GIuseppe (Bepi) Nider nacque a Rovigno d’Istria il 21 Novembre del 1914, figlio di Raimondo Nider. Ad appena 6 mesi assieme alla madre venne tradotto in un campo di internamento, a Litomysle in Boemia, e poi a Wagna in Stiria, assieme a migliaia di altri civili italiani dell’Istria e del Trentino internati dalle autorità austriache allo scoppio della Grande guerra.

Suo padre Raimond , che non conobbe, venne dato per disperso sul fronte russo. Era partito soldato in Galizia; di lui ebbe solo una ciocca di capelli, che egli aveva inviato a sua Madre: poco dopo veniva dato disperso suI fronte russo, da dove mai fece ritorno. Tre anni dopo la fine del conflitto, nel 1921 Giuseppe Nider potè ritornare a Rovigno.

Nella sua città natale venne cresciuto dalla mamma e dai nonni materni e paterni. Seguendo questi ultimi di ideali repubblicani e mazziniani, si trasferì nel 1923 a Pola con la madre, in via Epulo. A Pola frequentò il Liceo-ginnasio “Carducci” e fece le prime esperienze teatrali, recitando in qualche filodrammatica e scrivendo versi. E’ qui che incontrò i primi oppositori al nascente fascismo, come i professori Pangher, Ancich e Stefanacci.

Terminato il Liceo, nel 1937 si trasferì ad Albona dove insegnò e recitò nella filodrammatica locale e dove conobbe Mira da cui ebbe un figlio: Raimondo, cui venne dato il nome del nonno scomparso. Nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, venne richiamato alle armi.

Ufficiale dei Granatieri di Sardegna, dopo 1’8 Settembre 1943, Bepi decise di partecipare alla Resistenza nell’Albonese. Dopo la liberazione venne nominato direttore delle scuole italiane e nel ’45 costituì la prima filodrammatica italiana dell’Istria.

Con questa allestì spettacoli ad Albona, Rovigno, Cittanova e Parenzo e divenne attore a Radio Pola a fianco di Danilo Colombo ed altri nomi noti di allora.

A causa della sua attività quale membro dell’API (Associazione Partigiani Italiani) venne espulso da Pola dal Governo Militare Alleato, per trasferirsi a Roma nel marzo del 1947.

Il Provveditorato di Roma, visto il suo curriculum e i suoi titoli, lo nominò fiduciario della “Casa dei Bambini Giuliani e Dalmati”, all’EUR. Al contempo si iscrisse alla Facoltà di Giornalismo del Pontificio Ateneo Lateranense .

Professore di Letteratura e Storia, direttore della Scuola-ColIegio “Orti di Pace” a Roma, attore alla RAI, regista di rappresentazioni sacre ed opere liriche, recitò con i più grandi attori di prosa del momento. Divenne regista ed insegnante di recitazione del Centro di Educazione Artistica del Provveditorato agli Studi di Roma e fino al ’68 collaborò come attore e scrittore alla Radio vaticana. Scrisse e pubblicò racconti, liriche in lingua ed in dialetto, appunti di storia moderna e contemporanea. Vinse concorsi di poesia e venne pubblicato in numerose antologie letterarie e scolastiche, ottenendo numerosi riconoscimenti e premi letterari.

Ma Bepi fu soprattutto il poeta degli istriani: in tal senso il Centro di Cultura Giuliano-Dalmata, di cui è stato uno dei fondatori, ne raccolse alcuni lavori in un’antologia, «Campane a nembo», attraverso la quale la sua gente ha cercato di ritrovare se stessa e la propria terra perduta. Si spense a Roma l’11 luglio del 1992.

Vanno ricordate le più importanti pubblicazioni: “Terra nostra”, del 1949; “Aria di casa nostra” del 1967 pubblicato dall’Arena di Pola ; “Al tempo de la cintura di castità”, del 1968; “Mis-Mas”, del 1970; “Campane a nembo”, del 1978.

 

NO DIMENTICHEMO

 

Va per el ciel, de qua e de là girando,

un tochetin de luna

e, tra le frasche,

fis’ceta un rusignol ‘na serenada.

S’colto in silenzio e guardo,

posà sula finestra,

le stele lusigar nel scuro

mar de la note

e col pensier ghe mando

al tochetin de luna

‘na preghiera:

“Quando doman, in viagio,

ti rivarà sul mio paese,

 

carezime, te prego,

la cesa, el campanil

la mia caseta.

Fermite un momentin,

solo un momento,

sora le tombe

del vecio cimitero e

basa una per una

le lapide e le crose

e dighe ai Morti, dighe

luna, te prego,

che no dimentichemo”.

 

 

A ZI SCOURO A MONTO

 

El zi longo stu tramonto da pierla,

el zi longo a mori.

La sira, sbourtada dai buoti

del campanon ca sona l’Avemarea,

la sa fadeiga a cuvierzi

la nouda scujera,

da la “baluota” a la “lantierna”,

c’oun vil da ombra.

Cala, pian pianein,

la nuoto e la sa slonga

sul lieto del mar duve,

luntan, inquiti, impeisa el tradimento

i farai de li batane.

A zi scouro a “Monto”.

Passa oun ciapo da luri

ca faviela in t’ouna leingua

ca mei nu capeiso;

ma ciaro ma zi el dascurso

ca ma fa la marita,

s’cipando zuta li groute:

paruole ca ma conta stuorie

da luote, da fedeighe,

da feste e d’aligrea,

da radaghi e da muorti.

Sul feil del maistro

ma reiva el canto anteico

d’oun pascadur e ma par

che ‘l piura… cume mei.

 

A zi scouro a Monto, «Rovigno nostra», V, 23, Trieste, 1975, p. 1. 7