Nato a Orsera nel 1894, è stato per molti anni insegnante a Trieste, dove è deceduto nel 1971. Ha collaborato con numerosi giornali e periodici . E’ stato redattore e direttore per lunghi anni di “Pagine istriane”. Fra le sue opere le liriche “Montagne” (1949), “I superstiti” ( 1950), e nel campo della narrativa:  “Passato prossimo” (1956) “Nel solco dell’altro esilio” (1960), “Donata” (1962), Come sul video” (1963), “Calitea” (1965),  “La verità di un amore” ( 1969). Fra i saggi: “Proverbi e detti popolari dell’Istria” (1954), “Piccola storia di un piccolo paese” (1962).

Da “Calitea”

Animare il marmo

 

Oggi all’improvviso ho visto Calitea. Senza tatto, con una improntitudine sconveniente, le ho detto “férmati; nascerà da te nel marmo qualche cosa; sii la mia modella”; è umano che voi vi siate ribellata di fronte alla mia protervia. Avrei dovuto attendere, farmi conoscere a lungo, far nascere in voi la consapevolezza di quel che avreste potuto operare in me miracolosamente”.

Ella ascoltava. E aveva gli occhi e l’anima protesi verso quel giovane dalla nobile espressione, dai lineamenti mobili e tanto rispondenti al volgere del pensiero, al nascere del sentimento, dalla fronte così luminosamente ampia, dalla statura così maschia, senza essere alta. Gli occhi e l’anima ella protendeva verso quel giovane, più che per la bellezza fisica, per quella sua bellezza interna che lo collocava solo fra tutti coloro con i  quali si era trovata a parlare nella sua precedente vita. Tra lui e tutti quelli che conosceva vi era un dislivello alpestre: tutti in valle, e lui, solo, su una vetta.

Queste cose non pensate ma vissute, tanto più vere le parvere, come la voce dell’uomo si colorì di nuovo entusiasmo e si corazzò d’orgoglio. Ella ne divenne rossa, ma di contentezza.

“Ebbene io, io non aspetto, non prego. Voglio effigiare nel marmo Calitea. Voglio che voi mi aiutate a farla nascere. Me lo negherete?… Potrei durare altri cinque, altri dieci, venti mesi nell’inattività. Pensateci. – Le stese la mano: – Spero di rivedervi.”

Solo adesso, al momento di lasciarsi, nel dargli la mano, ella si rese conto della situazione in cui si trovava, di due essere quasi ignudi e giovani che per la prima volta parlavano insieme, e non su temi convenzionali e superficiali; che parlavano come due amici o due avversari, come due che devono conoscersi e che si conoscono spiritualmente da tempo.

Nell’avvertire tutto ciò aveva abbassato gli occhi, quasi vergognosa di non essere nuovamente fuggita, di aver ascoltato le parole dell’uomo prima di saper quanto dovessero risonarle profonde nel cuore, ma con uno sforzo li rialzò in volto al giovane e vi scoprì una malinconia che la voce penetrante e ferma le aveva tenuto nascosta.

Stringendogli la mano volle parere sicura di sé:

“Sono lieta, signor Guidi, – gli disse – di aver trovato così diverso da come vi descrivono. Arrivederci.”

Ella discese verso la scogliera. Vittore le tenne dietro a distanza conveniente. Lei si tuffò. A bracciate rapide raggiunse il sandalo, e ne agganciò il bordo con le mani. Un colpo del piede bastò perché le braccia fatte leve sollevassero il corpo fuor d’acqua e le consentissero l’imbarco.

Levò dal fondo del sandalo il remo a due pale bianche, rigate di nero, e lo mise in posizione di voga.

Guardò verso la scogliera, dove il giovane era ancora ritto in piedi, con il cervello in incandescenza, alzò un braccio per salutarlo, e fece fare l’altalena alle due pale che parvero un volo d’ali di gabbiano.

 

Da “Calitea” (Amicucci, Padova, 1965)