “rimasti”, Centro di ricerche storiche – Rovigno, Monografie IX, Rovigno – Trieste 2005.
In tema di memorie si segnala anche l’importante lavoro divulgativo condotto da Olinto Mileta Mattiuz e Guido Rumici, Chiudere il cerchio, pubblicato dall’ANVGD di Gorizia in collaborazione con la Mailing List Histria, consistente in quattro volumi antologici, usciti tra il 2008 al 2016.
Fuori dal piano discorsivo dell’oralità, ma affini per struttura e assai significativi sul tema degli spaesamenti, sono stati inseriti alcuni brani provenienti dalla documentazione clinica dell’archivio dell’ex Ospedale psichiatrico triestino di san Giovanni: riguardano il colloquio iniziale tra lo\la psichiatra e l’esule accolto.
L’attuale offerta si potrà implementare in vario modo: con contributi provenienti da altre aree, con il proseguimento della ricerca sulle seconde generazioni, con il confronto con i più recenti lavori di storia orale in ambito sloveno e croato.
Le interviste inserite in questa sessione sono state realizzate in un lungo arco di tempo con l’intento di ricostruire, attraverso la viva voce dei protagonisti, un tessuto sociale, umano, culturale, storico per raccontare l’esodo nell’evoluzione di questo “piccolo popolo” nei luoghi di nuovo insediamento ma anche nei rapporti con le località di provenienza. Datate? Il criterio scelto è quello di rispettare luoghi e tempi in cui queste sono state realizzate per non deformarne il messaggio e coglierne l’essenza. Si avverte una lenta ma continua evoluzione nella sedimentazione delle passioni immediate ed una esigenza di capire e costruire nuovi scenari per se stessi più che per i figli che sono spesso defilati, a volte distratti ma comunque coscienti di un legame speciale con il mondo dei padri. Molte sono state realizzate durante i Raduni di Dalmati e Fiumani, altre in occasione di convegni e tavole rotonde ma la maggior parte nascono da un preciso progetto di raccolta di fonti orali per dare continuità al senso d’appartenenza ai luoghi dell’esodo e ad una nuova identità composita. C’è un collante che caratterizza questo mondo antico e unisce le sue genti. Queste interviste lo confermano.
Molti dei personaggi intervistati sono andati avanti, a loro rendiamo omaggio proiettandoli nel presente con la forza delle loro storie.
Redazione: Rosanna Turcinovich Giuricin, Gloria Nemec, Enrico Miletto, Emiliano Loria
Documentazione fotografica: Circolo di cultura istroveneta “Istria” (Trieste), Società di Studi Fiumani (Roma), IRCI (Trieste), Istituto Luce (Roma), Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea