L’improvvisa avanzata delle truppe tedesche, precedute dai bombardamenti di Pisino, Rozzo, Gimino e di altre località, fecero precipitare la situazione, inducendo gli esponenti dei comandi e dei servizi di sicurezza partigiani a sbarazzarsi di molti prigionieri, ammassati principalmente a Pisino ed Albona. La paura dei carcerieri si trasformò in incredibile brutalità. I deportati furono trasferiti in fretta e furia, prima dell’arrivo dei tedeschi, in vari posti della campagna istriana, dove avvennero le macabre esecuzioni in varie cave di bauxite, ma soprattutto nelle tristemente famose foibe.
Il recupero delle salme venne affidato al distaccamento del 41° Corpo dei Vigili del fuoco di Pola, che impegnò diverse squadre di soccorso dirette dal maresciallo Arnaldo Harzarich. Dell’intera operazione si occupò ampiamente la stampa fascista dell’epoca, che promosse un’ampia azione volta a mobilitare nuove forze nelle file fasciste, accreditandole come ultimo baluardo in difesa della Patria minacciata dagli slavi.
Nella relazione dei Vigili del fuoco a conclusione delle varie azioni di recupero, iniziate in ottobre e terminate nel dicembre 1943 (riprese in parte nella primavera successiva) sono descritte minuziosamente tutte le esplorazioni effettuate nelle varie cave di bauxite, e nelle numerose foibe istriane. Dalle foibe di Vines, Terli, Castellier, Pucicchi, Surani, Cregli, Carnizza ed altre ancora, situate nei territori di Albona, Pisino, Gimino e Barbana, nonché nelle diverse cave di bauxite registrate sempre in queste zone, furono estratte complessivamente 206 salme, di cui 121 identificate (12 delle quali di soldati tedeschi). La relazione parla pure di altri 19 civili che furono fucilati e gettati in mare nei pressi di Santa Marina di Albona. Non fu possibile però procedere ad un recupero, anche parziale, delle salme in tutte le foibe, a causa soprattutto delle insormontabili difficoltà tecniche (come ad esempio nelle voragini di Cregli, di Barbana, di Semi – Castel Lupogliano).
In altre foibe esplorate non si poté accertare il numero delle salme giacenti.
Secondo quanto riportato dagli storici Raul Pupo e Roberto Spazzali nel volume “Foibe” (Mondadori, 2003), nel corso di 31 esplorazioni in cavità naturali e artificiali vennero recuperare 217 salme, ma il numero degli scomparsi fu certamente superiore, e alcune fonti li indicano in circa 500 persone.
Secondo altri rilevamenti i cadaveri portati alla luce nelle sole foibe furono 170, ai quali si devono aggiungere i resti scoperti, ma non recuperati, di almeno 250 persone uccise. Nelle cave di bauxite furono recuperati i resti di 44 persone, ma le vittime gettate nelle cave non recuperate vengono stimate in almeno 150-200 unità, che assieme alle 19 fucilate a Santa Marina di Albona e ai nominativi di altre 360 persone scomparse dopo l’8 settembre, farebbero ammontare complessivamente a circa 650-750 il numero complessivo delle vittime delle persecuzioni partigiane in quel periodo. L’unico elenco delle vittime delle foibe rinvenuto negli archivi jugoslavi comprende i nomi di 237 persone uccise.
A prescindere dall’esatta valutazione numerica sulle foibe, una cosa è certa: la popolazione istriana uscì da questo breve ma funesto periodo della sua storia con un bilancio devastante. Al terrore dei bombardamenti, degli incendi, dei rastrellamenti, delle fucilazioni e delle uccisioni in massa operati dai tedeschi si aggiunse l’orrore, di gran lunga più raccapricciante, delle foibe, che indubbiamente avrebbe alimentato successivamente le motivazioni dell’esodo.
Un fenomeno certamente ricollegabile alla compresenza di spinte diverse, di natura nazionale, ideologica e sociale, le cui cause sono il frutto (tra violenza spontanea e di regime, ed ai margini di una difficile distinzione tra pulizia etnica e violenza rivoluzionaria) dell’intreccio di numerosi fattori: dai regolamenti di conti interni al mondo rurale istriano alla rivalsa nazionalista, sino al disegno di annientamento totale di un gruppo sociale considerato ostile al nuovo potere.
A finire nelle foibe evidentemente furono tutti coloro che potevano essere identificati con il regime e le istituzioni, i potenziali oppositori, ma anche non poche persone innocenti, come le tre giovanissime sorelle Radecca, una delle quali in avanzato stato di gravidanza, la studentessa Norma Cossetto di Santa Domenica di Visinada, seviziata e torturata (cui il rettore dell’Università di Padova, l’antifascista Concetto Marchesi conferirà la laurea post mortem); un diciottenne finito in una voragine assieme al padre, oppure il parroco di Villa di Rovigno, Don Angelo Tarticchio, il corpo del quale presentava orrende mutilazioni.
Dietro la violenza incontrollata non è difficile scorgere però anche i contorni di un progetto di annullamento delle strutture civili e di potere italiane nell’entroterra istriano e della sua sostituzione con il contropotere partigiano, un preciso disegno politico e nazionale ordito in particolare dai quadri più accesamente nazionalisti del Movimento di liberazione croato e sloveno, in particolare dagli emigrati appena ritornati dall’esilio in Jugoslavia e dai “narodnjaci” avvicinatisi al potere partigiano. (vedi: R. PUPO. “Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco Editore, 1999).