11/08/2003 | Paolo Barbi è stato per trent’anni Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Nato a Trieste, è vissuto a Napoli, eletto senatore con i voti dell’isola di Ischia, ma le sue radici sono a Lesina…

“Cercai, sin dall’inizio, di dare all’associazione, un orientamento europeista: il risultato fu che molti, allora, la considerarono mera follia, un sogno irrealizzabile. Gli altri – a dire il vero una parte cospicua dell’associazione, essendo fieramente nazionalista, quindi antieuropeista – avevano con me un rapporto conflittuale, sognavano di tornare nelle nostre terre con i carabinieri. E con questi ho avuto grosse difficoltà tanto che ad un certo punto mi indussero alle dimissioni, mettendomi in minoranza. Fu eletto per breve tempo Presidente – perché purtroppo morì – l’ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli. Era come me democratico-cristiano, cattolico, europeista, ma era anche il sindaco di Trieste, città-simbolo dell’esodo, per cui riusciva a mettere d’accordo le varie anime dell’Associazione. Quando egli morì, però, successe una cosa strana: gli stessi che mi avevano cacciato, vennero a chiedermi di tornare al mio posto. E sono rimasto fino a quando, per motivi di età e di salute, ho pensato che era tempo di smettere ed ho promosso la sostituzione, e arrivò Lucio Toth, altro dalmata”.

In che cosa consisteva operare in chiave europeista all’interno dell’Associazione?

”Consideravo che il nostro avvenire di esuli giuliani, intenzionati a conservare le radici culturali, etniche, ecc, fosse realizzabile soltanto in una forma, in un clima ed in una politica di collaborazione con gli jugoslavi di allora e non in una forma di conflittualità. Il nazionalismo portava a rendere insolubile il nostro problema, a fare della nostra associazione, un’associazione di nostalgici. E io, con i miei collaboratori, pensavamo invece che la prospettiva fosse quella dell’osmosi, della penetrazione lenta ma decisa e continua. Con i gruppi giovanili di allora organizzammo anche una cosa che era assolutamente proibita in quegli anni Sessanta: portare libri, giornali e riviste in Istria, e in particolare a Cherso. C’era il pericolo di dover fare i conti con la polizia e la magistratura jugoslave. I nostri soci andavano a fare delle gite e negli zaini, caricavano anche materiale librario. Poi le cose si sono evolute, è stato dato mandato di collaborazione all’Università Popolare di Trieste ed è stato possibile operare, in campo culturale, alla luce del sole…”

La sua strategia si è dimostrata vincente?

“Questa è la mia soddisfazione. Adesso non è più una chimera, adesso è un sogno in via di realizzazione e per molti aspetti è già realizzato. Sono battaglie che ci hanno tenuti impegnati per molti anni ma ora un altro problema si fa strada: mantenere viva la cultura del popolo dell’esodo per assicurargli un futuro… Ci sono i figli degli esuli e questi hanno esperienze varie. Ci sono quelli fermatisi a Trieste, Udine, Gorizia, ecc, dove la comunità è grossa, i rapporti con l’Istria, Fiume e la Dalmazia sono facili e quindi c’è una seconda generazione che è ancora abbastanza legata all’ideale della conservazione. Ma ci sono anche altre esperienze: io potrei parlare dei miei figli, una è nata a Trieste e gli altri a Napoli ma proprio quella nata a Trieste è la più napoletana di tutti perché da piccola ha avuto una balia che le ha insegnato a parlare napoletano. Uno è in America, e così via. Li ho portati a Lesina, a Trieste, in Istria, ecc, però…”

Ma che cos’è per loro la Dalmazia?

“Le origini del papà”.

Che cosa si può fare?

“Si possono fare azioni di conservazione culturale, riproponendo i grandi della nostra storia, Tommaseo per esempio, come qualcuno sta già facendo. Si può procedere alla cura dei monumenti nelle nostre terre oppure adoperarsi in vari modi per far conoscere questo patrimonio. E’ fondamentale che nella cultura d’Italia venga avvertito il peso che ha avuto la nostra cultura in quella italiana. Per dire, Svevo un segno l’ha lasciato, il più grande astronomo italiano del 1600, Ruggero Boscovich, era di Ragusa. Il più bel monumento rinascimentale di Napoli, la porta d’ingresso al Maschio Angioino fatta in onore di Alfonso d’Aragona porta la firma di un architetto dalmata, il Laurana. E mille altri esempi potremmo fare…”

Quali i risultati della sua opera trentennale che ama ricordare?

“Non credo di averne avuti molti. Ho cercato di mantenere unita la comunità istriano-fiumano-dalmata in Italia, nonostante la dispersione e nonostante le divisioni politiche sulle quali qualcuno ha anche speculato. Ho voluto che l’associazione fosse al di sopra degli interessi particolari, dei nazionalismi esasperati, delle divisioni partitiche, non disdegnando comunque il dibattito, anche su questi temi, durante i nostri animati congressi. L’associazione era nata per tutelare, in primo luogo, i diritti degli esuli. Ecco allora, l’importanza dell’opera svolta da personaggi come padre Rocchi che con grandissima dedizione, caparbietà e competenza, era riuscito ad elaborare svariate forme di tutela ed assistenza all’interno dell’ANVGD per assicurare alla nostra gente case, occupazione, indennizzi. Ma non bastava: l’Associazione doveva avere anche altri scopi, culturale e politico nel senso più generale del termine”.

Quale l’atteggiamento dei mass media nei confronti della realtà dell’associazione, e dell’esodo?

“Questa è stata la grande amarezza dei miei trent’anni: il silenzio, e non solo dei mass media, ma la disattenzione o addirittura la fredda ostilità dei dirigenti politici, anche del mio partito. Ho dovuto litigare con Rumor, con Moro, con Fanfani, con Forlani ed altri, addirittura per poter parlare in Parlamento contro il Trattato di Osimo…”

Che cosa rispondevano?

“Che mi capivano ma che le cose non si potevano risolvere a nostro favore, che c’erano necessità internazionali. Moro, per esempio, aveva deciso di procedere alla sigla del Trattato di Osimo, perché questo era quello che chiedevano gli alleati anglo-americani, la Jugoslavia di Tito aveva un ruolo strategico che andava tutelato… e non c’era modo di ragionare diversamente. Addirittura uomini aperti come Montanelli sulla nostra faccenda, avevano pareri discutibili. Una volta mi disse: caro Barbi, voi avete ragione, siete stati le vittime sacrificali della nostra sconfitta e non c’è niente da fare, non perdiamo tempo, questa pagina di storia è stata ormai strappata. Alle volte, per far pubblicare un articolo sul Mattino di Napoli, che era il mio giornale, duravo fatica. L’unico che mi pubblicava senza discutere era Il Popolo, ma ahimè, era un giornale semiclandestino”.

A questo punto che cosa si augura…

“Mah, che le nuove generazioni non solo riescano a conservare le radici, quelle biologiche, culturali, civili, sociali, naturali, ma abbiano la capacità e la forza di trasmettere queste cose alle future generazioni… e sarà una cosa molto difficile”.