In un’antologia dedicata alla letteratura dell’esodo, può apparire strano leggere il nome di Pier Paolo Pasolini. Le sue opere, la sua fervida immaginazione in grado di precorrere i tempi hanno offerto una particolare visione dell’Istria e delle complesse, dolorose tappe del suo cammino storico. La percezione di un’”Italia non italiana”, lo struggimento e il peso di sentirsi cittadini di una nazione perduta, di essere “altrove”, nel luogo ove si è vissuta una vita antichissima e profonda, affiorano nei passi tratti dal romanzo “Caos”.  (Bologna – Casarsa della Delizia 1922 – Roma 1975), scrittore, poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore e regista cinematografico, Pasolini è uno dei più grandi autori e intellettuali italiani del Novecento italiano. Fra le sue principali opere di poesia: “Poesie a Casarsa” (1942), “La meglio gioventù” (1954), “La religione del mio tempo” (1961) e “Le ceneri di Gramsci” (1977). Per la narrativa: “Ragazzi di vita” (1955), “Una vita violenta” (1959), “Il sogno di una cosa” (1962), “Teorema” (1968), “Il caos” (1975- 1979), “Petrolio” (postumo, 1991).

L’Italia non italiana

Dopo Trieste comincia in effetti qualcosa di “diverso”. Io, almeno, in Italia non ho visto mai niente di simile. È vero: potrebbe trattarsi di una delle tante forme diverse in cui consiste l’Italia. Ma sul fatto, comunque, che qui non sia Italia non c’è nulla da ridire. Per me particolarmente (che da bambino ho vissuto a Idria) questa diversità, che coincide, nel profondo, con qualcosa di familiare, è quasi un trauma. Come nei sogni tristi con stupendi paesaggi. Non dirò che il paesaggio, in Istria, sia oggettivamente stupendo; però è originale, unitario, e splende su di esso – sui suoi ruggini dolorosi – un solicello indicibile. Insieme all’antica familiarità (quella dimenticata aria respirata da bambino, a nove anni) c’è in questi luoghi anche qualcosa di comune a tutti i luoghi rimasti indietro, in un altro tipo di civiltà, che sopravvivono qua e là per l’Italia e per il mondo. Vecchi contadini, coi loro figli piccoli: case sperdute nei crinali soleggiati, dove immalinconisce la domenica: un certo odore di focolare, o di aria gelida. Con questi antichi aspetti di vita, sopravvivono, ad essi strettamente incatenati, antichi sentimenti. Che si avvertono nell’aria. Così, con questi gesti, questo ritmo, questi sentimenti, l’uomo è vissuto; e si è accontentato di vivere. Per tanti secoli. Qui, in questa terra, quei secoli sono ancora il presente. La mia infanzia e la mia esperienza di altri luoghi simili sopravvissuti, mi stringono il cuore, sinistramente e festosamente. (…)

Fasana è un dolce paesetto veneto, coi suoi vicoli sul mare; i selciati sconnessi e grigi, i piccoli porticati, la gente rada e triste che parla un veneto bellissimo (hanno dimenticato l’italiano, e per loro ormai l’italiano è il dialetto). Davanti a Fasana, nel cielo fin troppo dolce e azzurro, si stende l’isola di Brioni. C’è Tito. La gente ne parla con un tono spento e allusivo. Qui, non c’è dubbio, non siamo altrove: questo è un luogo tipico dell’Italia. Ora io mi chiedo: se fossi di Fasana, o di Pola, sentirei la nostalgia dell’Italia? Sentirei, come in un sogno, il bisogno di sentirmi cittadino di una nazione perduta e che ha dato per sempre i suoi caratteri al mio paese? Forse, se fossi un uomo semplice, sentirei questa nostalgia e questo bisogno. Se fossi invece quello che sono – cioè un uomo complicato – penso che troverei stupenda questa Italia non italiana: costa azzurra e tenera lungo un “entroterra” diverso. “Nazione” e “cultura” sono due nozioni che devono disgiungersi, anche se una secolare abitudine le mescola dentro di noi. Perché questo peso e questa tristezza su Fasana? Perché questo dolcissimo sole riesce quasi opprimente come in un sogno inesprimibilmente angoscioso? Non c’è ragione di sentirsi, in quanto abitanti di Fasana, in uno stato di dolore storico, sia pur sordo e abitudinario. La storia non coincide con quella di una nazione. La storia è storia di culture… Ma chi sto convincendo? Forse anche, in parte, me stesso, perché anch’io sono, in parte, in una parte profonda, un abitante di Fasana, che qui ha avuto nove anni, e ha fatto esperienza di un’altra vita, di un’antica vita.

(Da “Il caos”, Roma, 1979, Editori Riuniti)