Lucio Klobas

Nato nel 1944 a Pozzuolo del Friuli è vissuto in Istria sino al 1951. Profugo in Italia, ha vissuto a  Bergamo operando nel campo editoriale e collaborando con il »Corriere della Sera« e altri giornali. Narratore, drammaturgo, critico letterario, è noto per alcuni racconti e romanzi fra cui “Galleria nel vento” (Torino, Geiger, 1976), “Crudeltà mentale” (Milano, 1976), “Pensiero estremo” (Catania, 1986), “Silenzi collettivi” (Roma, 1988), “Macchinazione celeste” (Milano, Garzanti, 1990), “Orari contrari” (Theoria, 1993), “Giorni contati” (Il Saggiatore ,1994), “Fuori gioco” (Il Mulino, 1997), “Passo felpato” (Greco & Greco, 2002), “Monotrilogia” (Greco & Greco, 2004), “Antichi mestieri” (Flaccovio, 2008), “Anni luce” (Effigie, 2010); tra le raccolte di poesia: “Senza scampo” (Manni, 1999), “Il tempo vola” (Greco & Greco, 2000) e “Relazioni sociali# (Campanotto, 2007).

L’uomo inesistente

(Da:  “Macchinazione celeste” – Garzanti, Milano, 1990)

Attratto morbosamente da vortici discreti, da buchi neri come in una sospensione temporanea ma prolungata, quasi estatica, il nostro eroe attende fiducioso, armato fino ai denti, nelle più profonde screpolature dell’universo, la sua ora di gloria, l’attimo irripetibile della verità suprema, come fosse l’ultimo granello pulsante di un universo in via do estinzione un battito di cuore dentro una minuscola roccia: il suo nemico-inesistente per ora risulta non rintracciabile neppure dopo numerose telefonate concitate, fonogrammi, telegrammi, chiamate a voce col megafono, ossia occupa a suo modo una posizione difensiva invidiabile, potendo con discrezione seguire o ignorare i movimenti avversari, che per ora non ci sono, né ci saranno in seguito, ma è più prudente non dare peso alla cosa, standone alla larga. Sempre.  (……………. )

Poremmo anche ipotizzare che i due fieri avversari (ma potrebbero essere tre, quattro, cique, come si fa a controllarli?) siano sul punto di affrontarsi anonimamente ognuno per  uo conto per gioco o per noia, appartenendo all’eccelsa classe degli eroi insofferenti (e anche isterici) che  ricontrollano il lavoro eseguito dentro e fuori dal mondo con una pedanteria che fa esasperare, riscontrando sempre nuovi difetti, imperfezioni o dimenticanze: sono incontentabili. E anche strazianti. I due avversari introvabili non si cercano nemmeno, non sanno da dove cominciare, non hanno preso appunti, non si ricordano di aver avuto una memoria in passato, non conoscono i luoghi dove si trovano (dovendo pur cominciare da qualche parte per cercarsi), si muovono con difficoltà crescenti lungo i rispettivi grumi di ragionamento, rinunciando però a svilupparli fino alle estreme conseguenze, in tal modo si perdono definitivamente nella polvere cosmica (che in certi punti arriva fino al ginocchio), si spezzano le gambe subendo in cambio un certo dolore insopportabile che li costringe a un immobilismo forzato di sessanta giorni almeno fermi rigidi e orizzontali nello spazio, sperando molto nella ricalcificazione futura delle ossa; spesso però cadono senza farsi nulla, anzi migliorano cadendo lo stato di salute in generale, per cui cadono in continuazione diventando sempre più belli e sani, quasi irresistibili; questi fruttuosi passatempi ancora una volta non vengono notati, perché si pensa che a certe altezze siderali tutto debba essere angoscia  terribile e lacerante disperazione, sentimenti imbarbariti che hanno poco o nulla dell’umano; in altri termini, i due avversari introvabili non muovono un dito per migliorare la loro già insostenibile situazione: non fumano, non bevono, non si stressano, non si attaccano frontalmente con le armi in pugno, non sono due selvaggi depravati assetati di sangue, tutt’al più potrebbero prendersi a schiaffi dopo un breve e concitato alterco, ma non ne approfittano, preferiscono, di comune accordo, cadere vittime innocenti della più totale inazione piuttosto che sopportare ulteriormente gli sberleffi del ridicolo (combattere il ridicolo è un’impresa non meno disperata che provocarlo, a volte è impossibile da portare a termine), decidono di assistere impassibili alla propria dissoluzione sia materiale che spirituale senza batter ciglio.  (…..)

L’uomo-fantasma chiamato impunemente in causa per connivenza col nemico (uno qualsiasi), non smentisce indignato l’accusa ne si difende, si mantiene calmo, sa di avere di fronte un avversario-inesistente, non facile di carattere e asimmetrico rispetto a lui, che però non colpisce alle spalle, per cui si sente tranquillo due volte su dieci, per l’altro e per se, avendo finalmente la situazione in pugno; in realtà, è come se combattesse con gli occhi bendati, le mani legate dietro la schiena, le caviglie strette da catene fissati a robusti alberi, contro ferocissimi cani mastini con denti esagerati trattenuti allo stesso modo: verdetto di parità. Certo, non è legale, né può essere considerato valido un simile combattimento agli effetti delle vigenti leggi sportive, che nella loro vaghezza ammettono solo la fuga preventiva e solitaria dell’avversario di turno per comprovati motivi di famiglia: improvviso malore o totale rovina economica, ma non è il caso nostro. Non quello che stiamo esaminando qui in questo momento.

Dopo di che la sfida cosiddetta mortale fra i due uomini introvabili si smorza lentamente nei velluti gelidi dell’universo, fino a diventare un micidiale e lungo sonno ristoratore, nel corso del quale ognuno litiga come più e vuole, libero persino d’essere scorretto, ma a fin di bene, chiedendo subito scusa per la licenza presa; litiga con garbo forse eccessivo per essere una lite in famiglia, sfiorando a tratti il tocco di classe, l’eleganza pura del gesto, il perfezionismo più lezioso, che non punzecchia, e non dà fastidio, accettato come dono gentile che eleva lo spirito. Nella sconfinata solitudine cosmica, i contendenti possono persino morire innumerevoli volte di seguito come fosse la cosa più ovvia, a meno che uno dei due non sia preso da qualche crisi cardiaca improvvisa (che in genere lascia poche speranze) e chiede il permesso di ritirarsi anzitempo nella propria comoda tomba area in corsa nello spazio come lastra di vetro a velocità sbalorditiva, che nessuna preghiera più raggiungere.

La sfida fra l’uomo-fantasma e l’uomo-inesistente si mantiene nell’ambito di una squisita signorilità, tra un’offerta generosa di aiuto (non specificata) e un’altrettanto generosa risposta di diniego (che s’intuisce appena), tra dolcissime assenze prolungate e timori che tutto finirà prima o poi, sicché i due evanescenti esseri non danno più notizie di sé, rinunciano alla loro doppia esistenza, vagano come spiriti morti nello spazio smisurato che li ha generati, in una fredda posizione orizzontale, morti tra cicli naturali fastosi che si rinnovano spontaneamente: tramonti multipli, stelle che si avvicinano e si allontanano, anni luce, eccetera. A questo punto non è da scartare a priori l’’dea che la loro perdita sia definitiva e debolmente rimpianta.

I fantasmi morti anzitempo non si danno pace apparendo, schiacciati nei muri delle tenebre, all’improvviso per spaventarsi fra di loro, in privato, come in un macabro gioco di specchi e di agguati successivi; soprattutto non accettano l’idea che l’eroismo di cui hanno dato prova sia diventato un riferimento vuoto privo di contenuto vitale; in quanto eroi morti sul lavoro, possono apparire superbi, eccessivi, vigliacchi e invadenti , se non addirittura pericolosi. La morte di un fantasma, benché spiacevole e inspiegabile, è pur sempre accidentale, irrazionale, e quindi un po’ fasulla: intanto non si capisce niente (anche prima non si capiva niente, ma perlomeno era vivo), il morto non c’è, non ci sono tracce che portino a lui o ad altri, nessuna rivendica quella morte strana, non si capisce neppure se è morto uno solo dei contendenti o se sono morti tutti e due: nel primo caso sarebbe morto l’uomo-fantasma giusto, nel secondo il suo fievole antagonista, l’uomo-inesistente, sempre che non ci siano stati altri scambi di persona all’ultimo momento di cui peraltro non si ha notizia né sentore.