Mario de Vidovich
La fierezza delle origini nell’impegno di una vita
(Intervista di Rosanna Turcinovich Giuricin e Viviana Facchinetti)
“Mi chiamo Mario de’ Vidovich e sono nato a Zara il 12 luglio di 92 anni fa”. Lo abbiamo incontrato, questo signore sempre sorridente e cordiale, all’ultimo Raduno dei dalmati, il cinquantesimo per l’esattezza, circondato dal rispetto dovuto ai protagonisti della storia. Sì perché Mario de’ Vidovich è stato testimone della nascita del Comitato d’assistenza ai profughi dal quale prese poi l’avvio l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia: un “padre” insomma. Ma il suo è anche un racconto di vita con la presenza, forte, della Dalmazia e, un pizzico d’orgoglio, per un’esistenza all’insegna dell’impegno civile e sociale.
“I miei genitori erano italiani, nativi di Sebenico, – così risponde al nostro invito di parlare delle sue origini – metto in evidenza il fatto che fossero italiani perché nei loro documenti, – quand’ero ragazzo avevo consultato in particolare quelli di mio padre e la cosa mi aveva incuriosito – , era chiaramente specificato che erano di cittadinanza e di nazionalità italiana, cose che spesso non si distinguono nei nostri documenti. Sono vissuto a Zara dove mi trovavo fortunatamente anche quell’8 settembre del ’43 – e dico per fortuna, altrimenti non sarei qui a parlare – perché richiamato dal Comando di Divisione. E lì sono rimasto a combattere, per la difesa della città contro i partigiani salvi e accanto ai Tedeschi che in quel momento erano con noi. Ma nel dicembre dello stesso anno sono dovuto venire via con la famiglia, moglie e due figli, una valigia e un bastone. Mandato via da Vincenzo Sarentino perché ero in pericolo e perché Zara era stata rasa al suolo”.
Come nacque l’idea di fondare un Comitato d’assistenza, Lei ricorda il primo incontro “Avvenne dopo il 25 aprile – il 29 per la precisione, una data che non si può dimenticare – con Lino Drabeni e altri 4 o 5 amici zaratini ci incontrammo in P.zza Duomo, a Milano, e si decise di fondare il primo Comitato formato soprattutto da Dalmati perché gli istriani erano ancora nelle loro terre, il loro esodo è iniziato qualche anno dopo. Il Comitato Giuliano Dalmato aveva aderito, allora, al Comitato d’Italia. E Lino Drabeni ne è stato sia il fondatore, sia il precursore e soprattutto quello che poteva parlare nella pubblica piazza perché aveva partecipato al Movimento di Liberazione, noi venivamo considerati ancora di parte fascista. Ricordo i comizi svoltisi in quegli anni nelle piazze delle città d’Italia, sempre gremite di gente, con gruppi di comunisti pronti ad attaccarci perché eravamo venuti via dalle terre dell’Adriatico Orientale. Lino Drabeni iniziava sempre ricordando alla folla di aver partecipato alla lotta partigiana”.
Ma anche altrove ci si stava muovendo “Infatti, così è nato il Comitato Nazionale Alta Italia con delle rappresentanze in tutte le province del nord. A Roma, intanto andava formandosi un Comitato Giuliano-Dalmato che operava al centro e al sud dove a Napoli s’era attivato da tempo un Comitato d’assistenza ai profughi. Il 15 febbraio del 1947, a Bologna, i due Comitati si fusero creando l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Zara. Il primo congresso nazionale si tenne a Roma il 20 giugno del 1948 e l’ANVGD cominciò ad operare in tutta Italia con 98 Comitati, e alcune delegazioni”.
Su che cosa era incentrata l’attività? “All’inizio ci si occupava principalmente dell’assistenza agli esuli ma senza mai perdere di vista la necessità di continuare a ribadire i nostri principi ideali, spiegare alla gente le motivazioni per cui avevamo deciso di venire via, le ragioni storiche, politiche, religiose che rappresentavano il nostro passato, la nostra storia e quello che eravamo. Questo è importante da ribadire per capire il perché lo facevamo: ne andava della nostra serenità”.
I vostri rapporti con Trieste, la città che per prima aveva accolto gli esuli “A Trieste operava un Comitato Dalmatico per l’assistenza ai profughi zaratini, voluto dal senatore Antonio Tacconi di Spalato, che l’aveva creato già nel ’44, e questo conferma la spontaneità con cui sorsero in quegli anni questi punti di riferimento per le nostre genti. Io allora ero a Trieste in servizio militare e mi ero attivato all’interno del Comitato stesso che poi ha avuto una diffusione anche a livello nazionale”. Qual’era stata la risposta della gente, di adesione immediata?
“Il Comitato, per la nostra gente, era la salvezza. Nei primi momenti non eravamo stati accolti a braccia aperte dalla popolazione in Italia; ci sono degli episodi veramente tristi successi a Venezia e a Bologna, di totale rifiuto della nostra presenza. Poi però le cose sono cambiate e abbiamo potuto contare sulla solidarietà degli italiani. A Cremona dove io ho creato il primo Comitato locale abbiamo avuto un’assistenza, da parte del Comune, che ancora si ricorda. Va detto che il campo profughi di Cremona aveva accolto 2.500 profughi dalmati e fiumani nelle strutture di un asilo sul cui edificio è stata apposta recentemente una targa per ricordare il fattivo contributo del Comune ai primi esuli nel ’44-45 e 46”.
Quali erano le finalità dell’Associazione “Prima di tutto doveva servire a riunirci, poi la seconda cosa era avviare l’assistenza a livello locale e nazionale, realizzare il diritto al lavoro ed alla casa. Nel tempo maturò anche la necessità dell’impegno per la restituzione dei beni abbandonati: all’inizio si trattava di un milione per il risarcimento dei beni mobili, dopo di ché si è passati alla battaglia per l’indennizzo degli immobili, che ha visto impegnato in particolare modo padre Flaminio Rocchi con in quale io ho lavorato per cinquant’anni, fianco a fianco. Mi commuove il pensiero che ci abbia lasciati, ma è anche vero che bisogna saperlo ricordare nel giusto modo, testimoniando la sua opera”.
Che cosa ha lasciato a Zara la sua famiglia? “I miei avi, a dire la verità, un vero e proprio feudo, ma noi no, giusto la casa per la quale abbiamo percepito un indennizzo”. Quale è stata la sua attività? “Ho cominciato a lavorare a Zara nel 1931 ai sindacati, poi sono diventato direttore del Patronato nazionale dei servizi sociali, nel ’36 sono stato nominato direttore dell’ufficio di collocamento e nel ’38 sono passato al Ministero delle Corporazioni come Ispettore del Lavoro. Poi è scoppiata la guerra. Da Zara mi ero trasferito a Trieste, mentre la mia famiglia era nella provincia di Belluno, lontano dai bombardamenti. A Trieste incontrai il generale Giovanni Esposito, Medaglia d’oro, che era stato nel ’33 comandante di Presidio a Zara e mi chiese di rimanere con lui, così feci fino al ’44 quando fui trasferito allo Stato Maggiore di Milano e lì conclusi la mia carriera militare. Il Ministero mi mandò a Cremona. Scendo dal treno e al primo passante chiedo di indicarmi una via: si gira, mi guarda e mi sorride. Era un zaratino, anche lui profugo in quella città. Eh…la vita! Ho ripreso il mio lavoro dopo il ’45, sempre nello stesso settore, tra Cremona e Mantova, fino al ’70 quando, approfittando della Legge per i combattenti sono andato in pensione. Da allora mi sono dedicato a tempo pieno all’attività sociale e, soprattutto, alla scrittura che è la mia passione”. La sua famiglia come ha vissuto la lontananza da Zara “Si sono adattati. Per fortuna io avevo un buon lavoro e questo ci ha dato serenità. E poi, a dire il vero, casa mia s’è trasformata in un ufficio distaccato del Comitato Giuliano-Dalmato per cui hanno seguito da vicino anche questo aspetto della mia attività il che li ha fatti sentire senz’altro più vicini a Zara e alla sua gente con tutti i problemi, i successi, le frustrazioni, le battaglie”. E’ tornato a Zara?”Dopo la guerra ho cercato di evitare di ritornarci, io ero stato un militare e non ero ben visto dagli jugoslavi contro i quali avevo combattuto. Ma nel ’58 con altri due amici, abbiamo noleggiato una macchina e siamo partiti. E’ stato dolorosissimo rivedere la Dalmazia. Poi ho superato il disagio e ci torno regolarmente due volte l’anno in occasione del 10 maggio e del 2 novembre”. I suoi figli hanno capito la sua attività, il suo impegno? “L’hanno capito maturando, avevano bisogno di essere guidati, che le cose venissero spiegate, argomentate. Vivendo in Italia, impegnati con l’università prima, la famiglia e il lavoro dopo, era difficile sentissero questo forte legame con Zara. Ma poi, piano piano, hanno sviluppato un certo rapporto con quella realtà, fatta di ricordi nostri e di esperienze loro. Tornano spesso a Zara. Io sono bisnonno e anche i miei nipoti si sentono legati a questo mondo. Capiscono ora l’importanza della nostra storia, il ruolo ed il contributo che i dalmati hanno saputo dare in campo religioso, culturale, patriottico, oggi lo sanno, ne sono pienamente consapevoli. Non so se si sentano zaratini, certo non c’è il nostro attaccamento fisico ma partecipano e condividono i nostri sentimenti”.