Giani (Giovanni Domenico) Stuparich nasce a Trieste nel 1891, da padre lussignano e da madre triestina di religione ebraica. Terminato il liceo, si reca a studiare presso l’Università di Praga. Il secondo anno di studi lo trascorre in Italia, grazie a una borsa di studio concessa ai giuliani frequentanti un ateneo imperial-regio: qui frequenta l’Università di Firenze dove si laurea nell’aprile 1915 in letteratura italiana. Pubblica in quel periodo il saggio La nazione czeca (1915). 

Socialista, guardava a Giuseppe Mazzini e al suo appello all’unità di pensiero e azione, nonché di popolo e di nazione, sottintendendo dunque anche il rispetto di ogni autonomia etnica. Credeva alla creazione di un’Europa federalista, aupicata da Carlo Cattaneo. 

A Firenze Stuparich si avvicina alla rivista La Voce di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini dove incontra Scipio Slataper con il quale instaura un solido legame di amicizia. Nel 1915 si arruola volontario nel Primo reggimento dei Granatieri di Sardegna. Con lui Carlo, il fratello minore, e Scipio Slataper, che, entrambi, perderanno la vita. Giani Stuparich viene invece fatto prigioniero, e costretto a due anni di prigionia in un lager ungherese. Dopo la guerra nel febbraio del 1919 sposa Elody Oblath, ebrea, una delle tre amiche di Slataper. Nel settembre del 1921 inizia la sua carriera da insegnante, entrando come docente di italiano in quello stesso Ginnasio-Liceo (“Dante Alighieri”) di cui era stato studente. Tra i Racconti (Torino 1929), Un anno di scuola, ricorda la propria educazione sentimentale e umana allorché, nel suo ultimo anno di liceo, arrivò in classe l’unica allieva femmina La monografia Scipio Slataper (1922) è una sorta di racconto autobiografico narrato in terza persona, così come i sofferti Colloqui con mio fratello (Treves,1925). Del 1929 sono invece, i Racconti.

Durante gli anni del fascismo Stuparich si oppone all’ideologia e quell’inconcepibile fanatismo della guerra che Mussolini  andava professando. Scrive infatti, come un monito contro la guerra, le pagine di Guerra del ’15 e, qualche anno più tardi, di Ritorneranno (1941).  Tra il 1935 e il 1936 escono invece Sentire, Ragionare e Amare.

Nel 1933 scrive La Grotta (racconto lungo) pubblicato prima nella rivista Occidente, ripubblicato nel 1935 in Nuovi Racconti con il quale vince il primo premio per l’Epica alle olimpiadi di Londra nel 1948.  

Uno dei suoi racconti più riusciti è L’isola (Torino 1942), che narra del padre ammalato da lui accompagnato nella sua isola d’origine, Lussino. E’ considerato da molti critici il suo capolavoro. Seguono le pubblicazioni di racconti brevi e lunghi: Pietà del Sole (1942), Stagioni alla fontana (1942), Notte sul porto (1942), Giochi di Fisionomia (1942), L’altra Riva (1944) e Ginestre (1946).

Le leggi razziali  impongono a Stuparich, figlio e marito di ebree, di lasciare l’insegnamento nell’autunno del 1942. Nel ’43 viene arrestato dai nazisti e condotto alla Risiera di San Sabba; si salva solo grazie all’intervento del vescovo di Trieste, Antonio Santin e del prefetto Bruno Coceani.

Entrato a far parte del Comitato di liberazione nazionale (CLN), in tutte le opere seguenti riversò l’ansia, sua e dell’intera città, per la situazione drammatica in cui versava Trieste. Muore a Roma nel 1961.

Nel 1948 pubblica Trieste nei miei ricordi  e nel 1953 il secondo romanzo, Simone. Nel 1955, lo Zibaldone di Trieste pubblica le Poesie 1944-47, mentre nel 1961 i Ricordi Istriani.

Nel 1961, pochi giorni prima della morte dello scrittore, esce presso Einaudi Il ritorno del padre, il volume antologico pubblicato che Pier Antonio Quarantotti Gambini e gli amici gli avevano offerto come dono per il suo settantesimo compleanno.

Suo testamento spirituale possono essere considerati i Ricordi istriani( Trieste 1961), in cui trovò posto la consapevolezza dell’esule che sapeva di aver perso per sempre la sua terra paterna, di cui ricordava la luminosità dei paesaggi, le ritualità stagionali e, soprattutto, la gente umile costretta ad abbandonare tutto e a imbarcarsi per l’Italia sulla nave Toscana, divenuta simbolo dell’esodo.

 

 

Da “Ricordi istriani”

I doni dell’Istria

 Prima ancora di prender contato diretto, fisico, con la mia terra patria, io la conobbi nell’immaginazione fervida della mia infanzia. Nella suggestiva aureola che circondava mio padre e la sua famiglia, si andava maturando il mio amore per l’Istria. Papà era nato a Lussinpiccolo, aveva studiato al ginnasio di Capodistria e poi era venuto a Trieste, dove aveva trovato lavoro e messo su famiglia. Ma ogni tanto io, piccolo, con mia madre che mi teneva per mano, lo accompagnavamo al molo, dove s’imbarcava per i viaggi in Istria. Quando il vapore s’allontanava e papà sorridente ci salutava dalla ringhiera di bordo, io lo seguivo con lo sguardo più che potevo, poi fissavo gli occhi sul tratto di mare rimasto vuoto e riluttavo a staccarmi di là, finché mia madre non mi strappava quasi a forza. Chissà per quale misterioso suggerimento, il mio animo di bambino cercava nella scia di quel vapore il concretarsi d’una promessa. La promessa d’una scoperta, d’una rivelazione attesa: ritrovare nella realtà quell’idea che m’ero formato della mia terra e che di giorno in giorno mi si andava arricchendo di particolari.

L’isola paterna, a forza di ascoltare e di connettere cenni e racconti che se ne facevano a casa, era diventata il regno vivo delle mie scorrerie fantastiche. Vedevo gli squeri su cui nascevano i bastimenti e vedevo partire a vele spiegate il bastimento del nonno. Per l’America! Favoloso, lontanissimo paese, per raggiungere il quale bisognava passare giorni e giorni, settimane e mesi fra acqua e cielo. Sul bastimento c’era anche la nonna e c’era il babbo, allora più piccolo di me, che imparava a muovere i suoi primi passi in coperta, incespicando e rotolando ogni tanto in mezzo al cordame, fra le risa dei marinai. Mi pareva che molto più felice fosse stata, al confronto con la mia, l’infanzia di mio padre. Perché no ero nato anch’io nell’isola? Perché non avevo anch’io una casetta sulla riva, da cui mi sarei potuto gettare in acqua ogni ora del giorno? E mi sarei messo a gareggiare, nella mia botticella, con gli altri ragazzi? Questa delle botticelle, che seminavano il calmo porto di Lussino di schiumanti e bizzarri navigli, era la mia passisone insoddisfatta. Ed altre passioni da soddisfare riservavo nel petto, per quando avrei fatto il mio primo viaggio di scoperta. Papà m’aveva promesso di condurmi con sé, presto, ed io aspettavo.

Intanto arrivavano da Cherso, dove abitava allora la nonna, canestre alla cui apertura volevo assistere a tutti i costi. Appena levato il coperchio, di sotto all’alga fresca ancora odorosa di mare, si muovevano  le branche a tenaglia degli scampi vivi. Con grida di gioia levavo ad uno ad uno quei meravigliosi crostacei, che ancora respiravano e contraevano i rosei anelli della coda; e li mettevo subito, con disperazione di mia madre, nell’acquaio, dove, salando l’acqua con pugni di sale, mi pareva d’aver loro sostituito il mare. Ma in quel mare fittizio morivano ed io me ne addoloravo e capivo che il vero mare delle mie isole sospirate doveva essere tutt’altra cosa. Mio padre s’illuminava in volto, quando parlava delle insenature di Lussino che avevano nomi incantevoli: Val d’Argento, Cigale, Val di Sole…, e parlava dei suoi scogli e del suo mare limpido, ricco di pesci. La barca e la pesca entravano nella mia vita segreta di fanciullo ed io disprezzavo ogni altro giocattolo che non avesse forma di nave o non avesse qualche relazione col mare.

Intanto l’Istria continuava ad arrivare in casa coi suoi doni. Papà vi aveva molti amici, in ogni parte. Oltre agli scampi e ai fichi di Cherso, arrivavano i dentici di Cittanova e le ostriche del Quieto, venivano le damigiane d’olio da Umago e i bariletti di vino da Parenzo, le sottili bottiglie d’un prelibato vino rosa da Dignano; veniva il capretto, il lepre, il formaggio pecorino dell’interno e le pesche e l’uva da Capodistria e da Isola.

Povera la mia Istria? Quello che imparai più tardi dalla storia e dai confronti, mi rivelò che l’Istria era stata sfruttata, trascurata, impoverita. Ma allora, da bambino, io la stimavo la terra più ricca del mondo, più abbondante di doni preziosi. In realtà, anche se povera, e proprio perché povera, l’Istria è stata sempre una gran terra generosa.

 

Il nonno lussignano

 Fin dall’adolescenza mi sono rammaricato di non aver conosciuto il nonno paterno, il nonno di Lussino. Morì giovane, a quarantacinque anni. Neppure mio padre aveva di lui un ricordo diretto, poiché quando scomparve, mio padre era ancora bambino. Uno di quegli uomini, il nonno, destinato a non invecchiare, a lasciare di sé nel mondo un ricordo intatto di vigoria e freschezza. In famiglia la presenza della sua memoria era dominatrice, sia nel grande ritratto che pendeva dal mezzo della parete della nostra stanza di soggiorno, sia nel parlare frequente che si faceva intorno a lui, negli aneddoti che si raccontavano della sua vita.

Il suo ritratto l’ho ancora davanti agli occhi. La persona eretta, in giacca lunga; sul panciotto coi fitti bottoni, pendente dall’alto occhiello fino al taschino, una grossa catena d’oro con medaglione; a rovesciare un poco la falda della giacca, una mano infilata con estro nella tasca davanti dei calzoni ben stirati; nell’altra mano il cilindro. Tutta la figura naturalmente elegante e un poco forse ostentatamente, ma simpaticamente fiera e bizzarra. Per questo suo gusto di distinzione ed eleganza era soprannominato “il parigino” nell’isola, dove gli altri marinai apparivano piuttosto rudi e trascurati. Ma quel suo volto era la rivelazione schietta del suo carattere: fronte aperta, occhi leggermente incassati e chiari, lo sguardo dritto e impavido, le narici sensibili, lunghi baffi alla Vittorio Emanuele e la moschetta. L’uomo di mare caratteristico delle nostre isole, l’uomo di mare che si trova a suo perfetto agio soltanto a bordo d’un bastimento e che, quando è in terra, assume per contrapposto un certo tono eccentrico.Il nonno era capitano ed insieme armatore, faceva i viaggi di lungo corso, attraversava con le sue vele l’Atlantico, per mesi e mesi restava lontano dalla famiglia. Finalmente, tornava nella sua Lussino. Io ricordo sempre il racconto che la nonna ci faceva di questi suoi ritorni: la lunga attesa sulla punta della Madonna tra chiesetta e faro e finalmente il bastimento, che mandava una scialuppa a riva a prendere la nonna, allora giovane, coi suoi due figlioletti; l’abbraccio a bordo e l’entrata insieme nel porto di Lussino.

Nella casetta a specchio del mare tutto era preparato per accogliere festosamente il padrone. Gli sguardi della famiglia erano incantati su di lui: egli portava aria nuova, infinite cose da raccontare del suo viaggio, sulla vita di bordo, sui porti visitati, sugli affari, sui moli. E poi ogni volta c’era qualche sorpresa; egli non arrivava mai con le mani vuote. Tutti attendevano ansiosamente il momento in cui faceva mettere sulla tavola le valigie o qualche cassetta misteriosa: di là uscivano stoffe, terraglie, oggetti da far sgranare gli occhi e dare in esclamazioni di meraviglia. Una volta, tornato da un lungo viaggio difficile, egli tirò fuori dalla valigia un vecchio cappello a cencio, fece sgombrare la tavola e gridò: “Non vi ho portato nulla, se non questo cappellaccio: è tutto il profitto del mio faticoso viaggio. Chi lo vuole lo prenda!” E in così dire, sotto gli occhi delusi e stupiti dei familiari, lanciò il cappello in alto sopra la tavola. Da quel cappello si rovesciò sulla tavola una vera tempesta d’oro: zecchini, napoleoni e altre monete lucenti che rimbalzavano da per tutto sul pavimento, contro i mobili e che tutti gridando s’affannavano a raccogliere.

Il nonno amava lo scherzo e godeva di far stupire con le sue bizzarrie e con le sue beffe, certe volte spettacolari. Fra le tante che se ne tramandavano in famiglia, ricorderò la scommessa ch’egli fece in un porto d’America con un capitano straniero. Stando con questo al tavolo di un caffè lussuoso, le cui pareti erano formate da grandi specchiere, egli affermò che sarebbe stato capace d’entrare in quel locale a cavallo d’un purosangue, in ora affollatissima, senza far molto danno e senza rompere neppure uno di quegli specchi. Il capitano straniero, incredulo, lo indusse a una forte scommessa e il nonno, il giorno dopo, entrò nel caffè in sella a un cavallo che schiumava e lo guidò magistralmente fra i tavoli, nello scompiglio generale, in mezzo agli urli e agli svenimenti delle donne. Il danno fu di poche tazze rovesciate per lo spavento e venne risarcito dal nonno generosamente.

Altra sua impresa bizzarra, quella di una Pasqua nell’isola, che non produceva uova bastanti per tutte le pinze. La vigilia, proprio in tempo, giungeva ogni anno una barca con un cestone d’uova per le massaie, che se le dividevano già all’arrivo. Orbene, una volta il nonno tenne per mezz’ora tutta l’isola sospesa nell’angoscia di dover far la pasqua senza le pinze. Mentre issavano la cesta dalla barca, egli le dette un tale colpo – e finse che fosse una fatalità – che tutte le uova si rovesciarono e si infransero sulla riva. Le donne infuriate per poco non gli cavarono gli occhi. Ma ecco arrivare una seconda barca con un’altra cesta di uova. La beffa, combinata dal nonno, aveva messo prima in subbuglio e poi in allegria l’intera Lussino.

Il nonno era festoso e gaio, solare come la sua isola, chiaro e aperto come il mare che la circonda.