Numerosi autori – scrittori e poeti – si sono confrontati nelle loro opere con la specifica dimensione dell’esodo giuliano-dalmata. Ne sono sorti romanzi, racconti, sillogi di grande valore e spessore letterario, proprio perché – affrancati dagli schemi della semplice memorialistica, della testimonianza – è stata colta la sfida più appagante, profonda e universale; quella dell’introspezione, dell’indagine dell’animo umano, della ricerca di risposte alle inquietudini dell’esistenza, del confronto con i dilemmi, l’inafferrabilità, i segreti della vita.
Ed infatti, in quanto “letteratura”, quella dell’esodo italiano da queste terre, non si distingue dalla grande letteratura mondiale che nelle sue pagine, da Omero a Virgilio, da Ovidio a Dante, da Ugo Foscolo a Tommaseo, da Goethe a Kafka, da Brecht a Camus, da Kundera, Ungaretti a Joyce, ha parlato dell’esilio e dello sradicamento, ha affrontato l’esodo come tema universale, paradigma dello straniamento e della condizione umana.
Molti si sono posti il dilemma se si possa parlare, come “categoria”, di letteratura dell’esodo e se questa possa essere imbrigliata in una definizione, racchiusa in un “genere” specifico. Al di là delle tante e possibili “categorizzazioni” noi pensiamo si tratti di letteratura e basta; quel grande dono dello spirito umano, frutto di meraviglia e di creatività che gli scrittori e i poeti hanno saputo trasmetterci nel tempo.
Nei contenuti di ESPOES, il nostro spazio virtuale e interattivo dedicato al tema dell’esodo, non poteva mancare una delle espressioni più alte, significative ed emblematiche dell’esperienza della diaspora italiana dall’istria, Fiume e la Dalmazia: quella tradotta e consacrata per sempre nelle parole degli scrittori e dei poeti. Siamo certi che le pagine di un romanzo, i versi di una poesia siano in grado di interpretare, spiegare e rappresentare meglio di centinaia di pagine di storia la sofferenza e lo sradicamento patiti da una comunità costretta ad abbandonare per sempre la propria terra, e di una minoranza ridotta alla condizione di “esuli in casa”: entrambi cacciati dal proprio mondo.
Nell’elaborare questo comparto abbiamo tratto spunto da alcuni importanti punti di riferimento: il numero doppio (97-102) che la Rivista trimestrale di cultura “La Battana” dell’Edit di Fiume ha voluto dedicare – fra i primi – nel 1990/1991 al tema della “Letteratura dell’esodo” con il numero monografico contenente saggi critici sui principali autori e quello antologico intitolato “Pagine scelte”; il convegno “Scrittura sopra i confini: letteratura dell’esodo” promosso dal Centro di documentazione multimediale “Arcipelago Adriatico” in collaborazione con la rivista “la Battana, a Trieste, il 10-11 giugno del 2005, e il Convegno internazionale “L’esodo giuliano dalmata nella letteratura” organizzato nel marzo del 2013 dall’IRCI, l’Istituto Regionale della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata di Trieste in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo triestino.
In questa “stanza” virtuale proponiamo i testi e le biografie, saggi, contributi e riflessioni, alcuni brevi cenni e riferimenti relativi ai principali autori che, nelle loro opere, hanno trattato la questione dell’esodo istriano, fiumano e dalmata; sia in quanto protagonisti di questa triste esperienza, che come testimoni, osservatori e interpreti di una dimensione umana, a prescindere dal loro luogo natio e di residenza o dalla loro appartenenza: tutti, indistintamente, soggetti di un grande racconto collettivo, cantori di una storia di esilio e di abbandono che è diventata monito e ricordo, testo, romanzo e poesia, ma che vuole continuare ad essere espressione della continuità di una ricca eredità culturale e, soprattutto, segno di speranza di una comunità.
Ezio Giuricin
La letteratura è anche uno strumento teso alla ricerca dell’identità umana, un richiamo volto a stabilire il senso dell’esistenza. La Battana ha voluto porgere un contributo a questa scoperta interiore e, insieme, recuperare i contenuti più autentici di un’identità regionale ed etnica focalizzando, in questo numero, il problema della diaspora, e i valori umani, letterari e culturali ad esso più profondamente legati.
Esiste una letteratura dell’esodo che non esprima un concetto generico e onnicomprensivo? Molti si interrogano se la tragedia della diaspora istriana abbia mai avuto la possibilità e la capacità di tradursi in esperienze creative, in segno, racconto, testimonianza universale assurgendo, quindi, a valore e dignità letterari. L’esilio, la separazione, lo sradicamento hanno sempre rappresentato, in ogni tempo e in ogni luogo, dei significativi stimoli a sostegno della creatività artistica e letteraria.
L’immaginario, l’utopia e il sogno sono sempre appartenuti all’uomo solo, all’errante, all’individuo cacciato dalla sua terra e dal suo mondo. La sofferenza intesa come carica di creatività, simbolo di una condizione universale, segno di esperienza per sé e per gli altri, è sempre stata un «privilegio» degli sradicati, dei condannati a non esistere, di chi non ha voluto soggiacere alle regole dell’omologazione. La letteratura dell’esodo – e del «nostro» esodo in particolare – non è solo la sublimazione e la trasumanazione di una profonda lacerazione storica. È soprattutto una denuncia delle contraddizioni dell’uomo moderno, segnato-come afferma lo scrittore fiumano Paolo Santarcangeli – dal continuo perpetuarsi della difficile ricerca di sé, di un «posto» in cui sentirsi a proprio agio, di un’identità in grado di rispondere alla precarietà dell’essere.
«Chi viene bandito, viene bandito dal mondo. E l’esilio dal mondo è la morte» – affermava Shakespeare. È comprensibile, dunque, quanto il tema della diaspora istriana sia intimamente connesso ai dilemmi ed ai drammi universali dell’individuo, al problema della morte e dell’affannosa ricerca di una ragione per vivere, al grande fiume della cultura e della letteratura mondiali. È evidente, quindi, perché la narrazione e la poetica dell’esodo costituiscano un tratto importante della letteratura di tutti i tempi, da Omero ad Ovidio, da Dante a Goethe, da Kafka a Joyce, da Mann a Kundera. Gli scrittori della diaspora istriano-giuliano-dalmata come Tomizza, Morovich, Quarantotti Gambini, Anzellotti, Vegliani, Stuparich, Brazzoduro, Zandel, Santarcangeli, Predonzani, Madieri, Fabrio e le decine di altri validissimi autori che hanno operato al di qua e al di là del confine, hanno portato il loro contributo di immagini di invenzioni, di pensiero alla grande casa comune della letteratura mondiale. Anzi, possiamo dire che si sono fatti interpreti dell’originalità e dell’irripetibilità – anch’esse universali – della memoria e dell’esperienza di queste terre.
Lo sradicamento, l’«esilio e il regno» della cultura istriana hanno dato vita ad una produzione letteraria riconoscibile; ad un’inesauribile fonte di messaggi e di riferimenti per la comprensione della nostra storia. Se questa produzione non ha ottenuto un’eco e una diffusione adeguati, e se spesso tale letteratura (parliamo di letteratura, non di memorialistica o semplice testimonianza) è stata erroneamente associata ai limiti del provincialismo e della nostalgia, le cause debbono essere ricercate anche nella volontà politica di emarginare una cultura e di stendere un velo di oblio sullo scomodo e imbarazzante tema dell’esodo. La diaspora – umana e universale tragedia che ha sconvolto, come mai prima era avvenuto, la fisionomia di una regione – per troppo tempo è stata concepita come una perdita, una vergogna, una colpa e non come un’esperienza da valorizzare.
Emarginando questo tema, allontanando l’interesse dei lettori da un argomento che mai avrebbe dovuto assurgere alla sensibilità del pubblico e della cultura nazionali, si è voluto negare, alle generazioni più giovani, il diritto di ricordare e di riconoscersi. Il tipo di politicizzazione attuata strumentalmente, dall’una e dall’altra parte, nei confronti del dramma dell’esilio, ha contribuito a svilire e contenere la portata di un segmento letterario che altrimenti avrebbe potuto raggiungere livelli di diffusione ben maggiori.
La Battana con questo numero tematico interamente dedicato alla letteratura dell’esodo e, soprattutto, con le altre iniziative culturali che seguiranno(1), intende valorizzare una produzione ingiustamente sottratta ai suoi naturali destinatari: i figli degli andati e dei rimasti, i vecchi e nuovi abitanti di queste terre. Intende affermare, con il diritto di ricordare, la volontà di ricucire i fili spezzati di una cultura posta fra e oltre i confini degli Stati, il desiderio di ricostruire un dialogo interrotto, la libertà di guardare in faccia il futuro.
Siamo convinti di una cosa: questo è il tempo della letteratura dell’esodo. Trascorsi molti decenni dalle dolorose fratture del passato, il nodo della diaspora si sta presentando, appena oggi, in modo sereno e sotto una nuova luce. Le mutate circostanze stanno favorendo la diffusione e la comprensione di testi cui, nel passato, non è stata rivolta sufficiente attenzione, di opere sin troppo citate ma mai realmente lette e, perché no, di titoli e di autori nuovi.
Il dibattito che La Battana ha voluto avviare, senza alcuna pretesa di offrire un quadro esauriente della «letteratura dell’esodo»(2) nasce da quell’ «etica della convinzione» che ci ha sempre mossi, dal dovere che sentiamo di sottrarre all’oblio una parte significativa del nostro passato. La nostra iniziativa esprime una speranza: ricongiungere ciò che era lacerato per fare fronte al debito che abbiamo contratto con la storia.
Alcuni articoli recenti, qualcuno anche recentissimo, hanno riproposto la questione della letteratura dell’esodo. Qualcuno lo ha fatto limitandosi a descrivere il fenomeno, a cercare di definirne le dimensioni, a elencare scrittori per generi e per generazioni. Qualche altro, invece, ha caricato il concetto e il fenomeno di un’omogeneità che ne farebbe da un lato una categoria storiografica o critica; da un altro lato una sorta di condizione spirituale rivelata attraverso tutta una letteratura; da un altro lato ancora un insieme di fatti, di opere e di autori organicamente collegati a uno spirito comune.
La questione pone qualche problema: per es., l’uso che si può fare di un concetto del genere, i fenomeni ai quali esso può essere riferito, le articolazioni e le distinzioni necessarie affinché non diventi un’etichetta troppo generale e quindi generica.
Esistono altre “categorie” e “concetti” elaborati dalla critica e dalla storiografia letteraria che devono essere trattati con un’analoga cautela. In primo luogo, quella che si riferisce a condizioni “regionali” e “locali”. Per es., letteratura “ligure” o “ligustica”, “lombarda”, “meridionale”, “siciliana”, “triestina”, “giuliana”. Si tratta di contenitori abbastanza larghi, di capitoli ampi in cui può trovar posto una vasta fenomenologia di presenze che rappresentano una situazione, un territorio. Naturalmente, l’intelligenza dello storico dovrà essere tale da considerare i fenomeni nella loro diversità e nel loro sviluppo, nella sincronia e nella diacronia. Certo, ci sono poi i catalogatori di episodi e di frammenti che avvengono in un determinato spazio e procedono a cataloghi senza puntare alle distinzioni storiche, alla storia. Ma questo è un altro discorso, un altro piano di lavoro: utile per partire, non per capire. Così come l’elenco telefonico può anche essere un utile punto di partenza per capire come è fatta una città. Ma solo questo.
Questi contenitori, di cui si è detto, hanno la stessa funzione di altri più ampi e in qualche caso anche molto più complessi, quali sono quelli delle grandi letterature corrispondenti ai grandi Stati nazionali che, come è noto, non sempre (e non tutti) hanno avuto la stessa fisionomia della odierna, hanno cambiato confini, sono stati formati da successive aggiunte o viceversa da scorpori e divisioni di più ampi territori. Anche qui, dunque, bisogna procedere con cautele e intelligenza, come ci ha insegnato Dionisotti nel saggio su Geografia e storia della letteratura italiana, un classico della metodologia storiografica letteraria contemporanea.
Il discorso cambia e diventa più difficile quando si affrontano altre categorie che vorrebbero rappresentare il particolare spirito, il genius loci di una determinata situazione culturale (per es. «sicilianità», «friulanità», «ligusticità», «triestinità» ecc.). In questo caso, si può dire che c’è del vero e del falso in categorie del genere. Del vero, nel senso che indubbiamente un determinato contesto (politico, storico, culturale ecc). dà origine a problemi comuni e può stimolare atteggiamenti simili. Ma non sempre. Comportamenti e risposte a uno stesso contesto possono anche essere diversi, talvolta assai diversi (per ragioni di cultura, di gusto, di interessi soggettivi, scelte religiose, scelte politiche, tradizioni familiari, ecc.). Non solo. Il contesto stesso è soggetto a variazioni che possono essere anche rapide e che possono produrre mutamenti di atteggiamenti e comportamenti collettivi e individuali anche sensibili per cui anche il cosiddetto genius loci dovrebbe essere visto nei suoi aggiornamenti.
Anche il latte materno, grazie a Dio, non sviluppa figli uguali, fatti con lo stampo. E, poi, anche i figli nascono a distanza di anni e vivono esperienze diverse a contatto con ambienti, persone e problemi che non sempre sono i medesimi.
Per questo, mentre si deve guardare con attenzione a tutti gli sforzi per cogliere denominatori comuni, bisogna però essere cauti di fronte a categorie generiche che rischiano di essere delle camicie di forza che impediscono un modo più complesso di capire una situazione nelle sue identità, varietà, mutamenti, trasformazioni, differenze.
Qualcosa di analogo si può dire anche a proposito di altri contenitori ed etichette – altrettanto generali e di carattere indicativo – che si riferiscono a condizioni o situazioni particolari o a eventi storici intorno ai quali si è organizzata una determinata letteratura. Per es., «letteratura di guerra» (con le distinzioni: della prima, della seconda), «letteratura concentrazionaria», «letteratura della resistenza», «letteratura industriale», ecc…
Nelle storie letterarie, questi paragrafi possono occupare un posto di maggiore o minore rilievo nella trattazione di un periodo, di un’età. La loro denominazione non vale a indicare scelte di stile, di poetica o particolari qualità letterarie delle opere che vi sono comprese ma solo il contenuto, il soggetto, il contesto, i fatti a partire dai quali o intorno ai quali un’opera è stata organizzata. Perciò, anche se i fatti di cui parlano queste opere sono drammatici, o presentano connotazioni definite di altro genere tragici, l’etichetta che si riferisce a una di queste esperienze, è e rimane solo un indicatore, un fatto ancora “neutro”: qualcosa che non definisce né la prospettiva e l’ottica in cui l’esperienza è stata vissuta né la qualità del discorso.
Con il solo contenuto non si fa letteratura, così come – è stato detto – non si fa letteratura con le intenzioni e i sentimenti, anche se buoni: un’opera sulla guerra e sulla resistenza non diventa testo letterario perché parla di questi temi (che, in sé e per sé, non sono da considerarsi privilegiati rispetto ad altri nel produrre letteratura, forse più avvincenti o drammatici dal punto di vista delle emozioni umane: ma non è la stessa cosa); né diventa testo letterario semplicemente perché un autore ha deciso di dar loro la veste di una lirica o di un romanzo. Lo diventa perché, su quei temi e nel linguaggio scelto, l’autore ha scelto delle prospettive originali di discorso, perché – servendosi di quel linguaggio – è riuscito ad aprire prospettive nuove di lettura di un fenomeno, perché – ancora – ha usato in forme nuove e inedite il linguaggio di una tradizione.
Da questo punto di vista, l’opera letteraria può avere un peso anche testimoniale talvolta maggiore pure rispetto alle pagine di un testo di memorialistica o di un testo di storia. E ciò in due sensi: anzitutto perché l’esplorazione nelle pieghe dell’universo umano nella sua concretezza, nella sua quotidianità, nei fatti e negli eventi comuni nella sensibilità dei protagonisti, può offrire una testimonianza di prim’ordine su aspetti che la storiografia ufficiale spesso ignora (su questo problema bisognerebbe rileggere attentamente lo splendido saggio di Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia (in «Il Menabò», 10, Torino, Einaudi, 1966). Non solo. Anche il linguaggio, le scelte formali (intese nel senso più ampio: non solo la lingua, lo stile inteso come fatto esterno, ma l’organizzazione del discorso, delle immagini ecc.) sono una testimonianza, costituiscono una lettura dei fatti.
Nei testi pubblicati in questo volume di saggi, c’è qualcuno che mostra di dubitare dell’attendibilità delle testimonianze che provengono dai testi letterari: «Io ritengo – scrive questo autore – che l’interpretazione artistica, per quanto si sforzi di riprodurre fedelmente il clima del tempo e dello spazio, ovvero dell’evento che cerca di trasporre sul piano letterario, resta pur sempre un’interpretazione, una elaborazione sui generis che può essere tanto interessante quanto inaffidabile».
Con Enzensberger, ritengo che non si possa negare alla letteratura una carica testimoniale particolare, anzi – direi – di particolare rilevanza, di un peso di una rilevanza per nulla inferiori a quella della storiografia. Naturalmente, il discorso non riguarda tutti quelli che scrivono opere letterarie ma solo quelle di livello, originali. L’autore citato ha ragione invece quando afferma che si tratta di interpretazioni. Ma la storiografia non è fatta anch’essa di interpretazioni, di letture dei fatti? E la letteratura, certa letteratura di oggi (si pensi al caso di Sciascia, per es.). non vive talvolta e non si nutre anch’essa – come la Storia della colonna infame di Manzoni – di documenti, di letture di testi di archivio, di ricognizioni anche micrologiche di reperti e testimonianze di ogni genere spesso ignorati o sottovalutati dalla storia ufficiale? Solo che la letteratura adopera – poi – altri strumenti, un altro linguaggio, si avvicina o sceglie i propri soggetti con altre tecniche.
Bisogna per altro ricordare che il testo letterario, come del resto anche un saggio di storiografia su un singolo aspetto di una questione generale, non deve essere scambiato per un manuale o per un quadro complessivo di un’età. Mi è capitato di leggere recentemente, proprio in uno dei profili della letteratura dell’esodo, un’affermazione singolare: l’opera di Tomizza, pur lodata per la «bravura», letteraria, viene considerata come rappresentativa non del «mondo della maggioranza degli esuli», non del mondo delle cittadine costiere, ma di quello dell’interno rurale, contadino. Oltre a ciò. Si rimprovera allo scrittore di avere espresso giudizi di tipo politico non condivisi dall’«esule italiano». Non voglio entrare, in questa sede, nel merito di queste argomentazioni, che personalmente non condivido. Ciò che voglio dire è semplicemente che al romanzo, qui, viene chiesto di essere come un manuale: non si capisce che l’autore può scegliere – per raccontare la storia – anche uno scorcio, un particolare ambiente, una prospettiva di un complesso fenomeno. In secondo luogo, nello stesso profilo si condivide e si assolve lo scrittore, o invece lo si critica, solo in base alla prospettiva e ai giudici politici che sembrano essere stati espressi nelle pagine dei suoi libri. Senza intendere, per es., il fondo di dolore, di pietà, di amarezza, la volontà di capire qualcosa di più di quei grovigli, che esce dalle pagine di questo scrittore e dalla sua operazione complessiva (anche il tentativo di capire uscendo dall’Istria o tornando indietro nei secoli).
Una cosa, in ogni caso, va ribadita: e cioè che l’adozione – in un libro – di un contenuto non ha nessuna conseguenza sul piano del valore, non ci dice nulla circa la qualità del libro.
E qui sono invece d’accordo con Sergio Cella che, in un suo saggio recente (La letteratura dell’esodo, in Quattro passi fra le Muse, in “L’Arena di Pola”, supplemento estate 1989, Gorizia), ha sottolineato – accanto alla sincerità – l’”antiletterarietà” (nel senso di assenza di letterarietà) di tanta letteratura dell’esodo; e che ha rilevato anche come lo sforzo testimoniale sia stato spesso un ostacolo “alla libera espressione d’arte”; e che ha avvertito circa la necessità di considerare il valore di una letteratura in cui invece avrebbero trovato spazio la riflessione, la meditazione, la memoria una maggiore complessità di visione di fatti e personaggi.
Il saggio di Cella ha pure il merito di aver indicato la necessità di individuare – all’interno della letteratura dell’esodo – articolazioni generazionali e sviluppi di prospettive nell’uso di strumenti letterari più idonei per affrontare il problema in modo non riduttivo.
In ogni caso la “letteratura dell’esodo” come indicazione storiografica rimane un problema che ha, poi, bisogno di ulteriori precisazioni preliminari.
- Anzitutto, questa espressione indica la presenza – in un corpus di opere – di un tema, di una problematica di forte drammaticità. Si tratta di stabilire le dimensioni del corpus: solo le opere legate direttamente agli anni dell’esodo? Generalmente, il criterio adottato è più ampio: il corpus comprende tutte le opere, anche quelle prodotte oggi che abbiano come soggetto l’esodo.
- Dunque, opere scritte dagli stessi protagonisti di quegli eventi negli anni in cui essi si verificavano, opere scritte “a caldo”, ma anche opere scritte dagli stessi a distanza. Ma, anche, opere di protagonisti più giovani che vissero direttamente (negli anni dell’infanzia) o indirettamente (nati, cioè, successivamente, da famiglie che avevano subìto quell’esperienza traumatica).
- Anche opere di testimoni esterni, cioè non istriani, che però vivono quei fatti, ne partecipano sentimentalmente e ne scrivono. In qualche caso, la compartecipazione può dar luogo non a pagine sull’esodo ma a ricordi sull’Istria com’era, sulle proprie esperienze di viaggio e sulle proprie amicizie istriane. Bisogna tuttavia fare attenzione, in questo caso, a non mescolare indebitamente testi che hanno come soggetto l’Istria – indipendentemente dalle circostanze storiche dell’esodo – e pagine in cui, invece, il discorso sull’Istria è stimolato direttamente dal (o inserito nel contesto di) una rappresentazione degli eventi o del periodo e delle circostanze dell’esodo.
- I riflessi di un evento o di un’esperienza in letteratura possono essere riscontrati – in un’opera o in un’attività di scrittore – non solo direttamente (per es. nei contenuti di un testo) ma anche indirettamente: per es., nella sensibilità di uno scrittore, nelle sue inquietudini, nella problematica dei suoi testi che può essere anche composta di immagini con valore simbolico o metaforico, nello stesso stile e organizzazione delle immagini che possono riflettere questa sensibilità e quindi – alla lontana – esperienze vissute.
- Nella “letteratura dell’esodo” vengono comprese non solo opere della cosiddetta “letteratura creativa” (narrativa, poesia, ecc.) ma anche saggistica, testi giornalistici, oltreché – s’intende – la memorialistica, la diaristica, l’epistolografia.
- Sotto questa voce può essere compresa non solo la produzione degli scrittori la cui esperienza diretta e indiretta del fenomeno è avvenuta al di là del confine varcato nell’esodo ma anche che a vissuto quell’esperienza al di qua di quel confine: i “rimasti”, cioè, o i loro successori più giovani che hanno testimoniato in vario modo o hanno voluto parlare di quegli avvenimenti.
Si tratta di indicazioni che sono servite per l’allestimento di questo numero ma che – indubbiamente – potrebbero essere utili anche per imprese più ampie ed esaurienti: per esempio, quella grande antologia sull’argomento che qualcuno ha auspicato: antologia e – aggiungerei – storia che richiederanno cure e indagini molto attente (e quindi tempi lunghi), anche perché gran parte dei testi di questa letteratura (e non solo quelli occasionali) si possono leggere su riviste, periodici, numeri unici ecc.
Quella di questo numero è una ricognizione di fenomeni e di testi che ha proceduto un po’ anche per campioni, senza voler essere un catalogo completo e un’illustrazione sistematica. E, tuttavia, la scelta risulta – alla fine – rappresentativa di linee e di tendenze: sia nel settore saggistico (studiosi di qua e di là dal confine, di generazioni diverse, di differente formazione e orientamento politico-culturale). Testi di livello genere qualità impianto diversi, di autori che hanno alle spalle una storia, un’esperienza anch’esse diverse. Vi sono scrittori che concentrano la loro testimonianza sulle proprie esperienze e sulle proprie amarezze, e altri che da esse allargano il discorso a motivi problematici più generali. Vi sono scrittori noti e altri emergenti o meno noti, almeno secondo il criterio del riconoscimento ufficiale delle case editrici che hanno pubblicato le loro opere e dei giornali, delle riviste, dei critici che ne hanno parlato o scritto. In genere, i lettori delle case editrici e i critici hanno individuato bene i livelli e le punte, ma resta il fatto – in ogni caso – che vi sono scrittori dei quali si è parlato poco e che dovrebbero essere conosciuti meglio e da un pubblico più vasto (è un discorso che si va facendo da tempo e che qui viene ripreso anche in un articolo di Franco Juri).
In ogni caso, le pagine di questo volume documentano abbastanza compiutamente anche la varietà di forme, di linguaggi e di registri, oltreché di ottiche, che hanno caratterizzato questa letteratura. Tale varietà deve essere considerata, s’intende, non solo in rapporto alle differenze “costituzionali” tra i diversi scrittori, alla diversità delle loro esperienze, ma anche al periodo e alla posizione nella quale si collocano le singole esperienze di scrittura.
Quanto ai generi praticati in prevalenza, racconti, liriche, testi di memorialistica magari trasformata in racconto, molte pagine tra saggistica e autobiografia e – sul piano degli interventi critici ancora pagine di saggistica narrante, articoli con il taglio del pamphlet con risvolti polemici, rassegne di scrittori, piccole monografie, schede. Naturalmente, in questo caso, la varietà è determinata dalla volontà di affrontare sia certi nodi critici e polemici di fondo, sia di dare qualche informazione di base sull’attività dei singoli scrittori con interventi la cui ampiezza è variabile in rapporto alla maggiore o minore notorietà del personaggio (si è insistito più a lungo, si sono programmati interventi più ampi, su autori emergenti o su aspetti meno studiati di autori maggiori; in qualche caso, ci si è limitati dunque alla scheda tenendo presente anche l’illustrazione che ne risulterà nella parte antologica). Bisogna anche avvertire che, partendo da una ricognizione sulla letteratura dell’esodo, si è voluto estendere in qualche caso il discorso sulla letteratura degli istriani dopo l’esodo per verificare in quali modi, indipendentemente dalle pagine dove questo tema è stato affrontato direttamente, si sono sviluppate le pratiche della scrittura di protagonisti diretti e dei più giovani scrittori che escono da famiglie che hanno vissuto questa esperienza.
Quanto ai modi e ai registri della produzione letteraria alla quale si fa riferimento, essi spaziano tra il dolore della memoria, l’angoscia per il futuro, la nostalgia delle cose perdute o mai raggiunte, l’invettiva, la polemica pacata, il lirismo, la riflessione. Registri come atteggiamenti, come espressione di atteggiamenti umani, affettivi, sentimentali, culturali, politici, ecc…
A tali registri corrisponde anche una scrittura che può assumere configurazioni diverse: più o meno enfatica; liricizzante; in alcuni casi (non sempre, e non necessariamente) retorica di fronte all’impatto con i traumi determinati dai momenti più dolorosi dell’esperienza compiuta; più ampia e riflessiva, meditativa (come ha sottolineato anche Cella) quando il tempo e altre esperienze abbiano messo una distanza tra quei fatti e l’autore; più complessamente analitica, con risonanze esistenziali – o alle volte ironiche – la scrittura di testi più vicini a noi nel tempo. Alcune opere di questa letteratura rivelano la tenace volontà di riaffermarsi, di testimoniare allo spasimo il rapporto con le proprie radici e la propria consistenza; altre opere si rivelano anche più dolorose, più sottilmente dolorose nel procedere non solo a una ricognizione di sé e delle proprie esperienze ma anche nel tentare un’anamnesi della storia che le ha prodotte e magari nel procedere a impietose e lucide esplorazioni della politica di ieri e di oggi, dall’una e dall’altra parte della storia e dei confini. Direi che, oggi, è soprattutto questo genere di atteggiamenti a prevalere sia in alcuni esponenti delle generazioni più vecchie sia soprattutto negli scrittori più giovani. Le espressioni di mera nostalgia, le rievocazioni liricheggianti del mondo perduto lasciano sempre più lo spazio a referti più articolati che toccano anche i rapporti tra esperienze personali e vicende più larghe, problematiche generali della storia e della civiltà. Sono soprattutto gli scrittori delle generazioni più giovani a muoversi su queste linee. Oppure su quella di una letteratura che, pur non trattando tematiche specifiche dell’esodo, riflettono (penso ai testi di Zandel o di Klobas) – nella scrittura e nell’organizzazione del testo, o attraverso metafore – un’inquietudine che può essere collegabili anche, forse (o senza forse), alle esperienze traumatiche e angosciose, vissute in prima persona o dalla famiglia, che hanno segnato indelebilmente le esistenze di protagonisti e dei testimoni.
Elvio Guagnini, da “La Battana”, n. 97-97, 1990
Redazione: Diego Zandel, Donatella Schurzel, Ezio Giuricin, Gianna Mazzieri, Rosanna Turcinovich Giuricin