Nato nel 1910 a Capodistria, dopo gli studi classici si trasferì a Padova dove conseguì la laurea. Tornò a Capodistria dove si sposò e iniziò la sua carriera di insegnante, nel 1933, presso il Liceo Liceo “Carlo Combi”, lo stesso dove si era formato, e poi a Padova, nel 1934. Due anni più tardi fu trasferito a Venezia per insegnare italiano e latino all’Istituto Magistrale “Niccolò Tommaseo” per approdare successivamente al “Benedetti”, dove fu professore fino al 1975, anno del pensionamento. Ferito durante la seconda guerra mondiale sul fronte africano, entrò a far parte della Resistenza a Venezia.

Quale membro del Comitato di Liberazione Nazionale di Venezia il 28 aprile 1945 convinse i componenti del CLN a evitare lo scontro con gli occupanti tedeschi che avevano minacciato di distruggere la città consentendo loro di ritirarsi, contribuendo così a salvare Venezia.

Semi collaborò alla rivista “Il Ponte” diretta da Piero Calamandrei e ad altre pubblicazioni e si dedicò, specialmente dopo il pensionamento, a pubblicazioni di carattere storico e filosofico, allo studio dei classici, e all’indagine sui temi della Resistenza e dell’antifascismo, senza mai dimenticare l’Istria e la sua amata Capodistria. Morì a Venezia il 7 maggio del 2000.

Studioso di linguistica e filologia classica, ha pubblicato numerosi saggi di grande rilievo scientifico. Ha ideato e la collana Scriptorum romanorum quae extant omnea, ha tradotto il Paulus di Vergerio. Fra i isuoi saggi: Capris Iustinopolis Capodistria, Il dialetto veneto dal VIII al XX secolo, El parlar s’ceto e neto de Capodistria. Noto per le sue ricerche sull’Istria, ha pubblicato romanzi e racconti tra cui Istria mia, Il dramma di Ugo Horsoch, Uomini della bufera (1959), Rapporto di un’anima, Accadde a Capodistria (1983).

 

Da “Accadde a Capodistria” (Venezia, 198)

Qua son paron mi !

 

Elio Paròn non aveva voluto abbandonare Capodistria.

          Qua son nato e qua morirò! – ripeteva a quanti gli chiedevano, perché non se ne fosse andato. E oggi lo ripete ancora:

          Mi? Mi son capodistriàn puro sangue. Per mi, che qua comandi l’Austria, l’Italia o la Jugoslavia, non me ne inporta gnente. Che vada via chi che non se senti capodistriàn. Che vada via chi che vien a ronperne le scatole. Che vada a remengo tuti! Mi resto qua! No i me ciama Paròn? Ben, qua son paròn mi!

A ottantatré anni, aveva avuto tre cittadinanze, essendo stata la città, nel volgere della sua vita, sotto tre dominazioni diverse.

          Fin al dizdoto i austriachi, fin al quarantasinque i italiani, dopo ‘sti qua. Adesso no me resta che ‘ndar in Cansàn.  Ma via, no, non vado!

Pescatori i suoi avi, pescatore lui. Aveva lasciato Capodistria soltanto sulla sua barca, per andar a pescare nel golfo o poco più in là. Aveva visto dal mare Isola, Strugnano, Pirano, e, in lontananza, il castello di Miramare. Trieste, ch’era “a un tiro de s’ciopo”, non l’aveva vista mai. E neppure per il servizio militare era uscito dal suo guscio: era riuscito a schivarlo.

          Mi stago ben in tre posti: in mar, int’el mio leto, dove che me sogno el mar, e qua in Belvedèr, dove che vedo el mar. Cosa m’inporta a mi del resto del mondo!…

Il suo mondo era ristretto a Capodistria tuttavia era ampio, immenso, infinito come il mare.

( …)

Sapevi bene chi fosse Elio Paròn. L’avevo conosciuto quando io avevo quattro anni e lui diciannove e portava il pesce ancora vivo a mio nonno, per ricevere in cambio (soldi aveva l’ordine di non accettarne: e suo padre sapeva bene che quegli sgombri, qui moli gli avrebbero permesso di alzare il gomito) il refosco della cantina Sandrin. Per Natale nella casa avita c’era, come si diceva, la pesca miracolosa: Nazario Paròn ci mandava pesce da sfamare non solo tutti noi, ma anche i frati cappuccini e di San’Anna, che, la sera della vigilia, digiunavano con certe scorpacciate di sievoli innaffiati con  bianco de Semedela ,da non poter poi alzarsi per celebrare la messa di mezzanotte. Elio era entrato nel  bragozo  paterno a cinque anni e non se n’era allontanato, si può dire, che per andare a scuola. Ora non pescava più, viveva col figlio Nazarìn e la nuora che, a loro volta avevano tre figli: il primo, battezzato Elio (secondo la tradizione familiare per cui si alternavano i nomi dei santi protettori del luogo), era andato a cercar a fare fortuna a Londra, gli altri due, Bepi e Nane, s’erano imbarcati sulle grandi navi del Lloyd Triestino. Elio, soltanto qualche volta metteva i piedi in barca, ma senza allontanarsi da terra; per lo più, si limitava a riparare le reti sul campo. Purtroppo il suo bel Campo Sant’Andrea, aveva cambiato aspetto e nome, perché la Repubblica Slovena aveva distrutto l’antistante porticciolo dove i pescherecci capodistriani stazionavano, comprendendolo in quella vasta zona in cui avevano costruito il grande porto industriale, da sotto il Belvedere fino a San Pieri  in città e, oltre, fino al colle Sermino. Era rimasto, Elio, nella vecchia casa, un po’ restaurata, che da parecchie generazioni la sua famiglia aveva posseduto e abitato.

          Eh, chisà de quando… dei tempi de San Marco, – vantava, – forsi de prima…

L’avevo conosciuto, avevo sentito parlare di lui più volte, ma non sapevo che fosse rimasto. Ora, eccolo là, sulla spianata del Belvedere, sulla panchetta che da più anni era la sua, da quando non s’avventurava più per mare. Non l’avevo riconosciuto, naturalmente, dopo tanti e tanti anni. Ma lui, udendomi parlare con mia moglie il nostro dialetto, si volse, mi chiese:

          Ma lori, i me par capodistriani!

Ci ripresentammo a tanti decenni da quei tempi. Che consolazione per lui, che gioia per me! Mi rimproverò di aver lasciata la città. No, non l’avevo lasciata per le vicende belliche politiche, ma ben prima della guerra, per il mio lavoro.

          Ben, ben, alora te perdono. Ma quei fioi de cani i podeva restar…

Rievocammo. Convenne anche lui che restare era difficile: per sospetto di fascismo, vero o falso che fosse, si poteva finire in foiba. Un po’ per volta quasi tutti i capodistriani se n’erano andati: ne restavano, sì e no, trecento dei diecimila. Al loro posto erano giunti sloveni, croati, serbi, bosniaci, occupati nei lavori del porto o nelle fabbriche o negli uffici. La città aveva cambiato aspetto: il suo profilo era stato alterato con quegli orrendi grattacieli che, a chi giunge sia dal mare sia da terra, la rendono irriconoscibile rispetto al passato; piccole, caratteristiche casette erano state spazzate via, alberi secolari non esistevano più, erano stati abbattuti i tipici muretti che chiudevano orti e giardini, perfino la Piazza del Duomo era stata deturpata con la costruzione d’uno sconcio supermercato in luogo di due modesti edifici. ( …) .

          Prima se dovava tàzer con quei, adesso con questi… Ah, ma mi parlo, ti sa, mi non tazo più. Cosa i mel po far? A otantatré ani sonài…

Soprattutto un fatto gli dava fastidio, non lo tollerava:

          Varda, no ti credarà, ma mi no la gò gnanca tanto co ‘sti qua, anca se carognade i me ne gà fate. La gò più coi italiani, per quel che li sento dir co i ven qua e per quel che lezo sui zornai italiani che me capita per man. Li lezo, ti sa, mi gò leto senpre el normal. Ben, porco boia, – e fa un gesto di rabbia e di sfida, – no i capissi gnente. I parla, i scrivi, sacranòn, senza saver… 

Aveva ragione. Chi visitava la città (noi potremmo dire tutte le cittadine della costa), udiva parlare sloveno o croato, e si meravigliava che qualcuno, magari male, sapesse parlare italiano, credeva che la lingua del luogo fosse stata sempre slava, non sapendo che l’italiano lo parlavano ormai o i pochi rimasti in Istria o la gente della campagna, quasi tutta bilingue, scese ad abitare nelle città dopo il ’45.

          Porco boia, slava, ogi, ma i sa, ‘sti disgrasiài, che fin al quarantasinque a Capodistria se parlava solo italian, anse el nostro dialeto; che qua s’ciavi non ghe ne jera. In canpagna, fora, sì, e i vigniva a Capodistria a portar late e fruti e a far la spese. Ma ghe ne jera, italiani, anca fora, in serti vilazi, ti ti sa. Ma qua, no, porco boia. Qua i gà scanpàr via i italiani… E adesso, ‘sti porchi italiani, i ne credi s’ciavi.

I primi anni dell’occupazione jugoslava erano stati terribili: violenze, misure economiche soffocanti.

(…)

Sì, ma ‘sti àzeni i doveva resìster, resister, far finta de eser comunisti, dichiararse liberai del fasismo, per tignir duro come italiani. Quei italiani che i se gà butà co’ lori, no i li gà miga perseguitài! Azeni quei che gà sufìà sul fogo, per farli andar via, sensa capir, lori che i se dizeva italiani, che cusì i tradiva l’Italia.

Sfogo atroce, velenoso, ma anche prova di comprensione dei fatti, di un certo machiavellismo popolare. È vero: ci furono gli ideatori e gli apostoli dell’”esodo”, molti dei quali, – chi in buona chi in mala fede, – propagandarono la necessità imprescindibile di una fuoriuscita in massa della popolazione italiana dell’Istria, divulgando le gravi persecuzioni operate dagli occupatori ai danni degli italiani. Elio sapeva bene i nomi degli “istriani nemici degli istriani”, come lui li definiva.

          Azeni maledeti! – completò

          Elio, ti sa cosa che vol dir la sapiensa del poi…

          E se non lo savesi, lo capirìa adesso. Ma mi lo dizevo pian, pian, sensa farme sentir: “Sté qua, fé finta,” ghe dizevo. I me dizeva: “Senpio, mona, se ti vol crepar, crepa.” E mi: “Ve pentiré”. Dizevo alora, no ogi!

 

E i più se ne andarono, e i rimasti sono oggi in parte morti, in parte vecchi. Si sono ridotti a tre o quattrocento.

E quelli che partirono, oggi non sono più giovani e i loro figli sono nati a Trieste, Venezia, Roma, Milano, in America e in Australia: una diaspora che non consentirà a nessuno dei loro figli di sentirsi istriani.

          Ti vedi, Elio, anca, mi, quando che vegno a Capodistria, me sento “straniero in patria”.

          Ma mi no! Mi son “citadino nella mia città”, – dice puntandomi nei miei occhi i suoi, che mi sembrano quelli di un ventenne arrabbiato.

(…)

Devo partire. Elio vuol accompagnarmi al porto, dove la Dionea attende chi deve imbarcarsi per Trieste. Elio mi parla di quei pochi sopravvissuti, con i quali si trova spesso verso sera in Campo Carpaccio (se li attende allo sbarco sul vicino molo della Porporella, o in Campo Sant’Anna) che oggi s’intitola al partigiano Destradi, uno dei capodistriani caduto nella guerriglia contro i tedeschi. Non discutono del passato, non fanno progetti per l’avvenire.  (…) Qualche volta padre Atanasio, il bravo frate che ha restaurato con le sue mano la chiesa dei francescani, dice loro qualche parola di conforto, in attesa, ormai, lui ch’è più giovane di loro, soltanto di benedire le loro salme nella cappella di San Canziano.

Un abbraccio stretto stretto. Elio si asciuga una lacrima. Io ne trattengo un’altra.

Mostro al “graniciaro” il passaporto, sul quale viene posto il timbro con la data. Passo il posto di blocco. Salgo sulla Dionea.

Sono passati alcuni mesi.

Oggi 26 agosto ritorno per qualche ora a respirare il natio aer sacro. Cerco Elio sulla spianata del Belvedere. Non c’è. Forse sarà in Campo Sant’Anna. Vi vado. La chiesa è aperta. Entro. Trovo padre Atanasio, che si ricorda d’essere stato mio alunno quasi mezzo secolo fa.

          Elio dov’è – gli chiedo

          Elio Paròn? Che vuole!… Aveva ottantatrè anni: un infarto se l’è portato via. L’abbiamo sepolto la settimana scorsa. Era così buono, così caro, così arzillo. Pareva vivo anche dopo morto…