Intervista rilasciata a Giovanni Stelli il 19 aprile 2006 nell’abitazione di La Spezia dell’intervistato e pubblicata su Fiume. Rivista di studi adriatici, n. 15, gennaio-giugno 2007. L’audiocassetta dell’intervista ed il testo sono conservati presso l’AMF, fondo Fonti orali.

Giuseppe Sincich è nato a Pécs (Ungheria) il 10 giugno 1919 da padre fiumano e madre ungherese. Il padre, Giuseppe, fu deputato alla Costituente fiumana per il Partito Autonomo di Zanella e la sua vicenda successiva è ampiamente ricordata nell’intervista che segue. Esule in Italia dal 1946, Giuseppe jr. ha continuato la sua attività professionale di medico ed è stato primario all’ospedale di La Spezia, città dove attualmente risiede, partecipando altresì attivamente all’associazionismo dell’esodo nel Libero Comune di Fiume in esilio. Il 10 febbraio 2007, in occasione della Giornata del Ricordo, il Presidente della Repubblica gli ha consegnato una medaglia e un diploma in memoria del padre con la seguente motivazione: “antifascista, esponente dell’autonomismo fiumano fu prelevato dalla sua abitazione di Fiume dalla polizia segreta jugoslava (Ozna) il 3 maggio 1945 e passato per le armi, probabilmente il giorno stesso”.

A proposito di tuo padre, benché autonomista, in un primo momento fu anche lui favorevole all’annessione all’Italia?

Sotto l’Ungheria come tanti liceali, anche se aveva frequentato il Ginnasio ungherese, mio padre era filoitaliano, ma ciò non gli impedì di fare il proprio dovere di cittadino come allievo ufficiale della Honved a Pécs, dove conobbe mia madre di nobile famiglia magiara, moglie e madre esemplare che alla mia tarda età mi manca moltissimo. Anche suo fratello minore, il capitano marittimo Francesco, purtroppo deceduto molto giovane, fece il proprio dovere di cittadino combattendo con la Honved sui fronti della Bucovina e della Galizia, per poi far parte dei Legionari di Ronchi, come risulta dall’elenco ufficiale nel Comune di Ronchi riportato anche nella pubblicazione di Ballarini. Questo dualismo di sentimenti, cioè il senso del dovere e l’amore per un’altra Patria, ha caratterizzato molti fiumani rendendoli così diversi e più sensibili di altri. Solo una minoranza preferì l’inter- namento, evitando così il servizio militare. Penso che tale “dualismo” si possa estendere a gran parte delle popolazioni giuliane: “rigore” civile ed amor di Patria.

Nel Partito Autonomo di Zanella che funzioni aveva tuo padre?

Non sono in grado di dirlo; comunque anche se giovane, era deputato nella Costituente. Ha sempre mantenuto stretti legami di amicizia e di solidarietà con i colleghi ed i simpatizzanti. Talvolta ho visto a casa nostra gli amici Miro Milossevich, Ignazio Milcenich, la cui figlia Ardea divenne la sua segretaria fino alla fine. Ricordo la cena di saluto offerta agli amici Mensa M. e Giorgio Dobrilla che partivano per il Congo Belga al fine di rappresentare la società Italo-Africana con sede a Fiume in Piazza Dante, nella cosiddetta Casa Rotonda, dove allora aveva l’ufficio anche mio padre.

Tuo padre aveva rapporti col dott. Mario Blasich?

Certo, Blasich era amico di famiglia e nostro medico. Nel periodo in cui era invalido, a causa di una artrite reumatoide e aveva difficoltà ad esercitare la professione, lo aiutò anche finanziariamente.

E con Nevio Skull?

Era amico di tutta la famiglia Skull. Il dott. Skull era medico specialista, ma in seguito dovette lasciare la professione per dirigere l’azienda paterna, e durante l’occupazione tedesca assunse tanta gente, compresi dei partigiani per proteggerli da eventuali deportazioni. Molti erano autonomisti.

Parliamo dell’esilio di Portorè. Quando la tua famiglia fugge a Portoré? Subito dopo il colpo di Stato del 3 marzo 1922 che segna la fine del governo Zanella?

Papà va per conto suo e poi io, che ero piccolo, e mia mamma prendiamo di notte una barca a motore, che si chiamava “Saskia”; avevo tre anni, ma ricordo tutto, guardavo la luna, guardavo la scia di notte che faceva la barca per andare a Portorè. Ho ancora l’impressione, in questo momento, di questa scia che faceva la barca e poi l’incontro di mia madre col papà che non stava bene, aveva mal di gola e lo curava il dottor Dalma, che era anche lui autonomista.

Facciamo un passo indietro. In una tua memoria che hai inviato alla nostra Società racconti un episodio avvenuto prima del colpo di Stato del 3 marzo 1922 e scrivi: “Prima dell’esilio una squadraccia fascista si era introdotta nella nostra abitazione di via Angheben mettendola a soqquadro dopo aver puntato una pistola sul sottoscritto di neanche tre anni che riposava in braccio al padre disteso sul divano”. Puoi fornire altri particolari sull’episodio?

Avevo meno di tre anni, mia sorella non era ancora nata (nasce il 7 febbraio 1923), ma mi ricordo tutto. È entrata una squadraccia di fascisti, inveendo contro gli zanelliani, contro mio padre, io ero in braccio al papà disteso sul divano ed uno ha puntato la pistola contro di me. Ci hanno letteralmente buttato fuori dall’appartamento, che era situato in via Angheben nella cosiddetta Casa Rossa, che credo fosse di proprietà della Cassa di Risparmio. Anche se ero molto piccolo, mi ricordo come fosse ora. Ci siamo rifugiati in “Monte”, com’era chiamata una zona alta del rione Belvedere, da mia zia Francesca, sorella del papà che era sposata con il rag. Ernesto Cante, vedovo con due figli, Romeo ed Inci, che la matrigna amava come fossero suoi figli ed io li consideravo dei veri cugini. La Inci, maritata Lenaz, veniva spesso a casa nostra in Belvedere con i suoi due bambini e mia mamma era molto contenta, perché poteva parlare in ungherese che la Inci conosceva perfettamente.

Un documento scritto di pugno da tuo padre, documento che mi hai fornito per l’Archivio Museo storico di Fiume a Roma e che reca la data generica del 1922-1923, riporta le firme di alcuni autonomisti dissidenti, che si erano messi contro Zanella: “Peteani Leone, Sincich Giuseppe, Milcenich Ignazio, dott. Dalma Giovanni, prof. Sablich Geza e altri” […]. Come hanno poi agito questi dissidenti?

Sono tornati a Fiume, ma non si sono mai piegati al fascismo.

(omissis..)

Tuo padre fu ripetutamente incarcerato …

Incarcerato dai fascisti come sovversivo: in occasione di manifestazioni, lo incarceravano preventivamente. Il funzionario che dirigeva l’Ovra, il commissario De Michele, per conoscere l’attività di mio padre aveva cercato di mettersi in affari con lui e visto che non vi era niente di illegittimo, non ebbe il coraggio di riferire ciò a Roma, facendo così mantenere le persecuzioni a mio padre, basate su una denuncia anonima, che lo accusava di fare la spia in favore della Jugoslavia. Tutto questo è contenuto nel fascicolo della questura che recuperammo dopo l’8 settembre 1943. Il fascicolo l’abbiamo salvato nascondendolo nella intercapedine tra il rivestimento in legno che circondava tutta la sala da pranzo della nostra villa e dovrebbe essere ancora là. Se vado a Fiume tenterò di recuperarlo. Leggendo il contenuto del fascicolo, mio padre, carattere leale e sincero, rimase particolarmente dispiaciuto dell’accusa anonima; vi era anche scritto in un altro foglio “famigerato Sincich visto a Belgrado”, città nella quale non era mai stato. Solo allora egli comprese, ma era ormai tardi, che era stato perseguitato in conseguenza della falsa denuncia anonima più che per il suo “zanellanesimo”.

(omissis..)

Nella tua memoria a proposito della nota riunione in casa Blasich nel 1944 tra autonomisti e partigiani jugoslavi, scrivi che erano presenti, oltre a tuo padre, Nevio Skull e Oskar Piškulić e “se ben ricordo, il dott. Smodlaka in rappresentanza del ministero degli esteri jugoslavo; è nota la risposta di mio padre: «voi seguite il vostro destino che noi seguiremo il nostro», come sono note le parole di Piškulić: «qui scorrerà del sangue»”. Questo ti è stato detto da tuo padre, è una testimonianza di tuo padre?

Sì.

E continui: “tutti gli autonomisti presenti alla riunione furono uccisi, tranne Peteani”; perché?

Data la sua esperienza ed il prestigio personale nel partito, era stato deciso di inviare mio padre a raggiungere oltre le linee gli alleati. Quando egli me lo disse, e che avrei dovuto accompagnarlo per giunta, ero entusiasta della missione, ma subito egli riprese preoccupato: “se uno dei capi va via, che cosa diranno i miei seguaci?” Pertanto venne inviato l’ing. Leone Peteani assieme al figlio Luigi. Essi, oltrepassata Trieste, abbastanza avventurosamente raggiunsero Venezia, ove li colse il 25 aprile del 1945. Tramite il CLN vennero autorizzati a proseguire il viaggio fermandosi a Bologna prima di raggiungere Roma. A Roma Peteani si prodigò per la causa di Fiume. È noto un suo memorandum. Purtroppo a Fiume avveniva la mattanza e così l’ingegnere si è potuto salvare, ma non ha mai potuto rivedere la propria città.

(omissis)

Tentiamo di ricostruire con i tuoi ricordi il tragico assassinio di tuo padre avvenuto il 3 maggio, data dell’occupazione di Fiume da parte dei partigiani titini …

Io ero di guardia all’ospedale e parlai l’ultima volta con mio padre il 2 maggio 1945, prima di andare a prendere servizio in ospedale dove stavo facendo dei massacranti turni di guardia. (…)  . Come medico di guardia, non potevo lasciare l’ospedale fino a che non arrivava il sostituto e il sostituto non arrivava mai, venivo punito se lasciavo l’ospedale senza il medico di guardia. Per questo motivo non potevo sapere chi avesse presenziato alla barbara esecuzione di mio padre. La signora Libera Cobelli, che vive a Trieste, molti anni dopo mi disse che lo aveva visto con le mani legate con dello spago e le tasche rivoltate come se fosse un ladro, spinto in malo modo dagli sgherri che lo portavano al martirio. Piškulić comandava questi sgherri. Tutti gli operai del cantiere erano fuori e gridavano “Mazèlo! Mazèlo!”. Gli operai neanche sapevano chi era quello che portavano al martirio e perché. Il cantiere era di fronte alla fabbrica di prodotti chimici. E poi c’erano altri presenti quando l’hanno fucilato, come un certo Berghini (Berghich), un conoscente che lo aveva seguito, nemici e curiosi. La signora Cobelli mi disse anche che erano presenti parecchi dipendenti della ditta Rivolta, della quale anche lei faceva parte. Nonostante i miei ripetuti inviti, intimorita da non so che cosa, non ha voluto testimoniare al processo di Roma. Stessa cosa fece la signora Udovich che viveva a Stresa, ora defunta, che aveva visto per l’ultima volta nel carcere, ancora vive, Gigliola Sennis e la madre. Da notarsi che il padre di Lola era un noto antifascista.

Ma chi è venuto a prendere tuo padre?

Piškulić in persona è venuto a casa, davanti a mia sorella ha fatto un processo sommario, lui con la moglie, poi lo hanno portato via, mio padre ha salutato la mamma.

Nella tua memoria riferisci che ti sei rivolto a Oskar Piškulić per chiedere di tuo padre, di dove l’avessero portato …

Mi rispose che l’avevano lasciato nella fabbrica di prodotti chimici. È stato ammazzato lì, ma Piškulić non mi aveva detto che era stato ammazzato. Nessuno mi aveva detto che era morto. 

Quindi Piškulić non ti disse quello che era accaduto?

No, ma visto il suo imbarazzo preoccupato, andai da una della massime autorità cittadine di quel momento, ovvero l’ufficiale partigiano Carlo Manià, che mi disse con boria che, essendo un nemico del popolo, andava eliminato. Ebbi così la triste notizia e, saputa l’esatta località, andai all’ufficio sanitario del comune per farmi dare i mezzi per poter recuperare il cadavere di mio padre. In quel frangente l’ufficio sanitario era diretto dalla partigiana Gioia La Neve, che conoscevo benissimo, figliastra del dott. Scrobogna, una volta fervente zanelliano, divenuto filotitino. La Neve, nonostante fosse iscritta solo al primo anno di medicina, era stata nominata “Referente Sanitaria” della città.

Il mezzo funebre era il carro del canicida guidato da un amico d’infanzia di mio padre. Raggiunto il prato fatale, trovai il corpo di mio padre disteso sul fianco, in un lieve pendio, con in mano il suo fazzoletto e di fianco, ordinatamente disposto, non mi ricordo se il pastrano o la sua giacca, quasi avesse voluto godere ancora un attimo di vita. Da un sopralluogo constatai che era morto coraggiosamente, senza perdere orine e feci, come spesso accade ai fucilati, e come confermato dai testimoni oculari. È inutile che dica che lo avevano derubato di tutto, il denaro, i suoi documenti ed il mio cronografo “Tavannes”, che portava al posto del suo orologio che aveva portato a riparare da Nattich e che non abbiamo potuto recuperare. Un altro brutto momento fu quando lo mettemmo nella cassa e lo portammo all’obitorio del cimitero, ove un’anima buona lo ricompose incerottando la testa colpita dal colpo di grazia.

Al cimitero c’era una persona, evidentemente simpatizzante autonomista, che cercò di aggiustare bene questi cadaveri, quelli di papà, di Blasich e di un altro autonomista che non conoscevo. Sopra volavano aerei americani che buttavano giù dei volantini “vi abbiamo liberato!”, e io piangendo con mio cugino: “sì, sì, ci avete liberato della vita!”.

È stato inumato il 7 maggio nella tomba dei Garzotto, ma siamo stati invitati a non fare il funerale, lo accompagnò mia zia, ovvero la sorella maggiore Giovanna Potosnjak, siamo stati anche invitati a non mettere il nome per evitare che i fiumani andassero alla tomba. Dopo diversi anni abbiamo messo il nome e oggi viene onorato come si merita. Io non potei accompagnarlo, perché mi avevano già prelevato con destinazione Pisino. Essendo stato assente per parecchi mesi, non ho potuto preservare i documenti lasciati da mio padre nel suo ufficio e contenuti nella cassaforte, i quadri antichi che ivi si trovavano, resoconti delle banche, ecc. Già il 26 maggio, mentre ero al servizio militare a Pisino, asportarono da casa l’automobile O.M., che per eredità era già mia.

Per inciso, trovandomi a Milano per la specializzazione nel 1956, dal tram intravidi Gioia La Neve sul marciapiede. Scesi immediatamente per sfogarmi, ma alle mie dure parole ella candidamente mi disse che m’aveva aiutato, facendomi avere una bara zincata per mio padre, rara in quei momenti. Essendo un gentiluomo, non insistei ad accusarla del suo operato e la lasciai.