E’ nato a Parenzo nel 1910. Nel 1920 si trasferisce a Trieste. Nel secondo dopogeurra fu collaboratore de “La Voce Libera” e dell’”Emancipazione”. Suoi racconti sono stati pubblicati in un’amtologia di narratori curata da Aldo Palazzeschi. Nel 1953 pubbicò “Terra Rossa” (Milano, Martello), il suo più importante romanzo in cui ha rappresentato in toni struggenti il dramma dell’Istria lungo l’arco di quasi un secolo, emblematizzato nelle vicende di tre generazioni di una famiglia istriana e, soprattutto, in quelle della dolorosa e tragica figura di Teresa. Il romanzo, grande epopea dell’Istria austriaca e italiana sino al dramma dell’esodo, è stato ripubblicato nel 1993, dall’IRCI (ed. Italo Svevo) con una prefazione di Diego de Castro. Nella sua opera il dramma dell’esilio offre l’occasione di delineare un profilo della storia istriana dal 1878 al 1947. Il racconto è ritmato sul motivo della fuga cui, per motivi diversi ma puntualmente ricorrenti, sono condannati i protagonisti, e sul tema della finestra, dalla quale Teresa assiste al compiersi della parabola di queste terre

Da “Terra rossa«   (1953, Milano, Martella)

La finestra

 

Sì, perché da Pola tutti si apprestavano alla partenza definitiva in quei dì ch’eran gli ultimi, poiché gli ‘alleati’ avevano ormai deciso di consegnare la città agli jugoslavi. I francesi l’avevano proposto, gli americani avevano nicchiato e gl’inglesi avevano detto di sì. Tanto non era roba loro, e ad essi non doleva darla agli jugoslavi, i quali la reclamavano come cosa propria, malgrado il sopralluogo della commissione che ne aveva accertata l’italianità! Oh, gl’inglesi erano generosi nel regalare la roba degli altri, quando ciò faceva loro comodo! “Parga!” Teresa si ricordava della poesia studiata a scuola da Italo e Redento: “Parga”. Anche là gli inglesi avevano seminato vento, incuranti del giorno in cui inevitabilmente avrebbero raccolto tempesta, come qui a Pola, qui sulla terra rossa!

I Parganioti avevano dissepolto i morti e fatto ardere con le ossa un immenso falò nel cimitero! Pure i polesi avevano dissotterrato i morti, ma se li erano portati via nell’andarsene oltre il mare, e così le spoglie del capitano Sauro, ch’erano state portate a Venezia, dove i fischi e le invettive dei comunisti erano stati il primo saluto della dolce laguna agli esuli istriani, che il Toscana, il piroscafo messo a disposizione dal governo italiano, là sbarcava ogni secondo giorno, facendo la spola oltre l’Adriatico. E i fischi e le invettive dei rinnegati calati dal Monfalconese a Pola, perché attratti dalle delizie loro promesse dal paradiso comunista, salutavano i partenti quando il piroscafo girava davanti all’arsenale abbandonato.

La città moriva giorno per giorno così, dopo la ferita mortale infertale dai ‘signori della politica’ che avevano deciso la sua annessione alla Jugoslavia, assieme a tutta la terra rossa, dopo il disastro di Vergarolla dell’estate precedente, la spiaggia popolata di bagnanti dove, in pieno giorno, mani assassine di certi slavi dell’interno avevano fatto brillare un grandioso deposito di munizioni residuate di guerra, imprudentemente accatastate all’aperto dalle autorità alleate. E centinaia e centinaia di creature, uomini, donne, bambini, erano state falcidiate, lasciando impassibili gli inglesi e gli americani, come impassibili assistevano ora al triste esodo di tutti i polesi e di migliaia di altri istriani riusciti perigliosamente a fuggire dai loro paesi sulla costa per venirsene a Pola ad imbacarsi sul Toscana.

File interminabili di gente davanti agli uffici assistenziali predisposti dal governo italiano, davanti agli uffici che distribuivano le carte necessarie per il viaggio, ed ogni giorno le strade vieppiù silenziose, ogni giorno una casa di più in abbandono, con la porte e le finestre sguarnite di serramenta, perché i parenti usavano d’ogni legname per imballare le loro robe. Ogni giorno viappiù baldanzosi i comunisti calati dal monfalconese, che giravano per le vie della città morente quali sghignazzanti sciacalli in attesa dell’imbandigione.

E ci voleva tutta l’autorità dei poliziotti in uniforme blu per tenerli a bada, almeno sin che le autorità alleate in Pola comandavano, sin che le operazioni di partenza di chiunque volesse partire non fossero terminate. Poi li avrebbero lasciati soli col loro Tito, col loro Stalin, con le loro falci e martelli e bandiere rosse, apportatrici di libertà.

Poco importa se i comunisti ci sputano addosso e ci insolentiscono chiamandoci fascisti, ma ‘di là dobbiamo andare, perché la paura ci sospinge, la paura di provare nuovamente le spaventose giornate del settembre del ’43, le spaventose giornate del maggio triestino del 45’, durante le quali a centinaia i triestini sono stati prelevati dalle case e buttati nelle foibe, durante le quali i ‘drusi’ hanno sparato senza misericordia raffiche di mitragliatrice contro chiunque osava agire una bandiera italiana; noi che siamo ‘fascisti’, perché solo l’italiano parliamo, i polesi che son ‘fascisti’ perché hanno sbandierato il tricolore sotto i musi dei signori della commissione e gridato Italia! Italia! Per le strade.