Nato a Pisino nel 1910, figlio del rovignese Giovanni Quarantotto e della capodistriana Fides Histriae Gambini, frequentò il Ginnasio “Carlo Combi “a Capodistria. A Torino si laurea in giurisprudenza, dove inizia a collaborare con il quotidiano La Stampa.

Nel 1932 pubblicò la sua prima raccolta di racconti “I nostri simili”, che suscita l’interesse di Eugenio Montale (che ne fa una recensione nella rivista letteraria Pegaso), e l’attenzione di altri grandi autori come Vittorini, Gadda, Malaparte.  Nel 1937, grazie all’interessamento dell’editore Treves, pubblica »La rosa rossa« romanzo scritto alcuni anni prima e che verrà successivamente rielaborato nel 1947 e 1960.  Venne incoraggiato da Umberto Saba. Vinse il premio Bagutta nel 1948 con il romanzo “L’onda dell’incociatore”. Fra il 1945 e il 1949 lo scrittore dirige Radio Venezia Giulia.

Negli anni cinquanta e sessanta si dedica anche alla saggistica e al giornalismo, che si traducono nelle opere “Primavera a Trieste” (1951), »Sotto il cielo di Russia» (1963), »Luce di Trieste« (1964).  Tra le sue opere più note “La rosa rossa (1935), “ Il cavallo Tripoli” (1956), “L’amore di lupo” (1955), “Amor militare” (1956),“ La calda vita” (1958), “I giochi di Norma” ( 1964), “Le redini bianche “(1967) “ La corsa di Falco” (1969), “ Gli anni ciechi” (1971) e le raccolte di poesie “Racconto d’amore”( 1965) e “Al sole e al vento” (1970).. Dalle opere dello scrittore sono stati tratti tre pregevoli lungometraggi: »Les regates de San Francisco« (1960)  diretto da  Claude Autant – Lara, che si ispira liberamente a »L’onda dell’incrociatore» del 1947 , »La calda vita« (1964) di Florestano Vancini, dal romanzo omonimo pubblicato nel 1958, e »La rossa rossa« (1973), tratto dal romanzo omonimo e diretto da Franco Giraldi. E’ morto a Venezia nel 1965.

Da “Primavera a Trieste”

 

(1951, riedizione Mondadori, 2017, con uno scritto di Claudio Magris e introduzione di Elvio Guagnini) 

 

L’autore si sofferma sulle vicende di Trieste negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. La città si trova a vivere un dramma inedito, precursore delle tensioni della Guerra fredda. Per quaranta giorni – dal primo maggio al 12 giugno – le truppe titine occupano la città, portando nuovi spargimenti di sangue e nuove morti. «Tragico, asciutto diario di un’intera collettività», come l’ha definito Claudio Magris, “Primavera a Trieste” racconta «una stravolta realtà in cui lo scrittore e con lui i suoi concittadini e il suo mondo sono e si sentono minacciati, indifese pedine di un gioco di proporzione mondiale in cui torti antichi vengono ripagati con alti interessi, la rivendicazione nazionale e sociale si mescola e si confonde con una contrapposizione internazionale di potenze che si contendono il mondo e – in questo gioco guardingo, feroce e ipocrita – passano disinvoltamente sui corpi e sulle sofferenze dei piccoli mondi, come in questo caso Trieste.

 

Un altro sole (da “Primavera a Trieste”)

 

Mentre il sottufficiale esamina i foglietti, io che non ho alcuna carta da mostrargli scivolo dietro la

camionetta, apro la tenda e balzo su. Nella semioscurità, tra masse informi e oggetti d’ogni genere –

una catinella, un asciugamani, una rete come amaca, e ferri, arnesi alla rinfusa – riesco a distinguere

i miei due sacchi e le valigie degli altri; e il pensiero mi corre a papà.

Sto cercando una posizione possibile tra la rete e la catinella, quando gli altri vengono su; scompare

il sole e l’azzurro (la tenda è stata rinchiusa e fissata dal di fuori); e la strada, prima lieve e poi con

uno sfriggolìo sempre più rapido, comincia a scorrere sotto di noi.

Non so dire quale commozione, alta, quasi esaltata, mi afferri e mi sconvolga. È la nostra terra, la

terra dei nostri padri che se ne va, sotto le ruote inglesi che ci portano via. Immagino Trieste bianca

laggiù e mi riappare l’Istria come l’ho avuta sotto gli occhi sin pochi istanti or sono; ma non le

rivedo più, non posso salutarle con lo sguardo. Non mi è mai avvenuto di ascoltare così, tutto teso,

la corsa di una macchina: lo scorrere senza sussulti delle gomme sulla strada. Soltanto in esso – in

questo suono stretto lineare continuato – ho l’ultima sensazione, viva, della mia terra: quasi un

estremo fuggente contatto.

Qualche attimo quasi di oscuramento, con l’emozione alla gola; e poi un premere d’inquietudini, di

pensieri, di domande.

Vado verso il Veneto – posso – come nonno Gambini nel 1866, come zio Pio nel 1914; e come

avrebbe dovuta fare l’altro mio nonno prima di essere arrestato per alto tradimento dall’Austria.

Addio Trieste; il sole che penetra qua e là nella tenda, a occhielli, a righe, splende anche sulle tue

pietre laggiù ma non rischiara gli animi.

Domande e domande mi assalgono e mi turbano, ora che lascio tutto dietro di me e comincio a

ripensare alla nostra vicenda con un primo distacco.

Abbiamo fatto – nella situazione più che tragica in cui ci siamo trovati – tutto quello che si poteva?

Oppure bisognava fare di più, o agire diversamente?

Ma non accadeva tutto, ormai, troppo al di sopra di noi, antifascisti o fascisti?

Domande e domande, che è quasi inutile farsi; ma le abbiamo in noi, anche se taciute, nello stesso

cruccio che ci incalza.

E altre ancora.

Potranno gli istriani resistere? O si avvicina per essi, qualora non si adeguino alle nuove situazioni,

una vicenda uguale a quella dei greci dell’Asia Minore, che dopo migliaia d’ani sono stati buttati in

mare alla fine dell’altra guerra, e sotto gli occhi tranquilli delle potenze europee?

Ci risponderà l’avvenire. Oggi che l’Istria è ancor tutta viva nelle sue città, non si riesce neanche a

immaginare che il suo popolo (il quale aduna in certa sua sobrietà e durezza, magari arguta, caratteri

così originali, di mediterranei nordici) possa andare disperso e scomparire. E invece è forse

questione di un’assai breve vicenda, e della gente latina e italiana dell’Istria non rimarrà che il

ricordo.

Tutt’a un tratto la camionetta rallenta. Nella semioscurità, i profili dei miei compagni s’interrogano,

inquieti. Se c’è un posto di blocco o una pattuglia titina, l’autista avrà l’accortezza di passar dritto

via? Se commette l’errore di fermare, gli jugoslavi ci scoprono; ed io non ho alcuna carta da mostrar

loro. Rallentiamo sempre più. Un sussulto; siamo fermi.  Col fiato in gola, sto ad ascoltare. Ma non odo, per qualche istante, che i battiti del cuore.