Per oltre mezzo secolo, almeno sino all’approvazione, nel 2004, della legge sul »Giorno del Ricordo«, la dimensione dell’esodo, delle foibe e della »più complessa vicenda del confine orientale« è stata relegata alla memoria e alla conoscenza di uno spicchio limitato della società, in qualche caso relegato all’ambito delle associazioni degli esuli, e a pochi enti di ricerca e di studio. Una serie di fattori politici, diplomatici, culturali, ideologici hanno fatto sì che questa realtà venisse colta dal fato della “damnatio memoriae”, e che il dramma che coinvolse la popolazione italiana dell’Adriatico orientale venisse, di volta in volta strumentalizzato, utilizzato per scopi ideologici e di parte, trasformato in arma per un “uso politico della storia”.
Fra le principali ragioni del silenzio vanno annoverate sicuramente quelle di carattere politico e ideologico. Il caso più evidente – come rileva lo storico Raul Pupo nel volume »Il lungo esodo«, è quello della cultura di sinistra, animata da un duplice ordine di preoccupazioni. La prima, e più generale – afferma Pupo – era quella di non dar fiato alle forze anticomuniste in Italia, cui la politica oppressiva del regime di Tito nei confronti degli italiani offriva abbondanti spunti polemici. La seconda era quella di stendere un velo di silenzio sui comportamenti quantomeno ambigui tenuti dal PCI sulla questione di Trieste nell’ultima fase della resistenza e nei primi anni del dopoguerra. Tali fattori hanno contribuito a diffondere tutta una serie di pregiudizi e stereotipi sull’esodo e gli esuli. Parlare di esodo e foibe significava, per questa parte, dare spazio alla propaganda nazionalista, anticomunista e antislava. Tuttavia le ragioni del silenzio e della »damnatio memoriae« possono essere ricondotte solo in parte a questi fattori, in quanto, nel mezzo secolo successivo al termine della Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata retta da un sistema liberal-democratico inserito nel sistema occidentale, con una lunga successione di governi guidati dalla Democrazia Cristiana e da partiti espressi da un contesto democratico e pluralistico e con un’informazione sostanzialmente libera.
Le cause del silenzio sono dunque da ricondursi anche, anzi, principalmente, a ragioni e meccanismi di carattere geopolitico, dettati dall’evolversi degli schieramenti e degli equilibri internazionali. Fra questi il mutamento del ruolo svolto dalla Jugoslavia sulla scena internazionale e nei confronti dell’Italia, a seguito della “risoluzione del Cominform” e della rottura con l’URSS.
Approfondimento: Gli strascichi del Cominform
Dopo il 1948, anno in cui esplose la crisi fra Tito e Stalin, la Jugoslavia si allontanò dal blocco sovietico, ottenendo un progressivo appoggio (politico, finanziario, economico e financo militare) da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Dopo la (provvisoria) conclusione della vertenza sul confine italo-jugoslavo nella Zona B con il Memorandum di Londra del 1954, anche i rapporti con l’Italia andarono gradualmente migliorando schiudendo lo sviluppo di una nuova rete di relazioni economiche (e di aiuti) anche da parte di Roma, nei confronti di una Jugoslavia che a livello politico, diplomatico e militare veniva vista sempre più come un’utile ”antemurale” al blocco sovietico e un’area “neutrale” (poi autodefinitasi “non allineata”) su cui poter contare nel complesso equilibrio di forze emergente in un’Europa divisa in due nette sfere d’influenza.
Approfondimento: Il Memorandum di Londra
“Per l’Italia – come afferma lo storico Raul Pupo in “Il lungo esodo” – significava disporre di un cuscinetto strategico di inestimabile valore che accresceva di molto la sicurezza al confine orientale, consentendo di ridurre significativamente gli oneri politici, finanziari e militari connessi a un eventuale schieramento in prima linea sul fronte della guerra fredda”. La Jugoslavia di Tito, divenuta per le potenze occidentali e anche per l’Italia un pilastro della stabilità in Europa e quindi un fattore di supporto agli interessi strategici e nazionali, non doveva essere dunque criticata o “molestata” con la questione dell’esodo, ovvero con riferimenti al trattamento riservato alla popolazione italiana dei territori ceduti; aspetti che avrebbero sicuramente contribuito a incrinare i rapporti – o a renderli problematici – con un Paese divenuto sostanzialmente “alleato” e “utile” nella complessa gestione degli equilibri geopolitici del momento.
Aprofondimento: Il trattato di Osimo
La questione dell’esodo e delle foibe costituiva uno dei fronti più problematici e delicati, dato che il regime comunista jugoslavo considerava tali aspetti come provocazioni atte a compromettere le relazioni bilaterali. I maggiori organi d’informazione, l’industria e le reti culturali italiane, il tessuto intellettuale, il mondo universitario e scolastico, l’editoria, gli enti di ricerca, i vari poli d’irradiazione in grado di influenzare e plasmare l’opinione pubblica e, soprattutto, la gran parte delle forze politiche contribuirono sostanzialmente, in modi e forme diverse, a “cancellare” ogni riferimento al trattamento subito nel dopoguerra dalla popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, ed a coprire con un “pietoso velo di silenzio” – quale tema di confronto e di discussione nell’opinione pubblica – la dimensione dell’esodo e delle complesse vicende del confine orientale.
La logica della “damnazio memoriae”, e i meccanismi dell’”oblio” divennero dunque “funzionali” alle esigenze di politica estera e, financo, alle direttrici fondamentali di politica interna professate dai principali partiti di governo e di opposizione.
I temi e le problematiche dell’esodo furono relegati quasi esclusivamente al perimetro delle associazioni degli esuli, della loro stampa ed editoria, di pochi validi storici e ricercatori e, soprattutto, vennero consegnati – nell’ambito di un uso politico della storia – alle forze di destra e tradizionalmente nazionaliste, o sfruttate episodicamente quale fattore di confronto e leva elettorale, in modo però da non incidere sostanzialmente sul reale livello d’informazione dell’opinione pubblica. Il contesto e le esigenze politiche, cui si assommarono i vecchi condizionamenti ideologici della sinistra, contribuirono a “rimuovere” la “questione” dalla coscienza collettiva di gran parte della Nazione.
Come rilevato dallo storico Raul Pupo “al di fuori dell’area di frontiera l’ambiente era del tutto sfavorevole alla ricezione delle tematiche legate al confine orientale. E quando un problema non interessa a nessuna delle principali culture politiche nazionali, è piuttosto improbabile che incontri l’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, dell’editoria e, in parte, della stessa comunità degli storici”. Per quanto riguarda le complesse vicende del confine orientale, piuttosto che parlare di una vera e propria “congiura del silenzio” – ci spiega Raul Pupo – sarebbe più adeguato parlare di una combinazione di rimozioni reciproche e selettive delle vicende più dolorose dell’italianità adriatica.
Approfondimento: Il contesto storico
Solo negli ultimi decenni, e in particolare con l’approvazione nel 2004 della Legge del ricordo (92/04), tale “rimozione” dalla coscienza collettiva degli italiani è stata parzialmente superata, dando vita a un nuovo clima di conoscenza, condivisione e comprensione del fenomeno dell’esodo, coinvolgendo le scuole e le università, e sviluppando nuove iniziative e approcci di carattere culturale, divulgativo e d’informazione.
I più recenti atti simbolici compiuti congiuntamente dalle più alte cariche istituzionali e politiche italiane, slovene e croate, (specificatamente l’incontro dell’“amicizia” dei tre presidenti Napolitano, Turk e Josipović nel luglio del 2010 in occasione del concerto di Muti a Trieste, l’incontro all’Arena di Pola fra Napolitano e Josipović nel 2011, e l’omaggio comune di Mattarella e Pahor alla foiba di Basovizza nel luglio del 2020 in occasione della restituzione simbolica del Narodni Dom a Trieste), hanno contribuito a sviluppare un contesto nuovo, in cui oggi è più facile parlare dell’esodo e considerare la sua dimensione come un patrimonio comune e realmente condiviso.