Eravamo una famiglia molto unita, ognuno aveva la proprie stanze, ma a pranzo eravamo tutti attorno ad un tavolo. […] Finita la guerra, stavamo a Capodistria, eravamo in dieci, la mia famiglia, i miei nonni, lo zio non sposato, c’era l’altro zio, sposato con due bambini,  tutti quanti nella casa che si chiama ancora adesso di Dotto… era una casa bellissima, ma ad un certo punto la dovemmo abbandonare. Noi abitavamo nella parte meno nobile di questo edificio. Quando ci dissero che là dovevano fare altro, la mia famiglia trovò quasi subito [varie sistemazioni che separarono i nonni dai genitori e dagli zii] Adesso le spiego perché avevano bisogno di questo edificio: per mettere due persone, madre e figlia che avevano fatto le partigiane. Locali, slovene, di queste parti, ma di fuori Capodistria.  Noi abbiamo dovuto lasciare l’appartamento, dieci persone per lasciarlo a due. Loro si presero tutti questi bei ambienti, compreso l’orto.

Gloria Nemec: Qual’ era la logica ?

Amina Dudine: La logica era: “qui comando io e questa è casa mia”. Forse si fecero la voglia di venire in quella casa, perché loro abitavano fuori in quel periodo, dalle  parti di Semedella, così sono venute in città. […]C’erano ancora gli italiani, ognuno stava a casa sua, non c’erano ancora spazi vuoti, c’era il fatto di accogliere – è un mio parere – quanti più sloveni …sono venuti fuori tanti libri, tanti scritti anche da parte dei sloveni e anche dei croati, che avevano il compito di slavizzare questa zona, portando tanta più gente possibile. Infatti una proprio pochi giorni fa mi ha detto che non stia a pensare che loro sono venuti per loro desiderio, erano stati “obbligati” a venire qua. 

[Amina Dudine – Gloria Nemec]