Claudio Ugussi è nato nel 1932 a Pola dove ha frequentato le scuole elementari e medie. Completato il Liceo a Fiume, ha frequentato l’Università a Zagabria dove si è laureato in lettere e filosofia con una tesi sulla narrativa di P. A. Quarantotti Gambini. Dal 1959 ha insegnato, sino al pensionamento, presso la Scuola Media Superiore Italiana “Leonardo Da Vinci” di Buie, dove ha vissuto fino al sopraggiungere della morte nel luglio del 2023, dedicandosi anche alla pittura.

Pubblicò le sue prime liriche nel 1964 e 1968 (Edit, Fiume). Nel 1969 apparve la sua silloge Gli ulivi (Fratelli Palombi Editori, Roma) con una prefazione di Renzo Frattarolo. Oltre che per la pittura, ha ottenuto diversi premi letterari ai concorsi “Istria Nobilissima” per testi di narrativa (La poltrona, 1981; Il pittore, 1985; La partenza di Obi, 1986; Viaggio di circostanza, 1988; Vado a Roma, vieni anche tu, 1990). È stato pubblicato a Udine, nel 1991, presso l’editore Camponotto, il suo romanzo La città divisa, una storia autobiografica che va dal 1944 al 1947 e narra le sofferte vicende della città di Pola in quegli anni. Nel 2014 pubblica “Il nido di pietra e altri racconti” (Edit, Fiume). Segue, nel 2017, Pagine sparse e poesia (Durieux- Edit).

Due racconti

 Viaggio di circostanza

 

La notizia mi era giunta da Pola a pomeriggio inoltrato dalla voce imbarazzata di mio fratello. La nonna era spirata la notte prima, serenamente, e aveva chiesto di mia madre e di noi fino all’ultimo istante.

La mamma voleva partire subito, ma temeva di non farcela anche riuscendo a prendere a Trieste il treno della notte. Torino è lontana e i funerali erano fissati per le nove del mattino.  Intanto era meglio raggiungerli subito, poi si sarebbe deciso insieme che cosa fare. Alle sei ero già a Pola.

“Ti prego, portami solo fino a Trieste”, mi disse mia madre, “forse giungerò in tempo. Non sono riuscita a starle vicino prima, non voglio mancare adesso, ne avrei rimorso fin che vivo.”

Mentre finiva di prepararsi, Fausto mi chiamò da parte preoccupato: “Non possiamo lasciarla andar sola, ormai anche lei ha la sua età. Se tu non puoi vado io, ho già avvisato sul lavoro.”

Partimmo tutti e tre che era già notte.

Quella corsa attraverso l’Istria mi parve brevissima, anche se ci scambiammo solo poche parole. La riempirono i ricordi che la nonna rievocava con quella morte che ormai tutti aspettavano come liberatrice. Per lei soprattutto. Per tutte le sofferenze che aveva accettato per più di dieci anni al di là dell’umana sopportazione, così come poteva accettarle solo lei, vissuta in continue tribolazioni, lei che aveva rilevato nove figli nell’arco delle due guerre, che aveva accettato il male come una componente della vita affrontandolo con un sorriso che rincuorava anche chi le stava vicino.

Giungemmo appena in tempo. Tutti gli altri erano già lì, raccolti in silenzio attorno alla bara nella cappella dell’ospedale.

“No!… Voi?… No!” gridò zia Lia, la più giovane delle sorelle di mia madre. E ci corse incontro in un unico abbraccio. Ormai non ci aspettava più, da qui quel grido che al primo momento ci aveva sconcertato.

 

(…)

“Chi l’avrebbe mai immaginato che ora si sarebbero ritrovati per starsene ancora vicino, e proprio qui”, sussurò zio Cesco come parlando fra sé.

Più tardi ci ritrovammo tutti a casa della nonna. Il nonno era rimasto da solo ad aspettarci non essendo in condizione di assistere alla cerimonia. Anche quando la nonna era viva usavano ritrovarsi sempre tutti da lei che aveva saputo spartirsi equamente fra i suoi e averli riuniti attorno a sé nelle grandi e nelle piccole occasioni. Lo spirito e la carne. Perché il cibo, anche nei casi delle visite più imprevedibili si moltiplicava al tocco delle sue mani e bastava sempre per tutti. Al vino ci pensava invece il nonno che era stato sempre un buon bevitore, ma anche esperto in cantina, che volendo a ogni costo farsi il suo vino, così come aveva sempre fatto a casa sua, a Pola, con i suoi ottanta anni suonati aveva il coraggio di farsi, ogni autunno, sette-otto chilometri al giorno per portarsi a casa con la carriola l’uva dal mercato di Porta Palazzo.

Quel giorno, quando ci vide tutti riuniti, considerando quella un’occasione degna del suo vino, andò in cantina e tornò con due bottiglie. “Le apriremo in tuo onore”, disse alla mamma, “sapevo che prima o poi saresti venuta”.

Mi ero accorto che quando si riuniva la famiglia di mia madre era molto difficile seguire il filo di un discorso. Le zie e gli zii diventavano, ciascuno a modo proprio, un vulcano inesauribile di argomenti che si aggiravano prevalentemente su di un unico tema: superare tutti gli altri nell’elencare le difficoltà, i travagli, le malattie della propria esistenza (…) Il vero narratore della famiglia però è zio Cesco (…) Ma zio Cesco amava raccontare storie vere, di mare soprattutto, anche perché da quando aveva lasciato Pola come esule sentiva maggiormente il bisogno di rievocarlo. Il mare stava diventando per lui parte della storia, anzi di una storia, la sua e quella degli altri che erano costretti a quell’abbandono imprevedibile. Il suo narrare allora, benché poggiasse su avvenimenti realmente accaduti, si rivestiva di un pathos che avvinceva…

Quando la “Toscana” – la nave che era venuta a portarli via – aveva attraccato al molo Carbone, lui, mentre tutti gli altri si affannavano a far caricare le masserizie stivate sul molo, chiese di parlare al nostromo (prima tento con lui, se non ci riesco andrò dal capitano, pensò; tra lupi di mare ci capiremo). E aveva avuto ragione. Il nostro uomo (lo chiamava proprio così), quando se lo vide davanti vestito anche lui col giaccone da marinaio e con sotto il maglione blu, lo guardò negli occhi e bastarono poche parole. “Ho qui sotto la mia barca, un gozzo a vela, un amore di barca con la quale ho sfidato tutti i venti e le tempeste di questo nostro mare. Eolo è il suo nome, lei mi capisce, non posso lasciarla qui…”

Poco dopo il nostromo impartiva gli ordini. Quattro marinai scendevano a terra, imbragavano il guzzo che in un attimo si trovò in alto fra i gabbiani e veniva posato delicatamente sulla tolda della nave.

Il giorno dopo la sirena della “Toscana” salutava per l’ultima volta la città. Quel suono profondo, prolungato, vibrò nell’aria, si sparse per le strade deserte di Pola, su per i colli e, oltre, per le campagne. Loro sulla nave, seduti sui loro fagotti, lo sentirono lacerante penetrare nelle loro carni, si fecero più piccoli, sempre più piccoli… mentre la nave già si muoveva.

Quando giunsero a Venezia, nel canale della Giudecca, dove dovevano sbarcare, c’era molta gente che si sbracciava sulle rive. Sono venuti a salutarci, si pensava a bordo. Ci fanno festa, si diceva. Quante mani, finalmente, coraggio, l’Italia ci aspetta! Ma come la nave si avvicinava alla riva le voci diventavano più distinte: “Tornatevene a casa vostra!…” “Chi vi ha chiamato qui…” “Abbiamo già la nostra miseria!…” E adesso anche i gesti che facevano con le mani erano molto più chiari. Per fortuna Venezia fu solo una tappa del loro viaggio. A Torino vennero sistemati provvisoriamente (ma poi vi rimasero per sette anni) nelle Casermette di borgo S. Paolo.

Al contrario dei veneziani, i torinesi dimostrarono la loro indole e la loro insofferenza secondo il proprio stile. La loro fu indifferenza totale. In parte voluta, in parte dovuta probabilmente al clima, alla loro città squadrata secondo un ordine preciso. E adesso quell’ordine rischiava di venir scomposto da quella gente nuova, che aveva lasciato le proprie case, la propria terra chissà per quale motivo. Non erano certamente venuti lì per lavorare, perché chi vuol lavorare sta anche bene a casa propria…

Ma con l’andar del tempo questi istriani non finivano più di meravigliarli. Ma come, invece di disperarsi per tutto quello che, come dicevano avevano lasciato laggiù, eccoli invece sempre allegri a cantare ogni sera nelle Casarmette, ma anche per le osterie e i ristoranti di seconda mano della periferia. E che compagnie! Quaranta, cinquanta persone, uomini, donne, ma anche ragazzini, a cantare fino a sera tarda, sempre a cantare… Però non cantavano mica male questi istriani… E cominciava ad arrivare finalmente qualche doppio di vino anche da parte di quelli che meravigliati li ascoltavano e non erano della compagnia, ma torinesi, veri torinesi! Forse incominciavano a capire, perché il torinese è furbo e non ti dimostra mai quello che pensa (continuava lo zio Cesco indicando con la mano il bicchiere vuoto), forse avevano capito perché si cantava e si beveva tanto… E poi s’accorsero anche, e questo molto presto, che quando c’era da lavorare la musica cambiava; cambiava anche per farla vedere a quelli lì. Tanto che poi nelle fabbriche gli altri operai cominciarono a guardarli di storto, a far loro degli sgarbi, a minacciarli addirittura perché i capi aumentavano le norme per causa loro.

Lo zio Cesco avrebbe continuato a raccontare la sua storia probabilmente fino all’alba. Fausto e io l’avremmo  ascoltato anche volentieri, ma il giorno dopo bisognava ripartire di mattina presto.

Anche mamma e zia Luisa non si decidevano ad andarsene. Prima di accomiatarsi la zia volle raccontarci ancora – sempre aludendo alla nonna – la storia della sottoveste. Una gonna tutta plissettata, disse, con un lavoro finissimo di merlettatura, fatto a mano. Faceva parte del suo corredo di sposa, anzi l’aveva indossata proprio il giorno delle nozze. Nessuno immaginava che la conservava ancora, basta pensare a tutto quello che aveva passato in questi sessant’anni di matrimonio. Gli ultimi giorni, quando ormai veniva sempre meno, la nonna l’aveva presa per la mano stringendogliela forte e tirandola vicino a sé per parlarle quasi all’orecchio. La sottogonna, diceva, nell’ultimo cassetto del comò, in fondo. Ma perché le interessava tanto quella sottogonna! E lei niente. Poche ore prima di morire divenne più lucida, serena. Quella sottoveste, l’unico capo che le era rimasto del giorno del matrimonio, dovevano indossargliela, la voleva con sé dopo morta… Solo così lo sposo avrebbe potuto riconoscerla nell’aldilà per starle nuovamente accanto, per sempre.

La nebbia era di nuovo scesa sulla città. Rifacemmo a piedi, in silenzio, il breve percorso fino alla casa di zia Luisa. La macchina era rimasta lì e non potei fare a meno di pensare al lungo viaggio di ritorno, magari con la nebbia anche sull’autostrada. Mi colpì nella penombra la tabella che indicava la via sull’angolo di una casa. Via Parenzo, lessi “Tutte le vie di questo rione portano il nome di città istriane” ci spiegò la zia. “Qui tutto è stato costruito apposta per noi, hanno pensato che così saremmo stati più vicini all’Istria… Invece forse era meglio che l’avessero dimenticata”.

 

   La partenza di Obi

 

La febbre colpì anche Obi e la sua famiglia. Ormai ogni conversazione che si faceva in casa, gli alterchi tra madre, padre e le figlie maggiori, finivano sempre con un’unica constatazione: l’opzione avrebbe risolto tutti i loro problemi. Se Obi veniva la sera a casa ubriaco e la moglie si metteva a piangere che non ce la faceva più a sfamare tutte quelle bocche, che i soldi non bastavano mai, che poteva anche vergognarsi… “A Trieste, a Trieste” gridavano in coro le figlie battendo il ritmo coi cucchiai sui coperchi delle pentole e sui piatti vuoti.

Che questa soluzione fosse la più saggia lo si poteva del resto constatare specialmente nei giorni di festa, quando circolavano per il paese, vestiti e attillati come i modelli delle vetrine di via Carducci, sulle loro Vespe nuove – ma qualcuno aveva già la Seicento – giovani che se ne erano andati appena qualche anno prima. Non sembravano più quelli, portavano con sé una certa aria (un’aria di città, pensavano quelli che erano rimasti) e si muovevano, camminavano, parlavano in modo diverso.

Le quattro mura che Obi aveva ereditato da suo padre, l’asino che scalpitava nel sottoscala, il maiale che ogni anno veniva sacrificato e la visione della campagna che si poteva abbracciare dal parapetto della piazza coi cipressi racchiusi entro il muro del cimitero, tutto questo Obi lo aveva considerato come qualcosa d’immobile legato con un filo alla sua esistenza. Egli sapeva sì che un giorno quel filo sarebbe stato reciso, ma non in quel modo. Invece, senza quasi rendersene conto, si trovò anche lui sballottato, stralunato più che mai, con quel cespo di capelli ribelli più che mai, fra le sue povere cose che un camion portava via.

Alla vita nel campo profughi non poté adattarsi tanto facilmente: grandi stanzoni, pareti divisorie tra famiglie, compensato, cartoni, una coperta militare tirata su di una corda fra loro due e figli. Pianti, urla, risate si rimescolavano creandogli una grande confusione in testa. Tre pasti al giorno assicurati, un gran movimento di pentole, scodelle, piatti, fila per l’acqua calda, sussidio mensile con aggiunta speciale per la prole e l’attesa di ricevere una ricompensa per i beni abbandonati, un alloggio, un lavoro.

Appena poteva Obi se la svignava e correva in città. In Largo Barriera si metteva ad aspettare le corriere. Se arrivava qualcuno del suo paese, fingeva di trovarsi lì come per caso e si informava come stava questo, come se la passava quello, come era andata la fioritura delle viti, chi abitava adesso nella sua casa… E s’accorgeva che non era il solo, anche gli altri profughi come lui, stavano là ore e ore ad aspettare le corriere che venivano dall’Istria. Se poi aveva qualche soldo in tasca, si metteva a girare per le osterie cercando di rimandare il rientro al campo il più tardi possibile, quando ormai a notte fonda regnava finalmente il silenzio.

I beni abbandonati!.. I beni abbandonati!… Adesso era questo il ritornello che veniva scandito ad alta voce dalle figlie di Obi e di rimando altre voci anonime rispondevano attraverso le sottili pareti della baracca. Chissà quante volte fu fatto l’inventario di tutto quello che si sarebbe comperato con quei soldi, tra pianti e lacrime se qualcuna si vedeva esclusa o per disattenzione o perché le sue esigenze erano considerate esorbitanti.

Arrivarono finalmente anche i soldi dei beni abbandonati e subito nel reparto degli Obi si fecero i preparativi per una grande festa con numerosi ospiti e ogni ben di Dio, perché quello doveva rimanere un giorno da ricordare. Ma poi, mentre tutti mangiavano e bevevano e se la contavano e ridevano, Obi buttava giù ogni tanto un boccone di malavoglia, e finì con lo starsene mogio e silenzioso in un angolo a fissare il bicchiere di vino che teneva in mano. “Sembri un cane bastonato, non starai male proprio oggi!” sbottò la moglie burbera. Tutti scoppiarono a ridere.

Verso notte, mentre aumentava la confusione, sparì silenziosamente. Nessuno s’accorse della sua assenza per parecchio tempo, finché per caso il discorso cadde su di lui. Allora cominciarono a cercarlo.

Una bora tagliente era scesa improvvisa dal Carso. Refoli impetuosi facevano sussultare le baracche come se avessero voluto portarsele via. Un fanale sospeso, colpito da quella furia, faceva ballare strane ombre sull’ampio cortile percorso da violenti mulinelli che si trascinavano dietro cartacce, scatoloni e ogni genere d’immondizie.

“Obi!… Obi!… Oh Obi…”, si gridava da ogni parte, e il vento si portava lontano quei richiami quasi rubandoli dalle bocche della gente. Ma Obi ormai non poteva più sentirli.

Lo trovarono appena il giorno dopo nella pineta vicino al campo. In quell’occasione Obi aveva fatto le cose per bene. Aveva scelto un grosso ramo e si era servito di un robusto filo di ferro.

La bora era ancora aumentata. Ogni tanto qualche refolo faceva ondeggiare il suo corpo che adesso pareva leggero… sempre più leggero…, come se un grande peso si fosse levato Obi di dosso.

 

 

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