Orizzonte diciotto
La gente sostava sul piazzale antistante l’entrata alla miniera. Alcuni avevano pernottato pur con l’aria già fredda d’ottobre. S’erano attendati alla meglio, con qualche coperta. Avevano formato dei gruppi. Erano quelli venuti da fuori. Da Arsia, Barbana, Cugno, Piculi Turini, Fianona, fin da Fiume. S’erano portati da mangiare e da bere.
Le donne nei loro drappi neri, ricordo di altri lutti, stavano raccolte, in disparte dagli uomini. Con occhi smarriti e rassegnati insieme attendevano la notizia che dava i loro mariti figli fratelli cognati per morti. Erano venute per piangere. La voce del megafono di volta in volta avvertiva che gli uomini sotto erano ancora vivi. Le donne sospiravano: sono ancora vivi! Ma contavano quanti altri loro uomini erano morti in miniera. Bepi, Mario, Frane… Era l’occasione per rivedersi tutti.
Gli uomini si ubriacavano ogni sera.
“Oh, sono nella galleria più schifosa che sia mai esistita” diceva uno e piagnucolava.
“Se ero di turno toccava a me, per dio!” diceva un altro e trangugiava uno dietro l’altro bicchieri di vino.
L’osteria era piena e guardava il piazzale. C’era chi, seduto a un tavolo da ore, con una boccaletta davanti, attraverso la vetrata, ne osservava il movimento. Aspettava la notizia dalla voce dell’altoparlante.
“Che ha detto?”
“Sono ancora vivi.”
Entrò un uomo alto. Portava baffi biondi e un ciuffo di capelli gialloargentei sulla fronte.
“Allora, Ive, è lunga questa, eh!” gli gridò qualcuno.
L’uomo andò al bancone, ordinò del vino.
“Domani saranno due giorni” rispose semplicemente “ma per loro non è che un’unica lunghissima notte.”
Poggiò il gomito della mano che stringeva il bicchiere sul bancone, guardò l’edificio e la grande ruota del pozzo stagliarsi neri contro il cielo grigio. Bevve.
“Ti ci sei trovato tu una volta, vero?” gli chiese un vecchio grasso col berretto di sghimbescio sulla fronte, avido di storie che già conosceva.
“Mi ci sono trovato” affermò Ive “e da quella volta ho imparato ad amare di più la vita.”
“Per questo canti e balli sempre.”
Ive rise, si mordicchiò i baffi.
“Finché canto e ballo vuol dire che sono ancora vivo, per dio.”
Vide un’automobile nera giungere e fermarsi davanti all’edificio della Direzione. Alcuni fascisti ne scesero tra un gran sbattere di portiere e parole d’ordine gridate da più parti.
“Il federale è venuto a portare la solidarietà del duce” disse qualcuno con tono ironico, nell’osteria.
Lo videro entrare negli uffici seguito da un codazzo di gente. Ive sputò per terra.
“Lo farei scendere giù io, dove si trovano loro” disse “gli darei il piccone in mano e gli direi: adesso scava.”
“Dove si trovano loro?” chiese un vecchietto dalla bocca priva di denti e dal mento pronunciato.
Ive portò il bicchiere alla bocca, diede un sorso, poi rispose:
“’Orizonte’ diciotto. Una delle ultime gallerie. Avevano appena cominciato ad armarla, le prime travi, quando è crollata una parete dietro di loro. Sono rimasti imbottigliati.”
“Dicono ci sia l’acqua” disse il vecchio grasso col berretto a sghimbescio.
Ive annuì. “Si trovano su un fronte ricco di falde. Avranno l’acqua alla pancia ora, te lo dico io. Bisogna almeno riuscire a far passare una pompa aspiratrice prima che l’acqua arrivi alla gola. E poi scavare un buco tra i detriti, quel tanto da farci passare una persona, una alla volta…”
L’oste, che per ascoltare Ive si era poggiato con i gomiti sul bancone, di fronte a lui, commentò desolato:
“Due squadre, dieci uomini.”
Ive scosse la testa, con l’aria di condividere l’afflizione dell’oste.
“Se c’è tanta acqua” spiegò “vuol dire che ci sono più sassi che carbone. È sempre stato così. Valeva la pena?”
Un minatore che si trovava in piedi dall’altra parte del bancone, con la voce stonata dell’ubriaco esclamò:
“E pensare che all’ ‘orizonte’ diciotto ci lavoro anch’io, e ne carichiamo di carbone, eh!”
Ive si strinse nelle spalle. “Dipende dalla galleria” disse. “E poi anche nella galleria ci può essere il fronte buono e il fronte fasullo”, sputò di nuovo con virulenza. “Un mestiere da cani, il nostro! Andrà a finire che mi metterò a fare il contadino, per dio.”
Finì di bere il vino e gettò una moneta sul bancone. Raggiunse l’uscita.
“Non te ne andare, Ive, cantaci qualcosa” gli disse il vecchio grasso.
“Non ho tempo, m’hanno detto che è venuta mia cognata da Fiume e le devo parlare.”
“È venuta, sì, l’ho vista” sospirò uno. “Eh, ha un fratello giù, poveretta”.
“Addio, allora” salutò Ive.
S’avviò dritto verso i gruppi di donne che sostavano dall’altra parte del piazzale. Sua cognata sarebbe stata sicuramente fra quello della sua famiglia. Il cielo si stava oscurando. Alla sua sinistra vedeva Albona, battuta dall’ultima luce del giorno. Le mura dell’antica città romano-veneta avevano assunto una struggente colorazione rosa. Solo qui, all’ombra del pozzo, tra le case squallide e allineate dei minatori, era già buio. Le donne vestite di nero sembravano farne parte. Via via che Ive si avvicinava ad esse, emergevano solo i loro volti, uno uguale all’altro, indefiniti.
Trovò la moglie di suo fratello Antonio, grassa come sempre, seduta su una coperta distesa sulla terra battuta, tra le sorelle e le cognate. Aveva accanto un fagotto di roba da mangiare che s’era portata da Fiume. Con lo stesso sguardo fisso e assente delle altre sbocconcellava un pezzo di formaggio. La chiamò.
“Maria.”
La donna volse gli occhi verso di lui e, senza dire una parola, mosse le testa in segno di saluto continuando a masticare. Ive le si sedette a fianco. La donna allungò la mano che stringeva il formaggio, a offrirglielo. Lui ne spezzò una parte. Le chiese del marito, dei figli, come stavano.
“Bene” rispose la donna, e alcune briciole di formaggio le caddero sul mento, ma lei le riportò subito alle labbra col dorso della mano, proseguendo: “Tuo fratello naviga, torna a casa ogni quaranta giorni, i ragazzi crescono. Maria la più grande, presto si sposa.”
“Ne ho piacere.”
“Cosa vuoi: una bocca in meno da sfamare.”
“Giusto. Ma è anche vero che voi non vi potete lamentare. Eh, Antonio sapeva cosa faceva quando decise di scappar via da questo inferno” e indicò la ruota del pozzo che avevano davanti, illuminata adesso, come i loro volti, dai radi lampioni del piazzale. Altre luci provenivano dal lungo edificio dell’amministrazione. Il fermento era maggiore davanti alla porta dell’infermeria.
In quel momento s’udì l’improvviso e uguale alzarsi di voci di prima. Era il federale che ora tornava alla sua automobile. Parlava continuamente agitando le braccia, e gli altri lo assecondavano qualsiasi cosa dicesse. Lo videro trasalire in macchina e dire ancora qualcosa, oltre il finestrino, al direttore della miniera chinato verso di lui. Finalmente, tra una selva di saluti fascisti, se ne andò.
Ive attese con fastidio che il chiasso sollevato dal federale rifluisse, che tutto tornasse normale, poi, con aria grave, avvertì la cognata:
“Maria, ti devo parlare.”
La donna gli diede un’occhiata sfuggente. Ive si mordicchiava i baffi e guardava fisso davanti a sé. Ella, in attesa, si portò un altro pezzo di formaggio alla bocca. Poì udì il cognato dirle:
“Sai che Giovanna, mia moglie, non è riuscita a darmi un figlio. Io ho atteso, sperato, ma ora lei è in età da non poterli più avere i figli.”
La donna si voltò verso di lui interrogativamente. Per quell’attimo smise di masticare. Perché diceva a lei cose del genere? S’affrettò e ricomporsi. Voleva che il cognato finisse di parlare:
“Ora, io ho pensato che tu e mio fratello di figli ne avete sette, e sono tutti dei Miculian, come me, stessa pasta…”
La donna piantò gli occhi, ora fermi e severi, sul cognato.
“Che vuoi, Ive, dillo.”
“Che mi cediate un figlio, uno dei maschi, magari Ludwig, il penultimo… Sulla somma possiamo metterci d’accordo.”
La donna restò con lo sguardo sospeso. Meccanicamente posò il formaggio sul tovagliolo aperto davanti a sé, lo avvolse e fece per riporlo nel fagotto che teneva accanto. Ma la voce dell’altoparlante, che chiedeva l’attenzione di tutto, l’arrestò.
“ATTENZIONE ATTENZIONE. PARLA IL DIRETTORE DELLA MINIERA. UN PASSAGGIO È STATO SCAVATO SUL CONTROFRONTE CROLLATO NELLA GALLERIA NOVE ALL’ORIZZONTE DICIOTTO. È NECESSARIO PERO’ ARMARE IL PASSAGGIO A CAUSA DI ALTRI POSSIBILI CROLLI. LA DIREZIONE IN UN ULTIMO TENTATIVO CHIEDE UNA SQUADRA DI VOLONTARI DISPOSTI AD AFFRONTARE QUESTO RISCHIO PER LA SALVEZZA DEI LORO COMPAGNI DI LAVORO. RIPETO: UN PASSAGGIO…”
Il piazzale fu percorso da un mormorio di voci. Gli astanti si guardavano tra di loro. Accanto a Ive le donne avevano preso a parlare concitatamente. L’uomo invece fissava ancora l’altoparlante, in alto sul fabbricato, quasi a carpire meglio le parole che ne uscivano: “LA DIREZIONE IN UN ULTIMO TENTATIVO CHIEDE UNA SQUADRA DI VOLONTARI…”
Ive s’alzò.
“Vado io” disse calmo alla cognata.
Lo udirono anche le sorelle e le cognate di lei. Subito gli puntarono gli occhi addosso. Erano apprensivi e imploranti insieme. Avrebbero pianto anche per lui.
“Va’” gli dicevano “va’, Ive salva i nostri uomini.”
Ma Ive, ora alto su Maria, la guardava.
“Allora, Maria?”
“Come posso decidere? Sono una donna io. Fra quaranta giorni torna tuo fratello, vieni a Fiume, parlerai a lui.”
L’uomo assentì col capo. Si tolse la giacca e la gettò ai piedi della cognata. Si voltò e, data un’occhiata ad Albona inghirlandata delle sue luci, s’avvio verso il pozzo.
Da “Una storia istriana” (Milano, 1987, Rusconi, Capitolo I)