Nel ‘45, a guerra finita, abbiamo saputo cos’era successo agli ex fascisti o ai presunti tali. Nel ’46 il vescovo di Trieste è venuto a fare la cresima ed è stato picchiato brutalmente e mandato via. Nel ’48 c’è stato il processo al papà della Vittorina Drioli, con un gruppo di persone. Condannati per aver fatto niente. Hanno cospirato, ma cospirare non vuol dire niente, insomma. Comunque condannati a pene pesantissime.[…] Era un gruppo, ma non era terroristico. Era un gruppo che pensava di fare qualcosa, ma tra il pensare e il fare… era solo un gruppo che pensava a come si potesse fare qualcosa. Sono stati condannati più per il pensiero che per le azioni, insomma, anche perché di azioni non ne hanno fatte. E questa era la pesantezza. Poi nel ’50 ci sono state le elezioni fasulle risoltesi con pestaggi e botte a non finire. Nel ’52 noi abbiamo avuto la fuga di tutti i professori che ci hanno lasciati soli… adesso parlo a livello di studenti. Cioè, tutta una serie di cose che creavano…Tenga presente che in piazza, non so se sa anche di altri paesi, c’era un grandissimo altoparlante, dove ogni sera, dopo aver suonato l’«Inno dei lavoratori» e «Bandiera rossa», c’era uno che raccontava: «Ieri Pinco Pallino è andato a Trieste a prendersi i soldi del Cln…».[…] Era la paura. La paura del prossimo. Le ho detto che noi eravamo in casa, eravamo tre realtà, un inquilino, noi e mio zio, su tre piani diversi, ma se avevamo da parlare di qualcosa di negativo in casa parlavamo piano, perché non sapevamo se lo zio stesso o quello di sopra ascoltava o riferiva.  Poi c’erano altre forme, diciamo, di recepimento di notizie che era quello di dire: «Guarda, tu devi riferire tutto quello che succede là nei dintorni». Perdevano il posto [se non lo facevano].  Era lo stesso sistema che usavano nei paesi dell’est, il portinaio doveva sapere chi andava e veniva nelle case, no? Ecco, allora non era pagato, ma perdeva il posto di portinaio se non riferiva. Qualche furbo raccontava loro sempiàde, ma i deboli raccontavano la verità: «Ho sentito che ieri quello è andato… ha detto… ha fatto…». Tutte queste cose arrivavano, poi loro facevano una sintesi e quelle più pesanti le davano a questa famosa Radio piria. Ed era un mezzo di pressione non indifferente. Questo è esploso nel ’53 e fino all’ottobre del ’54 con manifestazioni  che venivano fatte perché c’erano le truppe al confine. Quello era proprio il momento dell’acme dello scontro no? Là c’era la paura della guerra. […]. Questa era la forma di pressione più violenta, diciamo, perché passavano con torce, con urli: «Morte al fascismo!», «Morte agli italiani!», «Vi metteremo davanti ai carri armati!». Erano più che altro slogan, però, ogni tanto, andavano dentro in qualche casa, spaccavano tutto e quindi la paura era: oggi a lei, domani a me. […] Nel ’53  mio papà ha cominciato a dire a mia mamma: «Sa, bisogna che ‘l picio lo salvemo…». El picio sarei stato io: «Bisogna che lo salviamo, bisogna pensare a come fare, come andar via», queste cose qua. Ma era nella prospettiva della paura, non nella prospettiva economica.  Lui diceva: «Noi siamo vecchi, cosa vuoi, ormai… ma i figli…». E allora… mia sorella era andata via, il problema per loro ero io. Perché facevano le dimostrazioni di notte, dicevano: «I vostri vi spareranno al confine, perché noi vi metteremo davanti, legati ai carri armati». Queste frasi erano normali. Negli ultimi tempi, le farà da ridere, ma era così: noi andavamo a dormire… in campagna si aveva…  le cosiddette manère, come asce,e un affare che serviva per fare dei buchi sulla terra quando si innestavano le viti. Si immagini un ferro alto così, con un manico, appuntito, tipo una spada… Ogni sera mio papà mi diceva: «Te ga messo fora le robe?». «Sì». Nell’ingresso c’erano due manère  e questo affare qua. Se venivano a rompere le scatole almeno qualcuno di loro ci avrebbe lasciato le penne.

[Emilio Felluga – Gloria Nemec]