Guido Miglia è Nato a Pola nel 1919. Lureatosi nel 1942 in materie letterarie  con Carlo Bo, scrittore, giornalista, insegnante, direttore nella sua città del quotidiano del CLN “L’Arena di Pola” dalla fondazione, nel luglio del ’45, alla firma del Trattato di Pace nel febbraio del ’47, Miglia lasciò Pola con il grande esodo per stabilirsi a Trieste. Qui svolse un’intensa attività pubblicistica collaborando con numerose testate e giornali. Ha insegnato negli istituti superiori di Trieste, e ha ricoperto il ruolo di Preside di Istituti Tecnici a Udine e a Trieste. Nel 1954 ha fondato la rivista “Trieste”, che ha diretto fino al 1959. Ha collaborato per lunghi anni con la RAI, per la quale ha creato numerose rubriche fra cui »Volti e voci dell’Istria«.  E’, con Fulvio Tomizza, Giorgio Depangher e Marino Vocci uno dei fondatori del »Circolo »istria«.  Si è spento a Trieste nel 2009. Il suo primo libro di racconti “Bozzetti istriani”, uscito nel 1968, ha avuto la medaglia d’oro del Premio Settembrini. Fra le altre sue principali opere  »Bozzetti istriani« (1968), »Le nostre radici«( 1969), »Dentro l’Istria- diario 1945-47« ( 1973), »Istria- i sentieri della memoria« ( 1990), »L’Istria una quercia« (1994). La sua opera è stata analizzata dalla storica Silva Bon nell’opera »Guido Miglia. Rivivere l’Istria« (2018).

Da » Dentro l’Istria – Diario 1945- 1947« (1973)

10 febbraio 1947

Ho deciso di partire oggi, nel giorno in cui viene decisa la sorte della mia terra. La città è vuota, stretta in una morsa di gelo, di solitudine, di abbandono. L’inverno è stato durissimo, implacabile, uno di quegli inverni istriani di cieli bassi e plumbei, di vento e di neve, di fango densoi e sporco sulle strade mute. Anche oggi i rumori di ogni giorno, quei chiodi che si conficcano nelle grandi casse, in ogni alloggio ancor vivo, per portar via il salvabile, quei rumori sinistri che escono dalle finestre aperte, lugubri comeri colpi di martello sulla cassa del morto. E i carri che vanno, dall’alba fino a notte fonda, verso il porto della città, pieni di mobili vecchi, legati con corde improvvisate. Come in processione silenziosa, il padre davanti che tiene una mano sul carro, e dietro vengonola moglie e i figli, gli occhi a terra, spaventati, come se seguissero un morto.

Nel fondo dell’Arsenale c’è la grande nave nera – il »Toscana«-, che ci attende, come un cupo fantasma, un’ombra gelida che avvolge tutta la città. Sulla banchina vedo ancora una volta la mobilia accatastata di migliaia di alloggi, che marcisce ogni giorno.

Da alcune settimane sono solo, mia moglie e la mia bambina sono partite, ed ora mi aspettano a Trieste, ma non so dove andremo, dove ci fermeremo. Ho accompagnato la mia bambina sulla nave, l’ho guardata a lungo mentre la madre la portava su per il pontile, avvolta in una grande coperta, un fagottino di freddo che si muoveva nelle braccia della madre, il piccolo viso pallido ch’io ho toccato ancora una volta, prima che la nave fischiasse. ( …)

 Ho atteso questo dieci febbraio nella trepidazione della notte insonne, fuori il vento ha fischiato sinistro, un lampione tremava e gettava la sua povera luce fredda nella mia minestra vuota; poi con la grande valigia ho camminato sulle strade della mia città quando il cielo era ancora buio gli alberi dei Giardini erano scossi dal vento. Lungo il Corso stretto mi seguiva il vento, che veniva gelido dal mare, molti negozi erano senza vetrine, strappati anche i vetri e le saracinesche, come volti senza occhi, i portoni dei palazzi erano aperti, le imposte lasciate libere si aprivano e si chiudevano nelle case abbandonate, come tombe scoperchiate.

Un vecchio, prima di salire sulla nave, si inchininò fino a terra  e la baciò, poi si mise solo sulla poppa e io vidi la sua schiena che sussultava in un tremito convulso. Guardai ancora una volta la splendida banchina della mia riva, l’Arena, e il palazzo dell’Ammiragliato, il ponte di Scoglio olivi, le piccole case sulla mia collina, e scesi sotto coperta a fissare intontito la mia valigia.