Eligio (Ligio) Zanini, nato il 30 settembre 1927 a Rovigno, conseguì a Pola all’Istituto Magistrale il diploma di maestro elementare. Dal settembre 1947 sino a tutto il 1948 fu referente per le scuole italiane presso il Dipartimento all’istruzione del Comune di Pola, ma nel gennaio 1949 fu arrestato per motivi politici – seguiti alle persecuzioni dei »cominformisti« a seguto della frattura tra Tito e Stalin- e successivamente internato nel lager dell’Isola Calva (Goli otok). Liberato nel 1952, fu costretto a lavori di magazziniere prima e poi di contabile in diverse aziende polesi, tornando poi nel 1959 all’insegnamento: prima a Salvore (dove riattivò la scuola elementare italiana, chiusa nel 1953 per imposizione degli jugoslavi. Nei cinque anni trascorsi nella piccola cittadina, fondò il locale Circolo Italiano di Cultura), poi a Valle (con una parentesi rovignese di impiegato). Dopo lunghi anni dedicati alla scuola si ritirò a vita privata, facendo il pescatore e il poeta. E’ uno dei massimi poeti dialettali della comunita italiana in Istria, sensibile e profondo cultore dell’antico linguaggio istrioto (rovignese). Si è spento a Pola nel 1993. Le sue principali raccolte di poesie: Moussoli e scarcaciuò (Trieste, 1965), Buleistro (Milano, 1966), Mar quito e alanbastro (Trieste, 1968), Tiera viecia-stara (idem, 1970), Favalando cul cucal Fileipo (Trieste, 1979, apparsa in traduzione croata nel 1983), Sul sico della Muorte Sagonda (Udine, 1990), Cun la prua al vento, Milano 1993).

La sua principale opera di narrativa e’ il romanzo Martin Muma, in cui narra l’anima dell’Istria e le vicissitudini di quest’area fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale, la dififcile condizione degli italiani »rimasti« e , in particolare, il dramma della prigionia nel lager titino dell’«Isola Calva- Goli Otok« (edizione La Battana, Edit, Fiume 1990,  Il Ramo d’Oro Editore, Trieste 2008, Ronzani editore, 2022).

 

 

Da “Martin Muma”

 Le occhiaie vuote

 Dal romanzo autobiografico “Martin Muma” (1990) sono stati scelti alcuni brani tratti dal capitolo “L’amara sorte dei fiori dell’alba” (pp. 179-82 e 187-88). Nel periodo in cui si svolgono i fatti raccontati, i primissimi mesi del 1947, a Pola, l’autore si trovava in quella città e fu testimone del grande esodo degli italiani in vista della conclusione dell’amministrazione del Governo Militare Alleato (anglo-americano) e dell’annessione della città alla Jugoslavia. Con l’episodio dell’esodo s’intrecciano però altri eventi politici e situazioni sociali che preannunciano, nella loro amarezza, quello che sarà il dramma personale di Zanini: finirà deportato nel lager dell’Isola Calva.

 

Tutto era così bello per loro, tanto che spesso desideravano che nulla cambiasse, all’infuori della nascita del figlio. Ma il nuovo anno, il Quarantasette, in cui avrebbe avuto inizio una serie di tragici avvenimenti per i Polesi,d’ambo le parti della barricata, s’annunciò con la notizia che la città sarebbe veramente passata alla Jugoslavia. Martino, per quanto non fosse mai stato entusiasta di rivedere i siricòlo, si meravigliò con sé stesso per quel senso, vago e profondo, che quella conferma gli procurava. A ciò s’aggiunse, dopo qualche settimana, il dolore che provava all’udir tanta gente che aveva deciso d’andarsene, fra cui c’erano diverse persone, fino a poco prima propense a rimanere.

E cominciarono veramente a partire, già in febbraio di quell’anno. Vedeva sgomento, dalla sua baraca, camion, carri, carretti trasportare i mobili della povera gente, come lui, che venivano gettati quasi alla rinfusa sulla neve nera e fangosa del molo Carboni. Guardava, con un nodo alla gola, la motonave “Toscana” salpare carica: la maggioranza dei fuggiaschi era in lacrime, mentre alcuni gridavano: – Ritorneremo!

In uno di quei tristi giorni, in cui anche i titini più ottusi camminavano come dei cani bastonati, Martino si trovò a passare per la via Cenide; andava a prendere il suo diploma di maestro con tutto sei per le continue “scapole” con Silvia, e anche regalati, in quell’aria di fuggi fuggi, che regnava allora nella scoletta proprio in fondo alla stessa via. E s’imbatté in Gianni Fiorentin, l’anziano comunista polesan allora membro del comitato cittadino del partito, che in quella strada teneva bottega d’imbianchino con qualche pretesa di pittore e decoratore. Al richiamo scherzoso “Su con le rece, maestro!”  di mastro Gianni., Martino entrò in bottega e dopo gli auguri per il matrimonio si venne al dunque. Ed è comprensibile come in quell’occasione le lingue battessero lo stesso dente, che ad ambedue duoleva. Fu il compagno Fiorentin ad intonare il tedeum:

–          E tira su quel  muso,  compagno maestro! Posso dirti che ne ho viste di peggio, specialmente quando mi trovavo nelle prigioni fasciste. Tanta nostra gente vediamo in questi giorni andar via. Troppa. Pola sarà così ferita mortalmente; ma ti dico che non morirà, anche per il bene della Causa, poiché resteremo lo stesso in numero sufficiente, per farci rispettare, con il nostro lavoro, da quelli che caleranno da lassù per occupare le case vuote. –

–          Con il nostro lavoro; ma resteremo in quattro gatti, non vedete che se ne vanno via tutti… E qualche disgraziato grida, ancora, “ritorneremo!”;  ma quello vuole un’altra guerra. Prima di veder cadere di nuovo le bombe, sarebbe meglio che ci sprofondassimo con tutta l’Istria – brontolò Martino.

–          Tutti no, ma troppo, come ho detto. Quelli della Lega Nazionale pensano soltanto ai loro interessi, incitando la gente a partire; vogliono portar con sé più gente possibile per fare i capi anche di là. Son d’accordo che per chi s’è molto compromesso non sarebbe piacevole il rimanere, ma facendo propaganda per trascinar via tutti, stanno al gioco degli Slavi, di quelli nazionalisti, che sono parecchi anche nel Partito. Per conto mio, quella è una Lega antinazionale e chi le dà ascolto, ama soltanto sé stesso, abbandonando la propria terra. Finirà, caro maestro, che sarà per merito nostro, di noi “rinnegati”, se un domani si parlerà la nostra lingua in queste terre; avremo le scuole italiane e starà a voi intellettuali onesti educare le nuove generazioni nell’amore per la nostra Nazione, nel rispetto di tutte le altre della Federativa. La guerra per l’Istria non ci sarà, non aver paura; e credo, anzi, che molti esuli ritorneranno pacificamente nelle loro case. Dobbiamo aver fiducia nei compagni comunisti e socialisti d’Italia e nel loro Fronte popolare; se riescono   a vincere, il confine fra noi e loro sarà quasi inesistente. –

–          Un confine quasi inesistente… – stava rimuginando Martino, tornando a casa per lo stradone dell’Arsenale, mentre veniva in continuazione sorpassato dagli autocarri diretti al molo Carboni con i mobili degli esuli.

–          Facile per lui – continuava a dirsi il neo-maestro – che ha qualcosa in cui credere. Dopo tanti anni di militanza nei comunisti, Gianni, come Luca, s’era creato delle certezze, simili ai dogmi, su cui poggiava saldamente il suo Ideale (…)

 

Intanto la sua città stava scomparendo tragicamente; altre navi s’erano aggiunte alla “Toscana”, di tutte le stazze, fra cui anche dei vecchi  trabaccoli piranesi, quelli con il “muso” gonfio e due grandi occhi che in quei giorni sembravano più aperti, attoniti. Gruppi di scellerati percorrevano ogni tanto le vie cittadine sbraitando:

–          Hoj reakcija, kamo ćete sada, kada dođe brigada?

(O reazione, dove andrai ora, quando arriva la brigata titina?)

Luca Meconi, Gianni Fiorentin e gli altri compagni del comitato cittadino del partito non li avevano organizzati, di questo Martino era certo. Manifestazioni spontanee? Neanche per ide, visto che le „masse antifasciste“ manovrata dal Pc erano troppo bene ammaestrate per prendere un’iniziativa di testa propria. Ci doveva essere qualcuno che aveva tutto l’interesse a far fuggire il maggior numero di Polesi – constatò infine Martino.

Passò così la terza estate e l’ultima, per i Polesi rimasti, in cui,  drio la Rena, si potè esprimere la propria opinione politica, anche se contraria al vento predominante, senza la paura del delatore, del sporco spiòn, che ti facesse vedere il sole a scacchi o come minimo, un’ulteriore aggiunta alla scheda personale che sarebbe stata tirata fuori, al momento opportuno, da chi di competenza.

E con l’approssimarsi della stagione brutta ritornarono, definitivamente, i drusi nella città semideserta.

Sin dai primi giorni, questi dimostrarono d’aver imparato, nel frattempo, non soltanto a ballare, ma anche a suonare. Una monodìa, tipica del partito unico, ma che si dimostrerà efficacissima per „allargare ulteriormente il loro cerchio“. Dietro all’esercito calò giù dal Levante, come era d’aspettarselo, una moltitudine d’individui di tutte le specie che, inavvertitamente, come la marea montante, giorno dopo giorno, finì per riempire il vuoto lasciato dagli esuli. Si compì in tal modo la „kolonizacija Istre“, cioé la colonizzazione dell’Istria, come essi stessi definirono questo loro flusso migratorio verso l’Occidente. Com’è comprensibile, questi nuovi magnamasse o cabìbi non erano proprio la crema del loro luogo natio, poiché da quello le persone oneste e laboriose non avevano alcun biosogno di muoversi. In ogni caso, dopo alcuni mesi la città di Pola fu quella che la propaganda jugoslava aveva sempre affermato che era, desiderando in cuor suo che fosse, cioè un centro croato. E questo, anche grazie alla Lega Nazionale, pro Italia! Proprio in quei primi mesi, Martino percorrendo le strade della sua città che non riconosceva più per l’idioma straniero che vi predominava, stava pensando „Sarà veramente duro con loro, ma, se resterò vivo potrò dirmi di non essere stato come gli armenti che abbandonano il loro pascolo, quando viene meno l’erba a causa del gianico.“ E l’esistenza sua, quella dei Polesi  rimasti, come quella degli studenti di Zagabria, ma anche di Lubiana e perfino di Belgrado, fu, e lo è tuttora, più dura di quello che allora si fosse potuto immaginare. Tanto che, a momenti, si trovò a maledire mamma Checchina per averlo partorito in Istria e ad invidiare i furbi che se n’erano andati nelle libere praterie.

Era rimasto, però, un certo numero di Polesi, reso più consistente dagli abitanti dei villaggi circostanti di nazionalità croata, ma, che per mentalità e tradizione, non si sentivano entusiasti dei nuovi arrivati. Questa „minoranza“ risultò essere, nel primo anno dopo la cosiddetta Liberazione, un fattore quasi determinante nella vita cittadina. Poiché formava un insieme omogeneo con un proprio codice di comportamento, acquisito ancora sotto la prima Defunta che era un Paese ordinato, mentre i nuovi „accasamiacitengo“ non legavano fra loro, provenendo dalle più  disparate regioni della Jugoslavia. Anzi, giunsero a Pola con i loro ben distinti e pesanti fardelli gravidi di contrasti tribali o, addirittura nazionali come quello fra i Serbi ed i Croati.

Nonno Toni pronunciò le ultime parole a gran fatica, con un fil di voce disperata, e Martino, tanto per tirarlo un po’ su di morale, gli disse:

–          Credo che tu non abbia tutti i torti, poiché anch’io, caro nonno, da quando i drusi sono ritornati a Pola, vedo delle cose che non mi piacciono. Penso, però, che qui a Rovigno le cose vadano peggio che da me, dove conosco tanti comunisti, polesani, che certamente non accetteranno ora la parte degli scagnozzi, dopo un’intera vita trascorsa per il bene della loro gente. Piuttosto sono preoccupato per tanta nostra gente che se ne va e che in tal modo fa il gioco dei nazionalisti slavi. –

–          Tanta nostra gente che se ne va, facendo così il gioco dei nazionalisti slavi, – ripeté il nonno con rabbia, fissando Martino con gli occhi bianchi che per un attimo ebbero il riflesso di due lame di rasoio – ma tu parli così poiché sei vissuto nella Zona A! Se fossi stato dalla fine della guerra fino adesso sotto i drusi, non parleresti in tal modo. Lasciamo da parte le foibe, anche se il raccapriccio, il terrore per quegli orrendi crimini compiuti da assassini, pari soltanto alle più nere SS, non si dileguerà mai completamente dall’animo degli Istriani. Parliamo soltanto di questi ultimi due anni, e ce ne sarebbe da dire! Per farla breve, sappi che in questo periodo abbiamo sofferto le pene dell’inferno e soprattutto siamo stati sottoposti all’arbitrio della polizia politica, che controlla tutti, compreso quello che tu chiamo il partito. Per loro è „nemico del popolo“ chi esprime un’idea soltanto un po’ differente dal credo ufficiale e, quel ch’è peggio, non puoi nemmeno scoreggiare che non lo sappiano, grazie ad una fitta rete di delatori. Sotto il fascismo, per questo, era rose e fiori al confronto d’adesso: in paese avevamo quei cinque, sei spioni, da tutti conosciuti; ora il figlio fa la spia al padre! Non c’è da meravigliarsi, dunque, che la gente onesta se ne vada. Rimarrà soltanto chi è nato granzoporo, essendo incapace di vivere lontano dalla propria tana rocciosa o chi si vergogna d’andare a mangiar nel piatto in cui ha sputato; però anche diversi titini sono già fra gli esuli. Qui non c’è alcuna prospettiva di un buon raccolto: con le prepotenze e le chiacchiere la terra si rifiuta di porgere i propri doni e si tornerà ad essere schiavi degli usurai. Gli esuli, perciò, non fanno il gioco d’alcuno e tanto meno del pubratéine, del nostro fratello slavo ch’è mal ridotto, quanto noi, da questo regime insensato. Per i tuoi comunisti polesani, infine, io la vedo brutta, sapendo quello che ci è capitato  a Rovigno: o diventeranno scaganozzi o saranno spazzati via come foglie secche, da gettar nel letamaio…

Detto questo, il nonno, stanco, tornò a fissare le braci.

Salendo verso il Duomo, Martino ebbe la stessa sensazione opprimente, che lo aveva colto già sul piazzale del Laco: le calli di S. Toman, di Montalbano e della Grisia gli parvero più strette e, per giunta, le ossute case lo fissavano con le occhiaie vuote. Le imposte spalancate, qua e là cadenti, gli sembravanoo tante valve aperte di mussoli morti sulla sabbia melmosa. Sul sagrato fu colto dalla disperazione alla vista della scomparsa del piccolo cimitero antico: le ruspe avevano livellato tutto. S. Caterina in Scoglio, la Bagnola e le due Figarole, la grande e la piccola, s’angosciavano con lui su di un mare cinereo. Livido, per la consapevolezza dell’affannoso avanzar d’Orione, mallevador di viscidi polpi e voraci gronghi, con i tre nocchiuti bastoni di ghiaccio.