Uno dei più grandi scrittori fiumani, è nato  nel capoluogo quarnerino (Sussak) nel 1906. Nel  1950 è costretto ad abbandonare la sua città con l’esodo. Dopo aver vissuto per alcuni anni in varie città italiane, a Napoli, Lugo, Viareggio, Busalla e Pisa, si stabilisce a Genova nel 1958, dove risiederà per oltre trent’anni. Ha iniziato a scrivere giovanissimo racconti via via pubblicati per riviste quali »La fiera letteraria«, »Solaria«, »Omnibus«, »La riforma letteraria«, »Il caffè«, »Il mondo«.

Nel 1929 conosce Alberto Carocci che gli apre le porte di »Solaria« e »La Fiera Letteraria« con le quali inizia a collaborare. È del 1936  la sua prima, significativa, creazione letteraria, »L’osteria sul torrente«, che viene pubblicata da Solaria. Seguiranno »Miracoli quotidiani » (1938), »I ritratti nel bosco« (1939), »Contadini sui monti« (1942) e »L’abito verde« (1942).

Nel 1946 Contini lo incluse nell’antologia »Italie magique. Contes surréls modernes«, edita a Parigi, insieme ad Aldo Palazzeschi, Antonio Baldini, Nicola Lisi, Cesare Zavattini, Alberto Moravia, Tomaso Landolfi e Massimo Bontempelli. Fra le sue opere più  importanti »Miracoli quotidiani»( 1938), »Ritratti nel bosco« (1939),  »Il baratro  (1964), » Gli ascensori invisibili« (1981) »I giganti marini« (1984), »Piccoli amanti (1990)  e »Un italiano di Fiume (Milano, Rusconi Editore, 1993). Muore nel 1994. La ristampa del romanzo »Un italiano di Fiume« in edizione bilingue, italiana e croata, a cura della Comunità degli Italiani di Fiume, è stata presentata  nell’ambito del convegno internazionale di studi sull’opera di Morovich tenutosi nel 2021 presso il Consiglio comunale di Fiume, evento promosso dall’Associazione fiumani italiani nel mondo, dalla Società di studi fiumani di Roma e dalla Comunità italiana di Fiume in collaborazione con vari altri enti culturali e istituzioni universitarie. Per l’occasione al Museo civico di Fiume è stata allestita una mostra con i disegni di Morovich, espressione della sua poliedricità artistica e del suo segno »surrealista«.

Da “Un Italiano di Fiume”

Le zie d’Ungheria

Era l’estate del 1913. D’improvviso in casa fu un certo allarme. Arrivò il sacerdote, don Giovanni Regalati[1], che la vecchia nonna conosceva da quando era ancora un seminarista. La zia maestra ci chiamò in stanza e ci costrinse a inginocchiarci dietro un secondo letto. Ascoltavo la conversazione della nonna col sacerdote? Se devo ricordare bene, la nonna non mi pareva per nulla impaurita per il pericolo che stava correndo.

Noi abitavamo a Pecine, quasi al giro di Martinschizza. Nel pomeriggio, un’altra zia ci accompagnò a Fiume, dai nostri parenti che abitavano al Belvedere, nell’allora villa Kristl, che poi per anni divenne villa Benco. Si dormiva con le finestre aperte. Mio fratello e io in un letto più grande, nostro cuginetto Carlo in un letto più piccolo, accanto alla finestra. A una cert’ora la cuoca si affacciò alla finestra, da fuori. La stanza era a pianoterra.

             Il silenzio del giardino, circondato da un alto muro, mutò in tante voci che provenivano da fuori, al di là del muro, dove mi pare fosse un’osteria con tavoli all’aperto e un gioco di bocce. E allora notai che le voci erano ben diverse da quelle che la sera sentivo a Pecine, dove pure non stavamo lontani da un’osteria che aveva il gioco di bocce al di là della strada. E anche le canzoni erano diverse. Qui si udiva parlare o cantare solo nel nostro dialetto fiumano. A Pecine sentivo cantare in croato senza che me ne rendessi perfettamente conto. Non che le canzoni croate mi piacessero, anzi, ma udite da lontano mi mettevano addosso non so quale melanconia, e c’era tra il canto lento degli ubriachi e un tremito di bicchieri vuoti e accatastati non so quale analogia.

La nonna non morì quell’estate, ma soltanto nel febbraio del 1914, quando frequentavo già la scuola ungherese di piazza Scarpa[2]. Quella volta fummo trasferiti dai parenti della mamma in piazza Verdi.

Ricordo che era sera, a tavola chiesi se anche la nonna lì presente un giorno sarebbe morta. E una zia mi rispose seria che la nonna non sarebbe mai morta. All’indomani affacciato alla finestra che dava sulla piazza, nel cui mezzo c’era un bel giardinetto, mi sentivo infelice, soprattutto perché sapevo che non lontana c’era la mia scuola che sarei tornato a frequentare tra qualche giorno. Quando si trattò di rincasare, perché ormai i funerali della nonna paterna erano avvenuti, avevo tante cose in mente per le infinite immagini che avevo potuto vedere nello studio della zia, che, oltre a essere insegnante di disegno, era anche pittrice per conto suo.

Andammo a piedi fino a Pecine e ricordo che, per chissà quale associazione d’idee tra il ricordo di un quadro e uno spettacolo panoramico della strada che stavamo percorrendo lungo il mare, ebbi un momento come una vaga ebbrezza, molto gradevole. La zia ci lasciò rientrare solo quando eravamo già in vista dell’entrata della nostra casa. Che lei non avesse alcun piacere a incontrarsi con le cognate, ossia le sorelle di nostro padre, lo seppi soltanto più tardi. Così come soltanto più tardi mi resi conto che certe antipatie fra donne erano inestinguibili, eterne. Il bello era che le zie più importanti erano entrambe non poco intelligenti.

La sorella di mio padre insegnava nelle scuole elementari ungheresi di Fiume, aveva frequentato un corso preparatorio di Budapest e aveva anche insegnato in due piccoli villaggi nel bassopiano ungherese, del quale conservava tanti interessanti ricordi. Che l’ungherese lo avesse imparato non poco lo stavano a dimostrare le molte amicizie con colleghe magiare che aveva a Fiume, ma prima aveva frequentato l’Accademia di Brera a Milano. Pare che in anni in cui io non ero ancora nato, o ero ancora in fasce, tra le due giovani fossero sorti contrasti di idee e di sentimenti inconciliabili. Una era fedelissima suddita di Francesco Giuseppe, che era soprattutto re d’Ungheria; l’altra irredentista, era tutta volta verso l’Italia, in barba al pericolo di rimetterci il posto d’insegnante.

Fantasmi

Sono sul colle di Grobnico e guardo le spalle del Proslop. Ricordo quando questo piccolo monte, con le sue pinete tra le pietre e la grande abetaia nel centro, rappresentava per me una inspiegabile speranza.

Sotto il Proslop, nella vallata del torrente v’è, o v’era, un paesino di poche case. Forse trent’anni prima il paesino era stato più grande, ma poi una frana proprio del Proslop aveva sepolto nel sonno alquanta povera gente.

Così si dorme, felici e infelici, magari malati e insonni in una piccola casa, e d’improvviso un rombo inspiegabile ti fa personaggio d’una tragedia. Di fronte a certi fatti tante mie illusioni hanno un tremito e certa mia fede vacilla.

Ma pure la fanstasia non fa fatica a muovere fantasmi uscenti dalle macerie e qualcuno nient’affatto dispiaciuto di quella fine che forse segna l’inizio di un’altra vita.

Infatti, se dovessi descrivere la mia vita, intendo dire se ne valesse la pena, ne potrei parlare come di una lunga malattia dovuta forse a un senso di forte claustrofobia.

Per me il crollo della monarchia[3] significò qualcosa di inconsciamente deleterio che gravò moltissimo sul mio spirito indubbiamente debole. L’arrivo degli italiani, dell’Italia, le scuole più facili, tante piccole soddisfazioni che nelle scuole ungheresi avrei avute sempre meno, non bastarono per curarmi da un senso d’oppressione dovuto a un mondo geografico d’un tratto scomparso dalla mia fantasia. Appena a vent’anni fui la prima volta a Trieste, e per un giorno solo, appena a ventitré passai la prima volta l’Isonzo e vidi una parte dell’Italia settentrionale: Milano, Luino, il Lago Maggiore.

Prima del 1918 avevo visto qualche parte dell’Austria, e poi della Slavonia  e della Croazia. La città di Zagabria, coi suoi viali più grandi di quelli di Fiume, mi serviva da sottofondo per certe letture perfino del Cuore, del De Amicis, che mi piaceva forse soprattutto perché mi pareva non possibile nella realtà, nella mia realtà. Ma gli studi anche elementari avevano convogliato la mia fantasia sull’Ungheria, su Budapest che ci era stata fatta conoscere in moltissimi suoi particolari. E certe letture spingevano la mia fantasia a nord.

Sarei ingiusto se non dessi la giusta importanza alla lettura di riviste italiane alle quali mio padre era regolarmente abbonato, e più ingiusto ancora se non rievocassi l’enorme entusiasmo provato alla vista di soli piccoli album a colori della città di Venezia; eppure dopo il 1918, e soprattutto dopo il 1924, il mio mondo mi sembrò soffocato per anni.

I libri di Salgari e di Verne mi fecero sì girare il mondo con la fantasia, ma pensandoci bene scoprivo che tante avventure avevano per sottofondo le piccole baie e le spiagge della nostra riviera.

L’inferno inevitabile

Quando, per non avere a che fare con la geometria descrittiva, rinunciai al Liceo Scientifico e m’iscrissi nel corso di Ragioneria ebbi l’impressione di entrare, in un giorno dal cielo annuvolato, in una sala dalle luci spente. Ma questo mi piaque, era come entrare in un piccolo mondo di speranze, come procedere per un lunghissimo tunnel quieto e pieno di ragnatele d’una miniera abbandonata. Codesta sensazione di rassegnata tristezza io l’avevo già provata talvolta, al mattino presto, entrando prima dell’inizio delle lezioni nell’aula buia della scuola elementare ungherese di piazza Scarpa. Poi, a conti fatti, durante le ore di lezione, la tristezza svaniva e i dispiaceri temuti e previsti magari non si verificavano affatto mentre scordavo la buia mattina. Ma la rassegnazione alla tristezza in genere era una specie di difesa da parte d’un ragazzo, forse non molto coraggioso, il quale forse in previsione di dolori più forti, di dispiaceri più acuti, cercava di mantenersi in un clima freddo per non far più tanto caso, all’arrivo dell’immancabile gelo. Entrare, prima dell’arrivo dei demoni, nelle aule buie e fredde d’un inferno inevitabile, m’abituava alla tristezza e mi rassegnava ai dolori veri la cui comparsa mi sembrava certa.

 

Vita da esule

             A forza di muovermi, non sapevo mai quanto sarei rimasto nello stesso posto. Dieci anni di là da un ponte che divenne confine di Stato, poi Fiume e crollo della monarchia e l’Italia, cambio di scuole, lavoro, cambio di lavoro, grave malattia, cambio di lavoro ancora, poi la guerra e crollo d’un’altra monarchia, e i tedeschi, e la fuga dei tedeschi, e con l’arrivo degli slavi cadiamo dalla padella nella brace, poi l’Italia ancora: Fuorigrotta di Napoli, Busalla sopra Genova, Lugo di Romagna e Pisa e la Versilia e infine Genova e tanti cambi di lavoro e di abitazione.

             Il mio destino era l’inverso di quello delle talpe. Cadevo in un buio iniziale a ogni cambio di residenza o di lavoro, poi la mia condizione lentamente si schiariva, diventava gradevole, mi vi affezzionavo, e cambiarlo appunto era un dolore, un ricadere nel buio, da rischiarire, da ridipingere lentamente con immagini nuove da spingere in fondo al cuore.

             Mi capita di sognare angosciose stanze d’affitto e gabinetti pieni di poveri gatti miagolanti, buttativi da una padrona di casa malvagia. E beffe da chi mi crede aspirante a cose che mai saprei fare. Ad esemepio l’attore. Salgo scale impossibili tutte aculei enormi invece di gradini e litigo con il padrone di casa per qualche lampadina più forte che mi serve per leggere di notte.

 

Quale Fiume?

             Poco prima di mezzanotte, seduti su certe rocce corrose dal tempo e dalle intemperie, guardavamo il cielo violetto verso sud, verso la lontana nostra città. E forse il silenzio e il cielo buio e coperto ci suggerivano qualcosa che non dicemmo.

             La nostra città era morta a metà, da anni, e l’altra metà di là dal fiume viveva appena un po’ più della nostra. Eran tempi duri per entrambe le piccole città di mare, il silenzio notturno aumentava nell’animo nostro un senso di desolazione e ne avevamo ben donde, benché ne avessimo solo una vaga premonizione.

             Sulle due piccole città[4] attraversate da un fiume degno di questo nome, che tuttavia faceva da confine tra due paesi che un tempo erano così distanti l’uno dall’altro, incombeva un futuro quanto mai crudele. Sulle città? Diciamo sulla gente. Quella di destra, dopo una lunga guerra tutta distruzioni, dolori e morti, era destinata nella gran parte all’esilio; a quella di sinistra, anch’essa dopo una guerra, dopo morti e distruzioni, spettava una delusione alla quale avrebbe fatto buon viso per forza, con la morte nel cuore.