Chi parlava dell’esodo? Adesso abbiamo la saturazione, ma chi nominava mai la parola esodo in pubblico quella volta? Mai! E in casa non si parlava d’altro! Si parlava sempre di questo, si parlava tanto dei parenti, si scrivevano le lettere, si viveva delle lettere, peccato non aver conservato gli epistolari. La lacerazione delle famiglie era una terribile ferita, aperta tutta la vita. Mia nonna, ed io di riflesso, aspettavamo di giorno in giorno il postino, la distribuzione delle lettere. Vedevo il postino che arrivava e distribuiva… era un legame forte con la posta, con i pacchi. Mamma mia i pacchi che arrivavano dall’Italia! Erano come un toccasana, un salvavita! Un altrove… un altrove che si rivelava nel profumo del Palmolive, che magari si mescolava con il riso… perché anche loro poveri mettevano tutto assieme: riso, Palmolive, magliette, mutande.

La grossa differenza scoppiava d’estate, quando certi esuli tornavano, qua la miseria sembrava ancora più grande. Oggi mi sembrano stupidaggini, ma tutte soffrivano per quello che le esuli avevano e noi no… e da qua l’invidia, proprio era un livello di analisi comparativa. Perché venivano queste mie cugine con questi costumini! Noi avevamo ancora i costumi con la cotoletta… vedere queste cugine che venivano dall’altra parte con queste belle cose… ma un’invidia, ma sfegatata! Ma io le odiavo, ma io avrei rubato! Ma io ho rubato! Un paio di pantofoline, con dei ricami d’oro. Ho grattato queste pantofole e sono partita per Zagabria. Questa povera mia zia Regina, le ha cercate per casa, per mare e per monti, sinché si è convinta che io ero una ladra. ‘Ma zia, io le ho portate via perché troppo mi piacevano!’ [Ridiamo]Tanto, tanto avremmo voluto queste belle cose! L’aspetto estetico jugoslavo non esisteva, noi non lo potevamo assolutamente appagare… non esisteva, tutto era brutto… Mia nonna povera mi cuciva i vestitini, ma in paragone, al confronto con quello che portavano le mie cugine, io morivo di vergogna! Avevo certe cappe, invece dell’orlo, mi faceva le cappe! ‘Ma nonna, ma nessuno ha così!’ ‘Appunto – diceva – perché nessuno ha così, è bello quello che nessuno ha!’ Forse per questo sono diventata un po’ così stravagante. Di quest’invidia perché loro avevano cose belle… con il senno di poi ho capito che erano tutte cianfrusaglie, ma la donna ha bisogno di queste carabattole e cianfrusaglie, ha bisogno. Mai veniva appagato questo nostro bisogno estetico, di mettere la vita in forma come direbbe Calvino, mai. Allora io ho rubato, ho grattato queste benedette pantofole! Noi qui portavamo le zavatte Borovo, con un bottone in parte, Borovo era una grande fabbrica di zavatte.

Io sono andata la prima volta in Italia quando studiavo a Zagabria per comperarmi una grammatica: la Battaglia-Pernicone. Era il paese di cuccagna, dove le luganighe picava dagli alberi. Era l’incontro con il mondo delle meraviglie, con Firenze, con un appartamento della zia… dei sogni! Quella volta per me era un altro mondo, anche gli odori! Anche gli odori della cucina, dell’appartamento, asettico, pulitissimo… quella volta io ho capito che venivo da una stalla. Io vivevo sempre nella casetta di mia nonna, con un grande cortile, con annessi e connessi, stalle, stallette, pollai… perché chi viene dalla campagna tende a riprodurre lo schema che ha in testa, cioè davanti c’era l’osteria, la porta d’entrata come si deve, dietro c’era il gioco di bocce, orto, ma un mucchio di… stallette. Mia nonna aveva portato in città nel ’21 il suo modello di campagna, di vita a Monghebo che è dentro nell’Istria, dopo Parenzo.