Nato a Spalato nel 1927 da una famiglia borghese di nazionalità mista (italiana per parte di padre e slava per parte di madre) della sua formazione culturale egli non amava sottolineare tanto l’impronta italiana ricevuta al liceo di Zara, quanto la natura composita, mitteleuropea dell’educazione assorbita in famiglia nella quale ebbe un ruolo importante anche il rapporto con le lingue e le culture slave, facilitato dalla madre di origini montenegrine (proveniente dall’Isola di Brazza) e dalla balia morlacca di fede ortodossa (vedi: Anna Storti Abate, “Letteratura dell’sodo”, La Battana, 1990). La fortuna economica della famiglia Smacchia Bettiza risaliva all’epoca napoleonica e a quella, precedente, della Serenissima. Dopo la seconda guerra l’industria del padre (fabbrica cementifera Gilardi e Bettiza) fu nazionalizzata dal governo comunista jugoslavo e la famiglia Bettiza fu costretta a trasferirsi in Italia.

Le vicende familiari dei Bettiza e l’universo della Dalmazia nel XIX e primo XX secolo sono narrate da Bettiza in “Esilio” (Mondadori, 1996). Poliglotta e di sconfinata passione per la letteratura (si definiva uno scrittore prestato al giornalismo) con l’aiuto di Dino Buzzati che aveva apprezzato  le sue prime prove letterarie, iniziò su “Epoca” una lunga carriera giornalistica, che lo avrebbe portato a collaborare, come commentatore politico e inviato speciale, con i più importanti giornali italiani: dalla Stampa (per cui fu corrispondente da Vienna e poi da Mosca, al Corriere della Sera, da Il Giornale Nuovo (di cui fu do fondatore con Montanelli) alla Nazione e al Resto del Carlino. Negli anni sessanta prese forma anche la sua produzione letteraria, (a partire dal romanzo “L’ispettore” (1964) che riprendeva il precedente “La campagna elettorale” (1953), “Il fantasma di Trieste”, Longanesi, 1958) e saggistica. Nel 1970 vinse il premio letterario isola d’Elba con il libro “Diario di Mosca”. Il suo lavoro di maggior impegno teorico è Il mistero di Lenin, (1996). Negli  anni Novanta e duemila Bettiza si dedicò completamente alla scrittura. Tra le sue principali opere letterarie si ricordano “Esilio“ (vincitore del Premio Campiello  1996) , memoria dell’infanzia e adolescenza nella natia Dalmazia dagli anni venti alla seconda guerra mondiale, e il romanzo I fantasmi di Mosca (1993), riflessione sul totalitarismo negli anni delle purghe staliniane.

da “Il fatasma di Trieste”

Daniele Solospin

Copertina del libro “Il fantasma di Trieste”

Daniele in realtà non aveva lasciato Trieste. Rimase nascosto per quasi un anno, fino allo scoppio della guerra mondiale, nella villa del buon dottore Janovich, il quale subito dopo l’attentato aveva messo in moto certe sue influenti amicizie per deviare il più lontano possibile da Daniele i sospetti della polizia. Il giovane, isolato nella villa di Opicina, visse un lungo periodo in uno stato si prostrazione profonda (…) Con lo scoppio della guerra il destino del nostro eroe imboccava la strada maestra. Daniele, ciò che nessuno riuscì mai a spiegarsi, uscì improvvisamente dal suoi nascondiglio di Opicina e si presentò agli uffici di leva per essere arruolato nell’esercito austroungraico. La polizia non gli dette noie: ormai i tempi si faceano grossi, sempre più confusi e poi dal giorno dell’attentato contro il falso arciduca, tanta acqua era passata sotto i ponti; infine non si sa neppure se la polizia nutrisse qualche sospetto sul conto del giovane borghese decaduto.. Comunque Daniele, come tanti altri nostri concittadini,venne arruolato in un battaglione di punizione e spedito subito in prima linea, sul fronte orientale…