Nel 1932 pubblicò la sua prima raccolta di racconti “I nostri simili”, che suscita l’interesse di Eugenio Montale (che ne fa una recensione nella rivista letteraria Pegaso), e l’attenzione di altri grandi autori come Vittorini, Gadda, Malaparte. Nel 1937, grazie all’interessamento dell’editore Treves, pubblica »La rosa rossa« romanzo scritto alcuni anni prima e che verrà successivamente rielaborato nel 1947 e 1960. Venne incoraggiato da Umberto Saba. Vinse il premio Bagutta nel 1948 con il romanzo “L’onda dell’incociatore”. Fra il 1945 e il 1949 lo scrittore dirige Radio Venezia Giulia.
Negli anni cinquanta e sessanta si dedica anche alla saggistica e al giornalismo, che si traducono nelle opere “Primavera a Trieste” (1951), »Sotto il cielo di Russia» (1963), »Luce di Trieste« (1964). Tra le sue opere più note “La rosa rossa (1935), “ Il cavallo Tripoli” (1956), “L’amore di lupo” (1955), “Amor militare” (1956),“ La calda vita” (1958), “I giochi di Norma” ( 1964), “Le redini bianche “(1967) “ La corsa di Falco” (1969), “ Gli anni ciechi” (1971) e le raccolte di poesie “Racconto d’amore”( 1965) e “Al sole e al vento” (1970).. Dalle opere dello scrittore sono stati tratti tre pregevoli lungometraggi: »Les regates de San Francisco« (1960) diretto da Claude Autant – Lara, che si ispira liberamente a »L’onda dell’incrociatore» del 1947 , »La calda vita« (1964) di Florestano Vancini, dal romanzo omonimo pubblicato nel 1958, e »La rossa rossa« (1973), tratto dal romanzo omonimo e diretto da Franco Giraldi. E’ morto a Venezia nel 1965.
Da “Primavera a Trieste”
(1951, riedizione Mondadori, 2017, con uno scritto di Claudio Magris e introduzione di Elvio Guagnini)
L’autore si sofferma sulle vicende di Trieste negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. La città si trova a vivere un dramma inedito, precursore delle tensioni della Guerra fredda. Per quaranta giorni – dal primo maggio al 12 giugno – le truppe titine occupano la città, portando nuovi spargimenti di sangue e nuove morti. «Tragico, asciutto diario di un’intera collettività», come l’ha definito Claudio Magris, “Primavera a Trieste” racconta «una stravolta realtà in cui lo scrittore e con lui i suoi concittadini e il suo mondo sono e si sentono minacciati, indifese pedine di un gioco di proporzione mondiale in cui torti antichi vengono ripagati con alti interessi, la rivendicazione nazionale e sociale si mescola e si confonde con una contrapposizione internazionale di potenze che si contendono il mondo e – in questo gioco guardingo, feroce e ipocrita – passano disinvoltamente sui corpi e sulle sofferenze dei piccoli mondi, come in questo caso Trieste.
Un altro sole (da “Primavera a Trieste”)
Mentre il sottufficiale esamina i foglietti, io che non ho alcuna carta da mostrargli scivolo dietro la
camionetta, apro la tenda e balzo su. Nella semioscurità, tra masse informi e oggetti d’ogni genere –
una catinella, un asciugamani, una rete come amaca, e ferri, arnesi alla rinfusa – riesco a distinguere
i miei due sacchi e le valigie degli altri; e il pensiero mi corre a papà.
Sto cercando una posizione possibile tra la rete e la catinella, quando gli altri vengono su; scompare
il sole e l’azzurro (la tenda è stata rinchiusa e fissata dal di fuori); e la strada, prima lieve e poi con
uno sfriggolìo sempre più rapido, comincia a scorrere sotto di noi.
Non so dire quale commozione, alta, quasi esaltata, mi afferri e mi sconvolga. È la nostra terra, la
terra dei nostri padri che se ne va, sotto le ruote inglesi che ci portano via. Immagino Trieste bianca
laggiù e mi riappare l’Istria come l’ho avuta sotto gli occhi sin pochi istanti or sono; ma non le
rivedo più, non posso salutarle con lo sguardo. Non mi è mai avvenuto di ascoltare così, tutto teso,
la corsa di una macchina: lo scorrere senza sussulti delle gomme sulla strada. Soltanto in esso – in
questo suono stretto lineare continuato – ho l’ultima sensazione, viva, della mia terra: quasi un
estremo fuggente contatto.
Qualche attimo quasi di oscuramento, con l’emozione alla gola; e poi un premere d’inquietudini, di
pensieri, di domande.
Vado verso il Veneto – posso – come nonno Gambini nel 1866, come zio Pio nel 1914; e come
avrebbe dovuta fare l’altro mio nonno prima di essere arrestato per alto tradimento dall’Austria.
Addio Trieste; il sole che penetra qua e là nella tenda, a occhielli, a righe, splende anche sulle tue
pietre laggiù ma non rischiara gli animi.
Domande e domande mi assalgono e mi turbano, ora che lascio tutto dietro di me e comincio a
ripensare alla nostra vicenda con un primo distacco.
Abbiamo fatto – nella situazione più che tragica in cui ci siamo trovati – tutto quello che si poteva?
Oppure bisognava fare di più, o agire diversamente?
Ma non accadeva tutto, ormai, troppo al di sopra di noi, antifascisti o fascisti?
Domande e domande, che è quasi inutile farsi; ma le abbiamo in noi, anche se taciute, nello stesso
cruccio che ci incalza.
E altre ancora.
Potranno gli istriani resistere? O si avvicina per essi, qualora non si adeguino alle nuove situazioni,
una vicenda uguale a quella dei greci dell’Asia Minore, che dopo migliaia d’ani sono stati buttati in
mare alla fine dell’altra guerra, e sotto gli occhi tranquilli delle potenze europee?
Ci risponderà l’avvenire. Oggi che l’Istria è ancor tutta viva nelle sue città, non si riesce neanche a
immaginare che il suo popolo (il quale aduna in certa sua sobrietà e durezza, magari arguta, caratteri
così originali, di mediterranei nordici) possa andare disperso e scomparire. E invece è forse
questione di un’assai breve vicenda, e della gente latina e italiana dell’Istria non rimarrà che il
ricordo.
Tutt’a un tratto la camionetta rallenta. Nella semioscurità, i profili dei miei compagni s’interrogano,
inquieti. Se c’è un posto di blocco o una pattuglia titina, l’autista avrà l’accortezza di passar dritto
via? Se commette l’errore di fermare, gli jugoslavi ci scoprono; ed io non ho alcuna carta da mostrar
loro. Rallentiamo sempre più. Un sussulto; siamo fermi. Col fiato in gola, sto ad ascoltare. Ma non odo, per qualche istante, che i battiti del cuore.