Affascinato dalla storia della sua famiglia, Marco Bonitta vi si dedica con grande slancio ed evidente soddisfazione. Ora la sua casa è a Ravenna ma ha alle spalle una lunga carriera ai vertici dello sport come commissario tecnico, fatta di spostamenti, campionati di pallavolo femminile, mondiali, destinazioni lontane, movimento perpetuo. In questo turbinio di situazioni, Fiume è sempre stata un punto fermo. Lo racconta con slancio, quasi con commozione che finiamo per condividere per una ragione ben precisa: spesso le seconde e terze generazioni dell’esodo si sono sentite “orfane” di aneddoti e ricordi, di storie di famiglia, di abitudini appena accennate, di consuetudini, della possibilità di dare un volto ad un mondo dissolto, sparso dappertutto.

“Quando mio padre rispondeva agli amici, diventava una persona diversa, il suo dialetto così spontaneo, fluido, pieno, non era solo uno strumento di conversazione ma una porta aperta sulla Fiume che noi figli avremmo voluto esplorare in ogni centimetro ed in ogni epoca”.

Che cosa sapeva della sua famiglia?

“Pochissimo fino a qualche anno fa quando, con mia cugina, ho fatto un viaggio esplorativo, passando dall’archivio di stato e dalla chiesa dei Cappuccini, luogo dei battesimi di gran parte della mia famiglia”.

Che cosa avete scoperto?

“Intrecci incredibili, struggenti. Mio padre Mario fiumano, era nato nel 1932, secondo figlio di sei. Suo padre Nicolò era nato a Mercopalio, Mrkopalj, Gorski Kotar, probabilmente figlio illegittimo di Pietro e di Teresa figlia di Frane Kusturin di Spilimbergo, il quale sposò Latcovick Katiza, ballerina ungherese di origini Tzigane. Il bisnonno Pietro proveniva da Meduno ed essendo ferroviere dell’Impero, è probabile che sia andato a lavorare in quella località montana, per caricare legname per la ferrovia Fiume-Karlovac. Non ci sono documenti ma queste sono le mie deduzioni. Lasciò lì la nuova famiglia e si spostò alla ferrovia di Ferrara dove ebbe altri figli: ho dei cugini a Ferrara che non ho mai visto nonostante abbia cercato di contattarli. Probabilmente, visto il contesto, non ci considerano esattamente dei parenti”.

Da che cosa è nato questo desiderio di sapere, di scavare nel passato?

“E’ sempre stata una fiammella presente. Papà Mario, abbonato alla Voce di Fiume, lo vedevo spesso leggere storie di gente che aveva conosciuto, io la sfogliavo con la voglia di capire. C’era bisogno di una maturazione. E’ arrivata grazie all’entusiasmo di mia cugina Daniela, figlia di uno dei fratelli di mio padre, Luciano, nato nel ‘47, che vive a Castano Primo, vicino a Como. Due anni fa, con Daniela ci siamo incontrati a Venezia per andare laddove sapevamo ci fossero le nostre radici”.

Arrivando a Fiume questa sensazione è stata confermata o no?

“E’ stato qualcosa di forte, di fatto mi sento istriano e fiumano, c’è qualcosa che mi lega. Non faccio parte di quel gruppo di persone che promuovono ancora oggi rivendicazioni annessionistiche, non ho sentimenti nazionalisti, al contrario, sento di appartenere alla Fiume multilinguistica e multiculturale dei miei avi, luogo di confine dove tutto si sommava. Potrei dire di essere Zannelliano, credo che l’autonomia fosse il vero spirito di Fiume”.

È mai ritornato a Fiume con suo padre?

“Un progetto che non siamo riusciti a realizzare…”.
La sua vita l’ha portato altrove… sul campo da pallavolo: scopriamo a nostra volta che la storia di Marco Bonitta, allenatore della nazionale femminile italiana di volley, è fatta di grandi successi, delusioni brucianti e riscosse clamorose di chi ha il coraggio di stare in prima linea. E’ stato il primo e unico ct italiano a vincere un campionato mondiale sotto rete, nel 2002 a Berlino, sempre pronto a reinventarsi come uomo e come sportivo. E’ seguita la bella prestazione dell’Italia nel mondiale del 2014, concluso a Milano con un quarto posto che in termini di popolarità è valso quanto una medaglia d’oro, Bonitta ha sfruttato così la seconda occasione. Fu proprio per ragioni “sportive” che nel 2005 arrivò per la prima volta a Fiume con la Nazionale italiana…
“Giocammo un europeo in Croazia – racconta -, un girone era a Fiume, la mia prima volta a Fiume ma ero molto impegnato e non esplorai la città, me ne andai con un vuoto dentro”.

Perché suo padre non ne voleva parlare?

“Credo per non evocare la grande vergogna per come erano stati trattati, da fascisti. Esule, andò a Novara. Il suo silenzio chiaramente ricacciava in fondo la sofferenza di quegli anni, semplicemente non ne parlava. Ricordo il suo sguardo quando mi disse che i novaresi dicevano ai bambini, ‘non fare il cattivo che ti mando dai profughi’. Papà aveva voluto risparmiarci ogni dettaglio di questa sofferenza. Quando se ne andò da Fiume, a 15 anni, aveva capito tutto. E’ mancato che ne aveva 59. Quando decisi di tornare nella sua città era anche un modo per incontrarlo laddove era stato felice con la sua numerosa famiglia”.

Quali luoghi è andato a vedere?

“Via Pomerio dove abitava, vicino al Palazzo della Marina. La bisnonna morì quando il nonno aveva tre anni e lo lasciò a Fiume in un orfanatrofio, da lì proseguì al collegio militare. Le storie si moltiplicano in quelle strade: uno dei miei zii è stato arruolato in Marina ed è venuto a lavorare a Taranto alla base navale. Il bisnonno, Ermenegildo Michelauz, nel ’20 si vide cambiare il cognome in Marini. Nella famiglia Michelauz, Nicolò Bonitta, incontrò la futura moglie, sorella del suo migliore amico, Ferdinando, col quale condivise tanti momenti, furono entrambi legionari. Sembra che Ferdinando sia stato disperso nella vicenda della Corazzata Roma. In via Roma abitava invece la nonna Italia”.

Che cosa provava a girare strade e archivi?

“Incredibilmente, mi sentivo a casa, parte di un qualcosa di inimmaginabile, si ricomponeva il volto della mia storia. Con Daniela, all’archivio di stato, accolti da una funzionaria gentilissima, trovammo l’atto di nascita della nonna Italia, lo stato di famiglia, scoprimmo che Ermenegildo aveva lavorato ai Bagni Molo Lungo con la qualifica di bagnino di salvataggio. Mi sono stupito: avevo fatto anch’io la medesima cosa in Romagna… solo una coincidenza? Di Nicolò abbiamo trovato la conferma che fosse figlio illegittimo. Anche il nonno, catramista e la nonna sigaraia alla Manifattura Tabacchi, vennero via nel ’47. Prima Udine, campo stranieri e poi Novara, Caserma Perrone, dove vennero registrati solo nel ’51. Poi a Milano, lui e mio padre diventato elettricista, trovarono lavoro alla Manifattura Tabacchi. Poi con Daniela ci siamo infilati tra i banchi del mercato ed abbiamo respirato l’aria piena di profumi e di parole dialettali…musica. Poi al Palazzo del Governo laddove D’Annunzio s’era rivolto al popolo di Fiume, con lui c’erano diversi ravennati, città che ricorda la loro partecipazione”.

Come dare un senso a questa incredibile vicenda?

“Sto scrivendo un libro sulla saga della mia famiglia, naturalmente romanzato quindi con collegamenti, deduzioni e riflessioni prodotti da me nel tempo. Parto dal bisnonno e arrivo al momento in cui il nonno dice: ‘dobbiamo partire’. Mentre io voglio tornare perché tutto mi riporta a Fiume, non qualcosa in particolare, semplicemente tutto. Come la passione per il mare tramandata da mio padre, a Caprera ho frequentato il corso della Lega Navale e quando sono in barca vela lui è con me. A Fiume invece è stato come scoprirmi bambino, laddove bambino non sono stato, fisicamente, ma è una fanciullezza dell’anima o forse quel bimbo che mio padre ha soffocato dentro, per tanto tempo. Mi sono ritrovato nelle emozioni di Daniela, la vera artefice di questo viaggio nei luoghi e nel tempo. E’ fiumana anche nell’aspetto: bionda, occhi azzurri, proprio come mia figlia”.

La sua vita sportiva è stata descritta nei libri, è ricca, a volte controversa, ora com’è?

“Lavoro ancor sempre nello sport, ora con la squadra superlega maschile che vanta una grandissima tradizione a Ravenna, da tre anni sono qui, stabile, dopo aver girato il mondo e aver avuto tre figli, un maschio e due femmine ai quali parlo spesso delle nostre origini, senza forzature, i libri su Fiume sono sempre in mostra sulla scrivania, quando saranno pronti cercheranno da soli le radici. L’importante è che sappiano distinguere, né Mussolini né Tito, per me sono uguali, come mi ha sempre ferito il voltarsi dall’altra parte del governo italiano, siamo stati abbandonati e vessati. Mio padre mi diceva spesso: ‘ricordati che la dignità è la più grande ricchezza di un uomo’. Ma si sono tenuti la propria storia tutta dentro”.

Lei ha dichiarato di volersi spendere per la Fiumanità, dando una mano nell’AFIM, come mai?

“Credo sia la logica conseguenza del percorso fatto fin qui: vorrei semplicemente rendermi utile, ritrovare qualcosa della grande famiglia sparsa. Sono un uomo di sport e di formazione aziendale, credo che uno dei valori più importanti che lo sport possa donare al mondo aziendale è il senso di appartenenza, che nel mio fuoco fiumano ha potuto germogliare. Come nello sport: vincere significa stare bene insieme”.