Franco Vegliani  (già Sincovich), nato a Trieste nel 1915 ma cresciuto e maturatosi a Fiume tra le due guerre, crebbe nelle diverse località in cui il padre magistrato svolgeva di volta in volta i suoi incarichi: l’isola di Veglia, Abbazia e Fiume fino ll’inizio della seconda guerra mondiale.  Esordì sulle pagine della rivista letteraria fiumana “Termini”, dal 1936 al 1938. Nel 1940 pubblicò a Roma il volume di racconti Un uomo del tempo, dai quali emergeva l’attenzione dello scrittore per le implicazioni e le sfumature psicologiche della relazione con le origini e le alterne vicende dei confini. Negli anni della sua lunga prigionia in Egitto maturò la sua esperienza narrativa, dando vita all’opera Due racconti. Rientrato in Italia si stabilì a Milano dove intraprese la professione di giornalista e pubblicò nel 1958 il suo primo romanzo Processo a Volosca, preceduto da Malaparte (1957), a cui seguirono La frontiera (1964, ripubblicato nel 1988 e nel 1996), La carta coperta (1972), e postumo (scomparve nel 1982, a Malcesine), Lettere in morte di Cristiano Bess. Dal libro La frontiera è stato tratto l’omonimo film diretto da Franco Giraldi.  Le opere di Vegliani sono state anche adattate al teatro: La frontiera ad opera di Ghigo de Chiara  (1996, rappresentata dal Dramma Italiano di Fiume in collaborazione con il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia), e il Processo a Volosca, ad opera di  Sodomaco (2004, rappresentato dal Dramma Italiano di Fiume, per la regia di Nino Mangano).
 Da »La frontiera« ( 1964, 1988, Sellerio)

 Nell’estare del 1921 un giovane ufficiale italiano incontra un vecchio in un’ isola della Dalmazia, e questi lo avvince nel racconto di Emidio Orlich, alfiere austroungarico della prima guerra, del suo destino e della sua vana morte. Ma e’ piu’ la presenza e la vicenda del vecchio, il modo del suo testimoniare, come un circuire filosofico o un’inchiesta, a tentare il giovane in un gioco di identificazione, fino a confonderlo.

 

 Il discorso finì lì, per quella volta. Infatti io non chiesi nulla a Simeone: non credevo che la storia di Emilio Orlich, ufficiale di Francesco Giuseppe e morto tanti anni prima, mi potesse interessare. Simeone da parte sua, questo lo capii dopo naturalmente, con tutta probabilità esitò molto prima di raccontarmela: proprio per un riguardo versio di me, perché temeva che mi potesse in qualche modo ferire o che io potessi scorgere qualche allusione. A me personalmente oppure a tutti coloro che in quegi anni, e per quella guerra, dovevano trovarsi nelle mie stesse condizioni d’animo. Di politica io non avevo mai parlato con Simeone. Io non sapevo, e non avevo mai chiesto, di proposito probabilmente, che cosa Simeone pensasse della guerra che noi stavamo combattendo. Non sapevo neppure se egli fiosse contento, e fino a qual punto, che adesso sull’isola, e in tutta la Dalmazia, al posto degli jugoslavi, ci fossero gli italiani. Pensavo tutt’al più che gli fosse indifferente: e questo per me, in quel momento, era già qualche cosa che segretamente mi feriva e che preferivo non indagare per simpatia istintiva e per l’affetto, irragionevole alla fine, che mi legavano al vecchio uomo.  Solo una volta, all’ammaina bandiera, in piazza dopo il tramonto, mentre io assumevo la posizione di attenti e Simeone si levava lentamente il berretto, lo sentii mormorare: » Ho cambiato tre volte padrone. Troppe volte in una sola vita«

( …)

»Ti ho patlato di Emidio Orlich, quello che si salvò dal pescecane?« Dissi di si. E allora il vecchio uomo aggiunse. »Emidio, quando lo onobbi, era un entusiasta, presso a poco come te. Ti ho già detto, mi pare, che ha fatto una brutta fine«.

»Vorresti dire« chiesi ridendo, ma un po’ amaro, »che anch’io farò una brutta fine?«

 Simeone non rispose subito, come se la mia domanda non gli sembrasse scherzosa, o come se avesse pensato proprio questo- »Non è necessario« disse alla fine , e serio »Ognuno ha la sua sorte. Ma è certo che vi somigliate molto«.

 Emidio Orlich, alfiere dell’esercito imperiale, caduto in guerra più di venti anni prima, e non sapevo ancora né come nè dove, entrava nella mia vita più che altro come un allarme. Non potevo pensare che la sua storia, quando finalmente l’avrei conosciuta, o almeno quando avrei avuto tutti gli elementi per ricostruirla nel modo piu verosimile, mi avrebbe interessato tanto; e mi avrebbe tenuto occupato, sentimentalmente intendo, per un tempo lunghissimo: per anni addiruttura, prr tuttas la durata della guerra, e anche dopo. Che lk’avrei riscoperta be rievocata nella mia memoria   in determinate occasioni, le piu difficili forse della mia carriera di uomo, come una specie di alibi, E che alla fine, tanto tempo dopo, spente o rasserenate le passioni di quella guerra, mutate profondamente almeno per me, tutte le prospettive, mi sarei risolto come sto per fare, a raccontare, quasi nei termini di una confessione io stesso agli altri.

Simeone quella sera, prima che scendessimo a terra dopo aver ormeggiato la barca, mi dirre: » Se ne hai voglia, piu tardi, o magari domani, vieni a troovarmi a casa mia. C’e’ qualche cosa che vorrei farti vedere#. Gli risposi che ci sarei andato quella sera stessa.

 (…)

 Molte dlle cose che Simeone mi raccontò, la prima sera e dopo, sulla traccia e sullo stimolo di quelle memorie del nipote, egli le aveva apprese dall’uomo che gli aveva portato la misera e straziante eredità di Emidio. Il suo attendente, in una sola parola: un pescivendolo istriano, di Rovigno che i fogli del suo ufficiale li aveva raccolti, subito dopo la sua morte, e sottratti a proprio rischio alla perquisizione che il comando aveva ordinato di fare al bagaglio dell’alfiere caduto, e caduto in quel modo. Non li aveva letti però. A lui bastava quello che aveva veduto con i propri occhi per rendersi conto dell’indispenabilità del destinio di Emidio.

 Simeone tuttavia sapeva quanta parte vi aveva avuto quel soldato istriano. E per questo mi invitò a leggere con attenzione tutto cio che Emidio aveva segnato nei suoi quaderni a propositio di quell’uomo. Nei primi giorni della sua permanenza al reparto Emidio Orlich infatti aveva scritto così: »L’attendente che mi è stato assegnato, e che divido con un altro ufficiale, si chiama Lorenzo Contin, E’ di una città dell’Istria e appartiene a una delle classi anziane. Ha fatto con il battaglione tutto l’ultimo periodo di prima linea sui Carpazi, senza riportare nememeno una scalfittur. Un uomo forunato, che mi sembra però anche onesto e leale«.

Quel giorno, il primo della loro breve ma intensa storia comune, Lorenzo Contin aveva bussato alla porta della stanza di Emidio, per chiedere ordini, subito dopo che il reparto era rientrato dall’istruzione. Emidio si stava mutando di uniforme, e in realtà non aveva nessun ordine particolare da impartire. Aveva bisogno però di non rimanere solo. E aveva un bisogno ancora più sottile e inconfessato: quello di parlare liberamente il proprio dialetto. Era una vecchia tradizione, rigorosamente rispettata, che con gli uomini di quel reggimento della imperiale e regia fanteria austro-ungarica, il quale portava il numero 97 e reclutava i propri effettivi nei distretti del litorale istriano, di Trieste e della provincia slovena, fuori servizio si parlasse in veneto. Gli stessi ufficiali di lingua tedesca si sforzavano di farlo, come se fosse un punto d’onore, e finivano per imparare a quel modo un loro sommario italiano.

 

Racconto slavo

Questo racconto inedito di Vegliani richiama, sin dal titolo, l’ambiente slavo del confine, contiguo alla civiltà urbana italiana: un paesaggio geografico e umano intensamente indagato dallo scrittore nei suoi romanzi. L’entroterra liburnico, i paesi croati, il litorale adriatico, sono le quinte di questa novella che narra la breve libertà di un giovane, Stojan, fuggito alla giustizia dopo aver commesso un omicidio. Vegliani dipana la storia di una fuga e di un affrancamento dalle leggi umane, verso una dimensione di vita liberata dai lacci della consuetudine, ma inevitabilmente conclusa con la resa ineludabile all’ordine delle norme.

Stojan non resiste al richiamo degli affetti: tradito dal padre si consegna, quasi seranamente, ai gendarmi.Vegliani sembra indicare anche con questo “Racconto” l’irrealizzabilità di quella fuga pure tentata, metafora di un clamoroso rifiuto del mondo e dell’obbedienza, che scopre impossibile da praticare ma almeno da immaginare.

 

Stojan abitava in compagnia del vecchio Pave in una vasta caverna, il cui ingresso era nascosto, alla vista di chi passava lungo la mulattiera, da una folta macchia di pruni. Seduto sopra di uno dei due sacconi di foglie addossati al fondo della grotta, il giovane cominciò lentamente con un coltello a strappare la tela che chiudeva la parte superiore del cesto. E questo lavoro così semplice gli riusciva male, come se egli lo facesse a malincuore, o gli tremasse un poco la mano che reggeva il coltello, oppure non gli fosse sufficiente la fioca luce che spandeva il lumino ad olio posato sopra una mensola della parete. Presso a poco egli indovinava il contenuto del cesto e ne toglieva gli oggetti a uno a uno senza impazienza, considerandoli un momento e posandoli a terra vicino ai suoi piedi. Vi erano due grosse maglie di lana, di cui aveva bisogno, dei calzettoni, un berretto di pelo, una focaccia dolce, una bottiglia di grappa e altre cose del genere, come al solito. Tutte cose necessarie, ma che non gli davano nessuna gioia. Solamente in ultimo, quando il canestro fu vuotato ed egli ne tastò il fondo con la mano, per scrupolo, scoperse la lettera. Allora si alzò e mosse verso l’uscita della caverna sgualcendo un poco con dita nervose la busta, che non portava indirizzo. Non strappò la busta finché non fu all’aperto e anche qui non lo fece subito, ma esitò un poco considerandola da tutte le parti e aggrottando le ciglia, come se temesse di qualche cosa. La lettera diceva:

“Caro figlio. Sono tua madre che ti mando questa roba, come al solito, perché tu patisca di meno il freddo e la fame. Tuo padre non ne sa nulla. Qui in casa stiamo tutti bene di salute, e da quando tu te ne sei andato neppure tua sorella Zora ha più voglia di cantare. In paese non si parla quasi più di te e anche i gendarmi da qualche tempo non vengono più in casa a cercarti e non ci interrogano più. Caro figlio, io non giudico quello che tu hai fatto, ma Dio mi è testimonio che nel mio cuore ti ho perdonato. Io prego ogni giorno il Signore per te e che non ti accada nulla di male. Tua madre.”

Quando ebbe finito di leggere, il volto di Stojan non si rasserenò, anzi parve che corrugasse ancora di più la fronte e sporse in fuori il labbro inferiore, così da assumere un’espressione crucciata e quasi cattiva. Poi piegò il foglio, se lo mise in una tasca della giubba e mosse qualche passo sulla neve dura, con le mani in tasca e fischiettando soprapensiero. Quasi subito si stancò di camminare. Scelse con lo sguardo un masso sgombro di neve, ai piedi di un enorme pino, si mise a sedere, riprese il foglio e lo rilesse con nuova attenzione. Il mattino era già prossimo al meriggio e il cielo sulla montagna si era del tutto liberato dalle nuvole. Oltre la fronda dei pini si scorgeva l’azzurro terso, e un vento calmo e gelato passava a folate distese sul bosco, facendo cadere con soffici tonfi i blocchi di neve dall’intrico dei rami. Il giovane accesse la pipa. Fumava a lente boccate, rimandando qualche volta il fumo per il naso e guardava in terra la punta delle proprie scarpe, con cui componeva e scomponeva dei segni sulla neve. Non era la prima volta, da quando si trovava lassù, che riceveva della roba da sua madre. E sempre quei doni gli avevano procurato un piacere che non era esente da una strana sensazione di fastidio, una specie di irritazione o di malessere di cui non si rendeva ragione. Non era mai accaduto però che sua madre accompagnasse la roba con uno scritto. Egli era certo che sua madre non poteva serbargli alcun rancore per quello che aveva fatto. Cose che le donne in genere non capiscono, ma perdonano. Ma sapeva che la sua fuga doveva essere stata per la vecchia un grande dolore. Si sforzava di non pensarci, ma spesso questo non gli riusciva possibile. Era un cruccio che lo coglieva a tradimento, specie in certe ore di solitudine, se gli accadeva di arrivare fino al limite della foresta, dove cominciava il sentiero per la valle e da dove si scorgevano i paesi addossati alle radici dei monti o distesi sulle due rive del fiume. Tornava indietro allora e si addentrava nel più folto del bosco, oppure, ma più raramente, cercava la compagnia del vecchio Pave, che era tanto più anziano di lui di quella vita. Ma un’impressione vaga di sconforto gli rimaneva sempre per lungo tempo ed egli rimpiangeva in quelle occasioni i primi mesi quando ancora i gendarmi e le guardie di finanza lo braccavano per la foresta e non rimaneva tempo per altro che per pensare alla fuga. Lo stesso pensiero gli venne ora leggendo quelle righe della madre, meditandole parola per parola, mentre alcuni slegati particolari della vita di casa sua gli affioravano dolorosamente e contro sua voglia nella memoria. Si alzò, confuse con la suola i segni tracciati nella neve e trasse dalla pipa una lunga boccata di fumo; poi sputò lontano davanti a sé.

(…)

Stojan giunse alle prime case del paese che la sera era già scesa e la nebbia spessa del fiume stava invadendo la valle. La sua casa si trovava al limite opposto dell’abitato, isolata lungo la via provinciale. Anche con il buio e con la nebbia sarebbe stato poco prudente attraversare il centro del paese e Stojan preferì prendere lungo il fiume, per la strada dell’argine. Era la strada dei suoi giuochi di ragazzo, quando nel tempo d’estate facevano alle sassate sul greto della corrente in magra, con i ragazzi delle altre campagne, oppure si tendevano agguati tra i giunchi della golena. Ma egli la percorreva ora senza nessuna particolare emozione. Il solo sentimento che provava, forte, assai più forte anche della stanchezza per la lunga marcia, era il desiderio di trovarsi a casa e soprattuto in presenza della madre.

Riconobbe il grande  salice che dava ombra alla cucina. Oltre i rami si scorgevano i vetri debolmente illuminati: tutte le altre finestre erano al buio. Scavalcò senza fatica la bassa palizzata ed entrò nell’orto calpestando le aiuole. Poi si nascose sotto al salice, in modo che dalla finestra non lo potessero vedere. Da quel punto neppure lui poteva scorgere l’interno della cucina: scorgeva solamente le travi del soffitto e qualche poco della cappa del camino. La lampada a petrolio doveva essere posata sul tavolo, perché mandava la luce verso l’alto. Stojan non sapeva decidersi a staccarsi da quel suo nascondiglio e tratteneva il fiato e tendeva l’orecchio per sentire se dalla cucina gli giungesse qualche voce nota. Attendeva questo come un segno, senza il quale gli pareva che non avrebbe avuto il coraggio di muoversi. Ad un tratto scorse un’ombra enorme e goffa passare attraverso la luce e disegnarsi contro il soffitto, agitarsi un poco mutando sagoma e dimensioni e poi scomparire come riassorbita verso il basso. Seguì a breve distanza lo sbattere di un uscio. Era sua madre: doveva essere uscita in quel momento dalla cucina. Questo gli parve finalmente un segno: si alzò lentamente da sotto all’albero e mosse guardingo verso l’usciolo che dalla cucina dava direttamente nell’orto. La sua straordinaria impzienza si era trasformata in un’esitazione, che gli paralizzava quasi le membra. Dalla stalla si levò  lungo e lamentoso il muggire di una mucca, subito dopo abbaiò un cane dalla strada maestra. E Stojan ristette a quei rumori, come se temesse di essere scoperto.

Nella vasta cucina entrò furtivo, quasi in punta dei piedi e riaccostò piano l’usciolo alle sue spalle. La cucina era vuota e a Stojan parve subito di entrare in una casa che non fosse la sua. Più che un estraneo gli sembrava di essere addirittura uno che stesse compiendo un’azione vietata, qualche cosa che sarebbe stata giudicata molto severamente dagli altri. Sul focolare ardeva un fuoco basso sotto a un grande pagliuolo di rame: egli vi si accostò a passi lenti e quasi cauti e avvicinò istintivamente le palme aperte alla fiamma, per scaldare le mani intrizzite. (…)

Mosse appena qualche passo, tanto da restare appoggiato alla parete a lato del focolare, e la madre entrò. Egli non poteva vederle il volto, perché la porta era in ombra e la donna teneva gli occhi bassi: tuttavia gli sembrò ancora più piccola e curva di come la rammentava. Richiusa piano la porta, la donna si diresse verso il fuoco e appena allora alzò il viso. Fu in quel momento che lo vide, in luce tra la lampada e la fiamma.

Non pronunziò neppure una parola, solamente si fermò sospesa per qualche secondo. Ma subito corse verso di lui e non lo abbracciò, gli prese soltanto le mani, che egli teneva inerti e abbandonate lungo i fianchi, e le strinse forte sollevandole, come se gliele volessebaciare. Ma non fece neppure questo, alzò solo lo sguardo al viso smorto di lui e rimise a fissarlo per un attimo, poi si staccò quasi brusca e si allontanò di qualche passo, come se volesse poterlo vedere meglio e tutto. Finalmente parve che le riuscisse a parlare:

          Figlio, perché sei venuto? – chiese, con una voce sottile e incrinata, piena di ansia.

(…)

          Sono sceso per rivedervi. Non ne potevo più. – disse finalmente.

La madre trasalì. Probabilmente era proprio quella la risposta che si attendeva e che aumentava la sua pena per il figliolo e per sé, come se la colpa che egli fosse messo in quel rischio la avesse tutta lei.