L’esodo dalla zona B del TLT rappresenta l’ultima coda del fenomeno più generale dell’esodo dei giuliano-dalmati. La sua particolarità sta in un altro fattore: vale a dire il prolungarsi fino al 1954 dell’incertezza sul destino statuale della zona, che in certa misura congelò o perlomeno impedì un esodo di massa nella prima metà degli anni Cinquanta, fino all’abbandono generalizzato del territorio da parte della popolazione italiana dopo il Memorandum di Londra del 1954. 

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Il primo, vero e clamoroso, segnale di crisi si manifestò nell’ottobre del 1945, con lo sciopero di protesta che a Capodistria coinvolse l’intera popolazione urbana contro l’introduzione della jugolira. Altrettanto significativa fu la risposta dei poteri popolari, che mobilitarono contro i capodistriani gli abitanti sloveni del contado, i quali affluirono in città per spezzare la resistenza degli scioperanti, al prezzo di due morti e numerosi feriti. In tal modo, le autorità mostravano di voler far propria fino alle estreme conseguenze quella polarità città/campagna che in Istria spesso si sovrapponeva alla contrapposizione nazionale: ma così facendo, si presentavano quali espressione esclusiva di una sola delle componenti nazionali della società locale.

Territorio Libero di Trieste 1947-1954

Territorio Libero di Trieste 1947-1954 (Egidio Ivetic, “Adriatico orientale. Atlante storico di un litorale mediterraneo”, CRS Rovigno)

Nel corso del 1946 e del 1947, ai già esistenti motivi di tensione si aggiunse un sensibile irrigidimento della politica antireligiosa del regime. Nei primi mesi del dopoguerra il clero si era fortemente diviso sulla questione nazionale, con i vescovi nettamente contrari vuoi al comunismo, vuoi all’annessione alla Jugoslavia ed il clero sloveno e croato invece portato a privilegiare l’obiettivo annessionista, per il quale le autorità jugoslave si battevano con grande efficacia, rispetto alla loro ispirazione comunista. Successivamente invece molti sacerdoti scoprirono a proprie spese che le benemerenze patriottiche non erano sufficienti a porli al riparo di un ’ondata persecutoria generalizzata, che si scatenò con particolare vigore a partire dal settembre 1946, con una serie di episodi clamorosi distribuiti in tutti i territori giuliani, fra i quali spiccano gli omicidi don Miro Bulesić a Lanischie (nei pressi di Pisino), di don Izidor Zavadlav a Salona di Isonzo e di don Francesco Bonifacio a Crassiza (nei pressi di Buie). 

Approfondimento: Gli attacchi al clero. Proteste nelle scuole

Meno cruenti ma non meno clamorosi furono il processo ai monaci del convento di Daila (nei pressi di Cittanova) e l’aggressione subita a Capodistria dal vescovo di Trieste, mons. Santin e quelle perpetrate a Salcano nei confronti di mons. Mocnik.

Una clamorosa manifestazione del solco che si era aperto fra i poteri popolari e la popolazione italiana, la si ebbe in occasione delle elezioni amministrative tenutesi in zona B nell’aprile del 1950, come risposta alle consultazioni comunali che il Governo militare alleato aveva celebrato l’anno prima nella zona A[1]. Per un verso, il massiccio astensionismo degli elettori italiani assunse le dimensioni di una protesta globale nei confronti delle autorità; per l’altro, la massiccia repressione che alla fine indusse al voto anche i più recalcitranti segnalò l’impossibilità di qualsiasi forma di resistenza passiva organizzata nei confronti del regime.

L’esodo di massa scattò quindi dopo l’entrata in vigore del Memorandum di Londra, che prevedeva il diritto di opzione per la cittadinanza italiana. 

Per la verità, il Memorandum contemplava anche alcune misure per la protezione delle minoranze (lo “Statuto speciale”, ma l’esperienza del decennio precedente aveva distrutto qualsiasi fiducia della popolazione italiana nei “poteri popolari” e il trasferimento in Italia venne giudicato quasi plebiscitariamente come l’unica soluzione possibile.