La storia di Norma, infoibata a 23 anni
Emblema dell’Esodo
“Io rispetto tutti i morti di qualunque appartenenza o ideale, però avrei voluto che rispettassero anche i nostri. Dalle nostre queste parti ancora si sa qualcosa, ma il resto d’Italia è all’oscuro. Io vivo in Piemonte e nessuno è a conoscenza di quanto accadde. Da insegnante posso attestare come nessun libro di scuola abbia mai parlato delle nostre tragedie. Hanno dato medaglie a bizzeffe in questi anni, non pretendo medaglie ma almeno un ricordo, invece niente, niente, niente… Ha pertanto un grande significato per me la cerimonia di Trieste, con cui questa Amministrazione Comunale ha voluto onorare la memoria di mia sorella, intitolandole una via: finalmente qualcuno ha ricordato ufficialmente il calvario di Norma Cossetto, un emblema delle sofferenze patite dalla gente d’Istria”.
Licia Cossetto parla con tutta l’emozione derivante dalla tragedia che sessant’anni fa – a Santa Domenica di Visinada – lacerò la sua giovane esistenza e quella della sua famiglia. A sostenerla un’ammirevole forza d’animo, che per oltre mezzo secolo l’ha supportata nella ricerca, quasi sempre vana, di almeno un po’ di giustizia. Racconta di sporadici episodi di commemorazione a Pisa e ad Avezzano, una via dedicata a L’Aquila, la concessione della laurea honoris causa da parte dell’Università di Padova. Ma a Trieste, fino ad ora, niente era stato fatto – sottolinea.
“Quello che ha passato mia sorella …. non so se ci sono altre persone che hanno sofferto tanto”.
Nel suo racconto si avverte come il tempo abbia fermato le lancette della sua vita nel settembre del 1943. Dopo, continuò a “sopravvivere”.
“Fino all’8 settembre tutto andava bene: eravamo una famiglia unita, contenta. Eravamo papà, mamma e noi due ragazze. Frequentavamo il collegio di Notre Dame a Gorizia e quando venivamo a casa eravamo felici. Avevamo tante famiglie di coloni, tutti eravamo amici, giocavamo insieme. Mia sorella aveva organizzato una squadretta di pallacanestro, giocavamo a tennis. Dopo l’8 settembre è cambiato tutto, perché papà era stato segretario politico per tanti anni, era commissario governativo delle Casse Rurali, era stato podestà a Visinada ed ufficiale della milizia. Aiutava la gente, specie nelle emergenze, perché era l’unico ad avere l’automobile. Ci volevano bene e poi all’improvviso questo mondo è cambiato. Tutti si sono – direi – quasi rivoltati, perché eravamo una delle famiglie più in vista e, insomma, grazie al cielo stavamo bene: papà ha sempre lavorato ed anche mia mamma. Però – non so se per le cariche che aveva avuto papà, o per il fatto che eravamo italiani – hanno cominciato a prenderci di mira, venivano in casa, ci sparavano: sopra al mio letto rimasero i buchi dei proiettili esplosi per farci alzare. Ci portavano via tutta la roba da casa, anche perché papà era stato richiamato a Trieste, al Comando, e noi eravamo sole.
Molti degli assalitori erano del posto, soprattutto di Castellier, il paese vicino; c’era anche qualcuno venuto da fuori, dalla Jugoslavia, ma era una minoranza. Si presero anche le divise di papà e le indossarono, attaccando sul berretto delle grandi stelle rosse, tanto che ancora adesso quando vedo rosso mi sale il sangue alla testa. Venivano in casa, razziavano, ci offendevano. Anche quelli che poco tempo prima si dimostravano amici. C’era sempre qualcuno di guardia, non potevamo fare un passo, altrimenti saremmo venute a Trieste, dove papà aveva tanti amici.
“Portarono via Norma una prima volta, a Visignano, e la sera stessa la rilasciarono. Vennero a prenderla il giorno dopo, con la scusa che qualcuno aveva bisogno di lei, come mi venne riferito da un mio cugino. Non ero in casa, per cui quando mamma mi chiamò per avvisarmi, feci in tempo solamente a vederla partire su una motocicletta. Aveva 23 anni, appena compiuti”.
A sostenere i familiari, la speranza che anche l’interrogatorio si sarebbe potuto risolvere con il ritorno di Norma, come era avvenuto il giorno prima, quando aveva tentato di convincerla a passare nelle loro file. La seconda volta non ci fu rientro. Il giorno successivo invece, da Visignano la condussero a Parenzo, alla caserma della Guardia di Finanza. Arrestarono anche altre persone di Santa Domenica – o perché in qualche modo collegate alla famiglia Cossetto o perché studenti italiani”.
Appreso del trasferimento, Licia prese la bicicletta e con dei dolcetti preparati dalla mamma per la sorella, riuscì a farle visita per il prezzolato intervento di una delle guardie.
“Momenti che ricorderò sempre: lei era seduta su una branda, tristissima, non voleva parlare. Si vede che già aveva subito delle angherie; non mi rispondeva, continuava a piangere. Divideva quella stanza con altre persone di Santa Domenica, tra le quali anche alcuni parenti. Presi da parte una delle guardie, e dissi: – mamma le darà tutto quello che vuole, ma lasci che mia sorella torni casa con me. Quello, con arroganza, rispose che entro sera sarebbero stati rilasciati tutti. Avevo 20 anni, anche un po’ di paura, perché erano armati – fucili, pistole – dei guerriglieri, insomma. Salutai mia sorella, era assente, quasi un automa”.
Durante il rientro a casa, Licia incrociò dei tedeschi in motocicletta, si lanciò per chiedere aiuto e quelli spararono e, per fortuna, la mancarono. Il loro arrivo, probabilmente, fece accelerare la decisione dei carcerieri di Norma di spostare i prigionieri ad Antignana; trasferimento di cui i Cossetto vennero a conoscenza molto tempo dopo.
“Rientrai a casa, mamma era disperata. Non riuscivo a confortarla, anch’io ero spaventata. Mi era già successo di essere trattenuta per un pomeriggio in un carcere improvvisato a Castellier. Per fortuna, quello che era stato un amico di papà, pentito per il mio arresto, si era attivato per farmi rilasciare. Mia madre era ormai convinta che me ne dovessi andare, per salvarmi, almeno io. Con i soli abiti che indossavo, attraverso i boschi, con una parente mi diressi a piedi verso Trieste. Arrivate a Buie, fu un gruppo di tedeschi, ad offrire un passaggio. Fu una fatale coincidenza, altrimenti avrei incrociato mio padre che, avvisato della cattura di Norma, nello stesso tempo stava tornando da Trieste a Santa Domenica con Mario Bellini – marito di una cugina. Con la falsa prospettiva di poter incontrare Norma, vennero attirati in un’imboscata. Bellini cadde sotto i proiettili, mentre papà, rimasto ferito, venne finito con tre coltellate inflitte da un tale di Castellier, a cui pochi mesi prima lui aveva salvato la vita, portandolo in ospedale per un intervento urgente.
“Tornai a Santa Domenica quando vi si insediarono i tedeschi. Eravamo ancora senza notizie di mia sorella. Ricordo un particolre agghiacciante: una notte mamma mi svegliò dicendomi che aveva sentito la voce di Norma che la stava chiamando. Era convinta fosse sotto casa. Più tardi venne confermato che proprio in quel preciso istante mia sorella veniva gettata nella foiba”.
Il 12 dicembre Licia venne informata dal comandante Harzarich, dei vigili del fuoco di Pola, che stavano per aprire la voragine di Villa Surani. Tra le prime ad essere recuperate, la salma di Norma.
“Ancora adesso la notte ho gli incubi, al ricordo di come l’abbiamo trovata: mani legate dietro alla schiena, tutto aperto sul seno, il golfino di lana tirolese comperato da papà la volta che ci aveva portate sulle Dolomiti, tutti i vestiti tirati sopra l’addome…. Solo il viso mi sembrava abbastanza sereno. Ho cercato di guardare se aveva dei colpi di arma da fuoco, ma non aveva niente; sono convinta che l’abbiano gettata giù ancora viva. Mentre stavo lì, cercando di ricomporla, una signora si è avvicinata e mi ha detto: signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perchè avevo paura anch’io.
“Particolari questi che non volli riferire alla mia mamma. Comunque lei era già morta dentro, se n’era andata con Norma e papà. Parlava poco e non la vidi mai più sorridere. Dopo i funerali tornai a Trieste, e qui mi sposai. Mamma non la lasciarono venir via fino al 1948. Dovette continuare a subire soprusi ed umiliazioni. E quando mi raggiunse, morì.
“Seguii mio marito, nominato direttore della filiale di Ginevra della Ercole Marelli; divenni direttrice delle scuole italiane all’estero. Dodici anni in Svizzera, poi la Sardegna, poi il Piemonte. Ma la mia vita aveva subìto un blocco. La notte ho ancora adesso gli incubi.
“Sono tornata a Santa Domenica solo a distanza di 25 anni dalla tragedia, perché mio marito mi convinse a provare. Ora ci vado ma come arrivo al confine comincio ad essere agitata, mi viene da piangere; vado al cimitero e non posso spiegare cosa provo. So che non riuscirei più dormire una sola notte a Santa Domenica… Ci sono delle sequenze come di un film che mi passano davanti agli occhi: una ragazza di 23 anni, allegra, dolcissima, affettuosa, aveva un fidanzato che era compagno di accademia di mio cugino, una ragazza limpida, chiara, solare, sempre contenta. E immagino la sua sofferenza.
“In tutti questi anni non è stata fatta giustizia. Io ho sporto denuncia: fino a pochi anni fa viveva ancora a Trieste – con la pensione italiana – uno di quelli che l’avevano stuprata; a Santa Domenica ce n’è ancora qualcuno vivo e a tutti è stata concessa la pensione italiana, anche gli arretrati e si sono costruiti le case…”
Questa la testimonianza di Licia Cossetto, ancora emozionata per il gesto di Trieste: l’intitolazione di una via alla sorella. Si rammarica che i nipoti non abbiano potuto assistere alla cerimonia, ma sono impegnati con l’Università. Negli occhi lucidi trattiene una solarità che il silenzio di tutti questi decenni non hanno lasciato fluire. Spera che almeno la gente ricordi Norma, non la lasci morire ancora.